di Tomaso Montanari
«Ci vogliono due impegni: il primo a ricostruire in fretta, e il secondo a cominciare a rifare il Paese in modo antisismico, perché i terremoti vengono casualmente, ma i morti no»: ieri è stata questa, di Romano Prodi, la sintesi più efficace. Davvero l’unico modo per dare un senso a queste morti e a queste distruzioni è che questi due impegni vengano presi, e onorati.Il primo sembrerebbe facile: perfino ovvio in quella che è, nonostante tutto, una delle più potenti economie del mondo. E invece la ricostruzione dell’Aquila arranca ancora, dopo anni perduti e dopo errori che hanno forse distrutto per sempre il tessuto sociale di uno dei venti capoluoghi di regione del nostro Paese.
Ma oggi il governo ha l’occasione di dimostrare che qualcosa è cambiato davvero: la ricostruzione di Amatrice e degli altri luoghi colpiti può — deve — diventare un esempio da manuale. Un esempio positivo. Ma è il secondo impegno, quello a rifare antisismica l’Italia, la sfida vera: quella più carica di futuro. I terremoti italiani non sono una fatalità: sono la normalità con cui dobbiamo imparare a convivere. La meno pericolosa delle quattro zone in cui la Mappa della classificazione del rischio sismico divide l’Italia è quella in cui i terremoti sono “rari”: non inesistenti, e non innocui, ma rari. Il che significa che nessuno è al sicuro, in nessun luogo, mai: nell’ultimo millennio l’Italia ha subito un terremoto dagli effetti catastrofici mediamente ogni dieci anni. E dunque, se non investiamo in prevenzione i morti non li provoca il terremoto: li provochiamo noi. Sull’onda dell’emozione suscitata dal disastro dell’Aquila, una legge del 2009 ha previsto che siano finanziati interventi per la prevenzione del rischio sismico su tutto il territorio nazionale: un passo culturalmente importante, ma drammaticamente insufficiente nella sua attuazione pratica. La legge prevede, infatti, l’erogazione di un miliardo in dieci anni: «solo una minima percentuale, forse inferiore all’1%, del fabbisogno necessario per il completo adeguamento sismico di tutte le costruzioni, pubbliche e private, e delle opere infrastrutturali strategiche» (così la Protezione Civile). In questo 2016, per esempio, stiamo spendendo la cifra irrisoria di 44 milioni. E non perché le casse siano vuote: basta rammentare che lo Sblocca Italia varato dal governo Renzi ha assegnato 3,9 miliardi in cinque anni alle Grandi Opere, o ricordare che un’opera inutile e ambientalmente disastrosa come la autostrada Orte-Mestre (per ora fermata dalle inchieste) dovrebbe costare 10 miliardi (2,5 già stanziati). È qua, di fronte a questi numeri, che occorre uno scatto: dobbiamo convincerci che la messa in sicurezza del nostro territorio è l’unica Grande Opera davvero sensata. Non l’ideologico e faraonico Ponte sullo Stretto, che si continua a vagheggiare, ma la prevenzione dei danni dei terremoti, e delle alluvioni: una Grande Opera che avrebbe un enorme impatto positivo sull’economia e sull’occupazione, senza distruggere, ma una volta tanto risanando il corpo dell’Italia. Un capitolo di questa grande impresa dovrà riguardare il patrimonio culturale. Ancora non sappiamo cosa è successo ai monumenti delle zone colpite. È anzi un po’ sconcertante che gli italiani, e i ricercatori di tutto il mondo, provino ad intuirlo dalle foto (drammatiche quelle del campanile di Accumoli, e delle chiese di Amatrice) postate sui social, e non dalla voce del ministero per i Beni culturali, che ha fissato solo a stamani la riunione della sua unità di crisi (mentre è noto che, per le opere d’arte proprio come per le persone, è nelle prime ore che si possono fare interventi decisivi). In ogni caso, è chiaro che non possiamo continuare a sperare nella buona sorte: siamo ancora lontanissimi dalla redazione di quel Piano per la conservazione programmata del patrimonio culturale che già negli anni Settanta Giovanni Urbani cercò, invano, di far realizzare. In mancanza di un progetto generale, pochissimo si è fatto: mentre troppi palazzi e chiese antichi continuano ad essere riempiti di cemento, che invece di rafforzarli li rende espostissimi alle scosse. È forse utopico pensare di contendere alla forza del terremoto ogni vita, ogni monumento: ma è certamente imperdonabile continuare a non provarci nemmeno.
Ma oggi il governo ha l’occasione di dimostrare che qualcosa è cambiato davvero: la ricostruzione di Amatrice e degli altri luoghi colpiti può — deve — diventare un esempio da manuale. Un esempio positivo. Ma è il secondo impegno, quello a rifare antisismica l’Italia, la sfida vera: quella più carica di futuro. I terremoti italiani non sono una fatalità: sono la normalità con cui dobbiamo imparare a convivere. La meno pericolosa delle quattro zone in cui la Mappa della classificazione del rischio sismico divide l’Italia è quella in cui i terremoti sono “rari”: non inesistenti, e non innocui, ma rari. Il che significa che nessuno è al sicuro, in nessun luogo, mai: nell’ultimo millennio l’Italia ha subito un terremoto dagli effetti catastrofici mediamente ogni dieci anni. E dunque, se non investiamo in prevenzione i morti non li provoca il terremoto: li provochiamo noi. Sull’onda dell’emozione suscitata dal disastro dell’Aquila, una legge del 2009 ha previsto che siano finanziati interventi per la prevenzione del rischio sismico su tutto il territorio nazionale: un passo culturalmente importante, ma drammaticamente insufficiente nella sua attuazione pratica. La legge prevede, infatti, l’erogazione di un miliardo in dieci anni: «solo una minima percentuale, forse inferiore all’1%, del fabbisogno necessario per il completo adeguamento sismico di tutte le costruzioni, pubbliche e private, e delle opere infrastrutturali strategiche» (così la Protezione Civile). In questo 2016, per esempio, stiamo spendendo la cifra irrisoria di 44 milioni. E non perché le casse siano vuote: basta rammentare che lo Sblocca Italia varato dal governo Renzi ha assegnato 3,9 miliardi in cinque anni alle Grandi Opere, o ricordare che un’opera inutile e ambientalmente disastrosa come la autostrada Orte-Mestre (per ora fermata dalle inchieste) dovrebbe costare 10 miliardi (2,5 già stanziati). È qua, di fronte a questi numeri, che occorre uno scatto: dobbiamo convincerci che la messa in sicurezza del nostro territorio è l’unica Grande Opera davvero sensata. Non l’ideologico e faraonico Ponte sullo Stretto, che si continua a vagheggiare, ma la prevenzione dei danni dei terremoti, e delle alluvioni: una Grande Opera che avrebbe un enorme impatto positivo sull’economia e sull’occupazione, senza distruggere, ma una volta tanto risanando il corpo dell’Italia. Un capitolo di questa grande impresa dovrà riguardare il patrimonio culturale. Ancora non sappiamo cosa è successo ai monumenti delle zone colpite. È anzi un po’ sconcertante che gli italiani, e i ricercatori di tutto il mondo, provino ad intuirlo dalle foto (drammatiche quelle del campanile di Accumoli, e delle chiese di Amatrice) postate sui social, e non dalla voce del ministero per i Beni culturali, che ha fissato solo a stamani la riunione della sua unità di crisi (mentre è noto che, per le opere d’arte proprio come per le persone, è nelle prime ore che si possono fare interventi decisivi). In ogni caso, è chiaro che non possiamo continuare a sperare nella buona sorte: siamo ancora lontanissimi dalla redazione di quel Piano per la conservazione programmata del patrimonio culturale che già negli anni Settanta Giovanni Urbani cercò, invano, di far realizzare. In mancanza di un progetto generale, pochissimo si è fatto: mentre troppi palazzi e chiese antichi continuano ad essere riempiti di cemento, che invece di rafforzarli li rende espostissimi alle scosse. È forse utopico pensare di contendere alla forza del terremoto ogni vita, ogni monumento: ma è certamente imperdonabile continuare a non provarci nemmeno.
Articolo da La Repubblica del 25 agosto 2016.
Fonte: emergenzacultura.org
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