di Alessio Miatto
Quando, contattato dall’International resource panel dell’Unep, mi venne chiesto di calcolare il consumo di aggregati da costruzione (ghiaia, sabbia, limo e argilla), mi chiesi quale fosse il motivo di questa richiesta. In fin dei conti, questi materiali sono ampiamente disponibili praticamente in ogni zona del pianeta, hanno un valore economico bassissimo, e di certo non ne siamo a corto. Il problema non è però il rischio del loro esaurimento, quanto tutta la serie di problemi che la loro estrazione comporta. Deforestazione, perdita di biodiversità, incremento del rischio di frane e slavine, contaminazione delle falde acquifere sono solo alcuni dei problemi che l’eccessivo uso di queste risorse sta provocando.
Dal 1970 al 2010 l’estrazione e il consumo globale di materie prime nel mondo è passato da 22 a 70 miliardi di tonnellate, mentre il sottogruppo degli aggregati da costruzione è stata la categoria che ha visto il maggior incremento, pari a circa il 390%, passando da circa 9 a 35 miliardi di tonnellate. Su scala globale, il consumo di risorse naturali non solo non accenna a diminuire, ma neppure a rallentare.
Oltre 40 anni fa (nel 1973) Herman Daly, professore di economia presso l’università di Yale, scrisse un libro che sarebbe diventato una delle pietre miliari degli studenti di ecologia: “Toward a Steady-state Economy”[1]. Daly spiegava come l’economia è un prodotto dell’uomo, pertanto è un sottosistema che esiste solamente all’interno dell’ambiente antropizzato. L’uomo, a suo volta, è solamente uno delle tante specie viventi che popolano la Terra, e si tratta perciò di un sottosistema dell’ambiente naturale. È pertanto logico concludere che l’economia è un sottosistema – e pertanto dipendente – dell’ambiente naturale. La Terra è un sistema complesso ed enorme, dove miliardi di esseri viventi si incontrano e scontrano ogni giorno, ognuno alla ricerca del soddisfacimento dei propri bisogni. Eppure, per quanto grande sia questo sistema, non è infinito, e vi è un vero e proprio limite fisico alla quantità di risorse delle quali possiamo usufruire.
Mentre nelle aule universitarie si discute dell’opportunità di limitare la nostra crescita economica al fine di salvaguardare il nostro pianeta tutti i quotidiani, sia nazionali che stranieri, ci bombardano di notizie economiche circa l’andamento del Pil, disperandosi ogni qual volta l’economia stagni o si contragga, sperticandosi in parole di euforia ad ogni segno positivo degli indici e sprecando fiumi di inchiostro per ogni manovra economica che questo o quel governo stia attuando al fine di rinvigorire la crescita economica.
Eppure dovrebbe essere chiaro che uno stato di perpetua crescita sia una pura chimera, in quanto cozza con la limitatezza delle nostre risorse naturali. Il rapporto Irp indica come i paesi più industrializzati consumino in media 8-10 volte più materie prime dei paesi meno sviluppati. Cosa faremo quando tutte le popolazioni delle nazioni emergenti arriveranno ad avere standard di vita simili a quelle dei paesi più industrializzati? Attualmente questi ultimi consumano 20-25 tonnellate di materie per persona ogni anno, i mercati emergenti ne consumano circa 10, mentre quelli africani solamente 3. Se tutti gli attuali 7,4 miliardi di individui vivessero secondo i canoni occidentali, ogni anno dovremmo estrarre oltre 185 miliardi di tonnellate di materie prime, ovvero oltre 2,5 volte il consumo attuale.
Il rapporto dell’Irp mostra dati allarmanti. Le risorse della Terra vengono già sfruttate ben oltre il naturale ciclo di rinnovamento, e allo stesso tempo il nostro consumo non accenna battute d’arresto.
Ciò che abbiamo in mano in questo momento è la diagnosi, quello che dobbiamo trovare ora è una cura. Purtroppo una ricetta condivisa da tutti non c’è, e ancora oggi la maggior parte dei nostri politici fa orecchie da mercante quando parliamo di limiti fisici della crescita economica. Probabilmente, nel sentir parlare di economia stazionaria, fosche immagini di persone affamate in coda per una razione di pane si formano nella mente. O forse peggio: la perdita delle prossime elezioni. Eppure l’utopia di una crescita inarrestabile cozza non solo con l’oggettiva limitatezza delle risorse terrestri, ma con tutti i dati macroeconomici degli ultimi anni. Questi indicano come sia nei paesi sviluppati, che in quelli in forte sviluppo (i cosiddetti Brics), la percentuale di crescita annua stia via via sempre più rallentando. Nel 1961 la media di crescita del Pil mondiale era del 5%, oggi è meno della metà (2,4%, secondo la Banca mondiale).
Volenti o nolenti l’economia sta rallentando. Possiamo continuare a remare contro la corrente e cercare di indurre una ripresa dei consumi (parole già troppe volte sentite nei nostri telegiornali), oppure ripensare i nostri modelli economici, in modo da individuare dei validi modi per promuovere uno sviluppo economico senza al contempo indurre un incremento del consumo di risorse naturali.
[1] Oggi il testo è giunto alla sua terza edizione, e ha cambiato il titolo in “Steady State Economics”.
Fonte: Green Report
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