di Alessandro Santagata
Chiunque abbia avuto occasione di frequentare le facoltà umanistiche italiane non potrà che condividere il pessimismo di Davide Miccione nel suo Lumpen Italia. Il trionfo del proletariato cognitivo (Ipoc, pp. 2012, euro 16). In un saggio agile e spietato l’autore dà voce a un’insofferenza comune o, per meglio dire, a una comune perdita di senso. La definizione d’«ignorante ipermoderno», utilizzata per descrivere l’uomo nuovo dell’età digitale, non può che destare una certa ritrosia in chi crede nella diversità dei saperi.
Tuttavia, Miccione pone un problema molto serio che riguarda la trasformazione antropologica della società e dunque la stessa possibilità d’accedere con coscienza alla sfera della conoscenza. La progressiva svalutazione delle discipline umanistiche e la tendenza all’iper-settorializzazione – spiega l’autore – stanno producendo un cambiamento profondo nel modo di pensare. Il disprezzo per gli intellettuali, sempre più forte nell’Italia post-berlusconiana, non è la vera causa del problema. Il nodo, molto più complesso, concerne le categorie con le quali si insegna oggi a leggere la realtà.
In uno dei passaggi più amari del libro Miccione racconta la sua esperienza di professore, le difficoltà degli studenti di una facoltà di Lettere a comprendere i testi oggetto di esame, a collocare gli eventi nello spazio e nel tempo, e, soprattutto, a interrogarsi sulle interrelazioni e sui concetti di fondo della disciplina filosofica.
All’esperienza personale presso l’Università di Catania l’autore affianca una serie d’inchieste e di studi (quello di Graziella Priulla, per esempio). La riflessione si estende quindi al mondo della scuola, sul quale Miccione chiama in causa un’ampia bibliografia . Ne emerge un quadro, in cui «tutto sembra farsi flusso indistinto e la specificazione, qualunque essa sia (nomi, date, luoghi) appare ormai come pignoleria».
Si tratta di una crisi di portata mondiale e da questo punto di vista sono molto efficaci gli spunti di Martha Nussbaum, tra le prime a denunciare un problema che la politica internazionale sta continuando a ignorare. Non c’è dubbio però che il caso italiano si presenti come particolarmente difficile.
Di fronte al progressivo declino degli investimenti statali che sta portando alla morte il mondo della ricerca, e in particolare di quella umanistica (più in difficoltà di altre nel reperire finanziamenti), cresce il classismo sociale e la cultura, quando non è ridotta a festival, ritorna ad appannaggio di pochi privilegiati e delle istituzioni d’eccellenza. Contemporaneamente – osserva Miccione – si diffonde l’«idea che le abilità tecniche e le competenze immediatamente spendibili siano ormai immensamente più importanti della cultura generale. Con ciò, si postula come unica valida l’idea di società in quanto macchina produttiva e degli individui come mezzi, il cui senso è dato dall’essere idonei a portarla avanti».
E fuori dalle aule? I passaggi dell’inchiesta di Miccione restituiscono un panorama ormai noto, ma non per questo meno inquietante. La pratica della lettura sta praticamente scomparendo in un mondo in cui – come ha scritto il linguista Raffaele Simone – «la conoscenza si acquista non più attraverso il libro e la scrittura, ma attraverso l’ascolto o la visione non alfabetica». La realtà mainstream, apparentemente complessa, si riduce a poche dimensioni schiacciate sul presente.
Gli effetti di questa trasformazione non sono ancora facilmente decifrabili e vanno ben oltre l’affermazione delle destre populiste. Controversa è anche l’idea che si starebbe sviluppando un «sottoproletariato cognitivo», massa di manovra per nuove politiche di sfruttamento. Viene da chiedersi piuttosto, al di là di giudizi che lasciano il tempo che trovano, quali strumenti le facoltà umanistiche siano in grado di offrire per valorizzare le nuove e gigantesche potenzialità cognitive. In altre parole, ammesso che si voglia parlare di una «crisi cognitiva», c’è da credere che il soggetto in crisi siano proprio i docenti universitari, «ignoranti» nell’ipermodernità, di cui appunto spesso non conoscono gli strumenti analitici. Anche su questo terreno si registra il fallimento dell’università pubblica, che – come scrive Miccione – non riesce a svolgere una funzione di recupero culturale, risultando così subalterna alle logiche esterne, ma che non riesce neppure a comprendere i caratteri del cambiamento e quindi a ritrovare una missione sociale.
Fonte: Il manifesto
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