di Laura Pennacchi
L’instabilità e l’incertezza frenano l’economia globale – imprigionata nella “crisi senza fine” dopo anni di politiche monetarie. Ultraespansive e insufficienti. In assenza di politiche di bilancio analogamente espansive, non c’è rilancio su basi meno fragili della crescita. L’unica risposta adeguata sono “lavoro” e “investimenti”. Tale è la bandiera dei democratici di Hillary Clinton e ciò viene riconosciuto a Jackson Hole, al simposio delle banche centrali di tutto il mondo promosso dalla Fed.
Nella discussione sulle connessioni tra più bassa dinamica della produttività e della crescita e nuovo e più basso livello di equilibrio “naturale” dei tassi di interesse si riverberano gli echi della riflessione sui rischi di “stagnazione secolare”. Il premier Renzi, però – peraltro alla testa di un paese che si conferma in serie difficoltà in un’Europa sempre più in panne e dove è a rischio la stessa tenuta dell’euro – non si comporta di conseguenza, perché non attiva quel “ruolo strategico” dell’intervento pubblico che sarebbe necessario, ruolo esercitabile in special modo mediante “investimenti diretti” (dal 2008 crollati del 28% nell’Unione europea e del 30% in Italia) e assai meno con il taglio delle tasse.
Nessuno – tanto meno la minoranza Pd – è pregiudizialmente ostile ad abbassarle, ma tutti dovrebbero riconoscere la natura di tipico incentivo indiretto, non in grado di funzionare come panacea di tutti i mali, tanto più se esaltato con i classici argomenti della destra, per la quale le tasse, lungi dall’essere un contributo al bene comune (come dice il Catechismo sociale della Chiesa) con cui finanziare servizi e beni pubblici, sono un “esproprio”, un “furto” dell’orrido Leviatano statale ai danni dei cittadini.
Sta qui la deriva culturale di profondità inaudita su cui bisognerebbe concentrarsi, non esorcizzabile con il sarcasmo e con le facili battute più o meno populisticamente connotate anche quando di marca governativa.
Contro i guasti dell’austerità restrittiva e deflazionistica di marca ordoliberale tedesca, Renzi fa bene a reclamare dalla Commissione europea ulteriori margini di “flessibilità” (cioè possibilità di maggior deficit), fa male, invece, a non avere una visione di lungo termine di tali margini pensando di utilizzarli per finanziare, anziché un grande Piano di investimenti e per la creazione diretta di lavoro per giovani e donne, riduzioni di tasse e benefici fiscali, per di più contravvenendo – trattandosi di spesa corrente – alla golden rule che vorrebbe finanziati in deficit solo gli investimenti produttivi.
Sono molto eloquenti le dichiarazioni del sottosegretario Nannicini che ha ripetutamente indicato come asse della prossima Legge di stabilità, al fine di sollecitare l’incremento della produttività, una defiscalizzazione generalizzata, nella quale comprendere anche l’ulteriore detassazione dei premi di risultato (con una somma incentivata che dovrebbe salire a 4 mila euro l’anno fino a 80 mila euro di reddito) da collegare a una riforma della contrattazione di torsione aziendalistica.
In questa scelta Nannicini ha inserito anche l’ipotesi di rendere strutturale – ma non fiscalizzata! – la decontribuzione per i nuovi assunti, senza alcun riguardo per il fatto che, con il sistema contributivo, ciò si tradurrebbe in pensioni inferiori per i giovani, dei quali, in effetti, nonostante il gran parlare che se ne fa, nessuno si occupa davvero.
Né tranquillizza che tale ipotesi e l’idea del presidente dell’Inps Boeri di trarre nuovi risparmi dalle sole pensioni medio-basse e alte – invece che, attraverso il fisco, da tutti redditi – vengano rinviate al 2018, perché in agguato è la possibilità di sommare il danno alla beffa: subito per l’imminente prova referendaria benefici pensionistici a pioggia (ma non per i giovani!), dopo una vera e propria batosta.
In realtà, di fronte ai rischi di “stagnazione secolare” e a una disoccupazione giovanile ferma al livello record del 34%, quello che occorre è un big push di grande potenza e qualità, straordinario quanto è straordinaria la situazione odierna, un Piano di investimenti diretti (pubblici e privati) in aree cruciali e tuttavia in grado di attivare immediatamente nuova occupazione, non solo di stabilizzare quella che già c’è, come era nel progetto di “Esercito del lavoro” di Ernesto Rossi, uno degli estensori del Manifesto di Ventotene: rigenerazione delle città, risanamento dei territori, riqualificazione ambientale, beni culturali, reti, scuola, sanità, bambini e adolescenti, welfare universalistico (non solo aziendale!).
E’ vero che gli investimenti nei beni pubblici europei dovrebbero avvenire a scala dell’Unione, ma sussistono molti margini a livello nazionale. Non bastano l’iniziativa del ministro Del Rio per sbloccare le risorse (peraltro già stanziate con impegni pluriennali) per infrastrutture e grandi opere, né quella “Industria 4.0” del ministro Calenda, piena solo di stimoli fiscali, incentivi indiretti, misure mediate per la competitività.
Tutti i manuali di economia insegnano che la produttività non ha alcuna relazione con il taglio delle tasse: c’è solo per la reaganiana “economia dell’offerta” e la curva di Laffer, idoli della destra e dei tea party . Ed è Il Sole 24 ore a ricordarci (si veda da ultimo Bastasin del 19 agosto) che l’incremento della produttività dipende dagli investimenti e dalla «creazione e diffusione di nuove innovazioni e di tecniche di management efficienti».
Così come sono gli stessi Fmi e Ocse a segnalare che il moltiplicatore della spesa diretta in investimenti (fino a 3 in tre anni) è molto superiore a quello delle entrate (0,5, 0,7 appena).
In definitiva investimenti pubblici diretti attivatori di maggiori investimenti privati, capaci di intervenire simultaneamente sia sulla domanda sia sull’offerta, sono richiesti per due ragioni.
A fronte di aspettative di profitto basse e incerte i privati non investono, pur sommersi da una marea di liquidità, come aveva diagnosticato Keynes più di settanta anni fa.
Bisogna cambiare un intero modello di sviluppo e questo può farlo solo un operatore pubblico non indotto ad abdicare alle proprie responsabilità in favore della “domanda delle imprese” dalla paura di sposare le “velleità dirigistiche” temute dal ministro Calenda, ma animato dalla volontà di interpretare in una grande spirito progettuale quella “solida visione strategica” indicata da Romano Prodi.
Fonte: il manifesto
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