di Alberto Negri
Fallito il tentativo di abbattere con i jihadisti Assad - salvato da russi, iraniani ed Hezbollah - Erdogan attacca l’Isis in Siria per contrastare l’avanzata dei curdi. Jarablus è la nostra “linea rossa”, avevano dichiarato i generali turchi prima di lanciare un’offensiva con aviazione e truppe speciali contro una delle roccaforti siriane dell’Isis: in realtà la linea rossa era tracciata non tanto contro lo Stato islamico ma per evitare che la città venisse conquistata dalle forze curde siriane, vero obiettivo di Ankara. Lo scopo di questa operazione militare a sostegno di non troppo chiare “forze ribelli” è spezzare la continuità territoriale delle zone occupate dalle milizie di “Unità di protezione del popolo” (Ypg), una fascia di circa 400 km dal Nord della Siria fino ai confini con l’Iraq.
È questo l’embrione di un possibile stato curdo. Il loro leader Saleh Moslem ha reagito all’offensiva dichiarando: «La Turchia è nel pantano siriano. Sarà sconfitta come l’Isis». Che sta diventando quasi obiettivo secondario: se i turchi avessero voluto lo avrebbero già colpito negli anni passati invece di usare i jihadisti per bastonare le forze curde anti-Califfato come accaduto a Kobane.
Erdogan, mentre atterrava in Turchia il vicepresidente americano Joe Biden, è stato chiaro: «Isis e curdi sono entrambi terroristi». Posizione ben nota che contrasta con quella degli Stati Uniti: Washington appoggia con l’aviazione l’avanzata dei curdi che hanno conquistato, insieme agli arabi delle Forze siriane democratiche (Sdf), la roccaforte di Manbij sull’asse di comunicazione verso Raqqa, capitale del Califfato.
La questione curda riflette come in uno specchio deformante le acuminate sfaccettature del conflitto siriano e le sue molteplici dimensioni da “Jugoslavia araba”: dalla guerra civile a quella per procura, dallo scontro etnico a quello religioso e settario, all’irredentismo dei curdi. Le forze dell’Ypg curde e Damasco hanno appena raggiunto un accordo per il cessate il fuoco ad Hasaka, nel nord della Siria, dopo una battaglia che era stata la prima dopo anni in cui il regime aveva sospeso gli attacchi ai curdi. I bombardamenti di Damasco erano stati letti alla luce delle dichiarazioni del premier turco Binali Yildirim a favore di un ruolo di Assad nella transizione siriana. In realtà le posizioni turche e siriane sui curdi possono coincidere: nessuno ha interesse alla nascita di uno stato curdo, neppure l’Iran, alleato di ferro di Damasco, che ha una minoranza curda consistente ai confini con l’Iraq.
La Turchia vive come un incubo strategico la possibilità di una zona curda indipendente che può costituire un polo d’attrazione anche per il Kurdistan turco. Per questo Ankara, oltre ad avere scatenato una guerra contro i curdi del Pkk, cerca di intrattenere buoni rapporti con i curdi iracheni: il presidente Massud Barzani si è recato ad Ankara, maggiore cliente del suo petrolio il cui sfruttamento costituisce uno dei motivi di scontro con il governo centrale di Baghdad. Ancora ambigua la posizione dei russi, che sembrano intenzionati a sponsorizzare la partecipazione dei curdi siriani ai negoziati Onu ma stanno anche negoziando con Erdogan, pronti come gli americani a strumentalizzare i curdi o a sacrificarli, a seconda delle necessità tattiche e strategiche. In Iraq, dopo i massacri di curdi e sciiti del ’91, era sorta una zona curda autonoma che poi è consolidata a Erbil con la caduta di Saddam, ma in Siria questa suddivisione è più complicata. Soprattutto la leadership dei curdi siriani non appare a prima vista così manovrabile dall’esterno e corrotta come quella di Barzani, leader di stampo fortemente feudale.
Come si vede la partita siriana va ben oltre l’Isis, coinvolge tutti gli attori locali e le potenze esterne: ma la Turchia è sicuramente lo Stato che può pagare il prezzo più alto. Erdogan puntava a mettere le mani su parte della Siria e dell’Iraq, estendendo la sua influenza al cuore del Medio Oriente, ma la resistenza di Assad e soprattutto l’intervento della Russia hanno cambiato la situazione. Quindi ha dovuto andare da Vladimir Putin, adesso è pronto a trattare con Assad ma soprattutto con gli americani facendo leva sulla sua storica posizione di bastione, ondivago e traballante, della Nato.
Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore
Fonte: pagina Facebook dell'Autore
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