di Piero Bevilacqua
Il terremoto che ha colpito i paesi del Reatino, come spesso accade agli eventi catastrofici, è un potente disvelatore di gravi questioni. E non si tratta soltanto, come al solito, dei consunti benché sacrosanti temi che siamo costretti a ripetere come un rosario dopo ogni sisma devastatore. Vale a dire la sempiterna mancanza di previdenza nella costruzione degli edifici, la nessuna consapevolezza storica del territorio, la rimozione di ogni “memoria” dei luoghi, della loro fragilità, della sfida sotterranea che un suolo come quella della Penisola lancia al futuro di ogni edificazione.
L’immagine della torre dell’orologio di Amatrice (tredicesimo secolo), che svetta ancora intatta su un cumulo di abitazioni in macerie, è un atto di accusa che i costruttori dei secoli passati lanciano contro la modernità di cartapesta dei contemporanei.
Ma questo terremoto, che per fortuna non ha colpito una città, com’è accaduto a L’Aquila, né grandi centri abitati, disvela anche altro. E’ un grande e sinistro fascio di luce gettato su quelle estese aree del nostro territorio che per convenzione ormai chiamiamo “aree interne”. E’ la vasta Italia della dorsale appenninica e pre-appenninica, l’Italia delle montagne e soprattutto delle colline. Un’area che si va sempre più spopolando, disgregando tanto sotto il profilo sociale che territoriale, modificando in maniera drammatica la geografia nazionale. Un immenso “osso”- per riprendere una vecchia e nota metafora di Manlio Rossi Doria – si va sempre più dilatando lungo la fascia centrale della Penisola, mentre la “polpa”- l’area più ricca di attività produttive, servizi, popolazione- si va restringendo progressivamente sui versanti costieri.
E’ un processo che costituisce una perdita economica e sociale gigantesca, già oggi e che ne prepara una ancora più drammatica per l’avvenire. L’abbandono delle aree interne comporta infatti il progressivo decadimento di un immenso patrimonio edilizio, spesso frutto di una sedimentazione secolare, e non privo di beni monumentali di pregio. Ma con i paesi deperiscono anche le economie che li sostenevano. Per millenni la nostra agricoltura è stata prevalentemente collinare. Ora si lascia che terre fertili- fonte di sostentamento e ricchezza per infinite generazioni – siano abbandonate, invase dalla macchia, o oggetto di speculazione edilizia. E che dire dei boschi, habitat produttivi di prima grandezza, ecosistemi di rilevante utilità, oggi sempre più lontani da un orizzonte di governo consapevole? Come se la ricchezza dell’Italia si esaurisse nell’industria e nelle banche. Come se l’industria e perfino le banche non dipendessero alla fin fine anche dalla salute del territorio.
Le attuali classi dirigenti ignorano infatti sovranamente il delicato equilibrio ambientale su cui si è venuta evolvendo la geografia della Penisola. Questo equilibrio ha avuto il suo centro nell’area dell’”osso”, là dove si formano le forze dinamiche dei processi erosivi che dal monte scendono a valle, verso le coste e il piano. Se le aree interne vengono abbandonate e nessun aggregato demografico presidia più il territorio, questo equilibrio si rompe e la “polpa” delle pianure e delle coste pagherà prezzi altissimi ad ogni alluvione stagionale. Anche le industrie ed i servizi verranno colpiti.
Strano Paese il nostro. Ormai da anni demograficamente fermo, con una popolazione sempre più vecchia, investe soldi, istituzioni ed energia per segregare tanti disperati che approdano alle nostre coste come degli appestati. Eppure si tratta in genere di giovani, desiderosi di costruirsi una vita degna, in cerca di una qualche patria. Se i nostri governanti fossero dotati di qualche barlume di visione, di un minimo di capacità pianificatoria – smettendo l’ormai comodo alibi di un mercato risolutore di ogni problema – il grande dramma dell’immigrazione si rovescerebbe, nel giro di qualche anno, in una potente leva di “riconversione ecologica” del nostro territorio. Un’occasione per voltare una pagina di ripetuti fallimenti.
Ci auguriamo che la ricostruzione dei paesi distrutti dal sisma non avvenga secondo una logica di puro risarcimento delle popolazioni colpite, ma costituisca l’avvio di un nuovo corso per fare dell’Italia interna il cuore di un rinnovato rapporto tra popolazioni e risorse.
Fonte: Il manifesto
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