di Ash Amin
Il vento malefico che spira in Europa va riconosciuto e considerato pienamente nelle sue implicazioni. La posta in gioco è la scelta tra un’apertura fiduciosa e un cauto sospetto nei confronti di ciò che è nuovo e sconosciuto. Entrambi gli atteggiamenti hanno prevalso in passato in Europa, l’uno guardando avanti e fuori dai propri confini con un atteggiamento di curiosità e reciprocità ispirata da umanesimo, cosmopolitismo, progresso e democrazia, e l’altro con un sospetto arrogante e inquieto, spesso guidato da questi stessi ideali ma riservati esclusivamente all’Europa e agli europei. Il patrimonio europeo è fatto di impegno democratico ed esclusione autoritaria.
La forte interdipendenza globale che ha contribuito a plasmare l’Europa nel XXI secolo, oggi le impedisce di adottare una ritirata purista che non appaia anti-storica, una pura provocazione per una minoranza ragguardevole d’Europa e per una maggioranza isolata della cui totale collaborazione l’Europa ha bisogno per ottenere un futuro di pace, stabilità e opportunità economiche. Oggi patria di milioni di cittadini dalle origini non europee e con i più svariati orientamenti culturali e religiosi, l’Europa è un crocevia di reti transnazionali che incorporano quasi tutti i suoi cittadini e residenti. È, allo stesso tempo, un luogo in cui prendono vita sentimenti radicati nel mito dell’origine e della tradizione e un luogo di identità e affiliazioni cosmopolite, nonché di geografie culturali ibride. In un’Europa come questa, sembra anacronistica e potenzialmente provocatoria l’idea di chiudere i confini, fare il gioco dei buoni insider e dei cattivi outsider per difendere la purezza etnica e culturale e demonizzare tutto ciò che è diverso.
La forte interdipendenza globale che ha contribuito a plasmare l’Europa nel XXI secolo, oggi le impedisce di adottare una ritirata purista che non appaia anti-storica, una pura provocazione per una minoranza ragguardevole d’Europa e per una maggioranza isolata della cui totale collaborazione l’Europa ha bisogno per ottenere un futuro di pace, stabilità e opportunità economiche. Oggi patria di milioni di cittadini dalle origini non europee e con i più svariati orientamenti culturali e religiosi, l’Europa è un crocevia di reti transnazionali che incorporano quasi tutti i suoi cittadini e residenti. È, allo stesso tempo, un luogo in cui prendono vita sentimenti radicati nel mito dell’origine e della tradizione e un luogo di identità e affiliazioni cosmopolite, nonché di geografie culturali ibride. In un’Europa come questa, sembra anacronistica e potenzialmente provocatoria l’idea di chiudere i confini, fare il gioco dei buoni insider e dei cattivi outsider per difendere la purezza etnica e culturale e demonizzare tutto ciò che è diverso.
È impossibile negare la natura turbolenta e incerta dell’epoca attuale, in cui anche la stessa Europa deve confrontarsi con le vicissitudini di un mondo veloce, poco regolamentato e interdipendente. Le preoccupazioni degli europei in tema di Welfare e occupazione, qualità della vita e futuro, coesione sociale e identità culturale, criminalità e sicurezza – temi che emergono periodicamente nei sondaggi di opinione europei – non dovrebbero essere ignorate. Allo stesso modo, le manifestazioni xenofobiche di queste paure non andrebbero liquidate come irragionevoli e ridicole. Non basterà chiarire che è un errore prendersela con gli estranei per le ansie degli europei, mostrando che migranti e rifugiati sono vittime di violenza e povertà, che gli immigrati portano nuove capacità e risorse, che i musulmani non sono esclusivamente aspiranti terroristi o che le cause di rischio e insicurezza sono strutturali e istituzionali. Le radici dell’ansia pubblica che permettono di fare dell’estraneo un capro espiatorio devono essere affrontate con forza, con riforme che puntino alla creazione di posti di lavoro, a una giusta paga, al benessere universale, alla uguaglianza di opportunità e a una vita comune condivisa. Solo allora sembrerà un’anomalia additare il migrante e il subalterno come una minaccia alla prosperità, al benessere e alla coesione della maggioranza […].
Si potrebbe iniziare cercando di affermare ancora una volta una società pluralista, aperta e fondata su un senso di appartenenza collettiva come modo di guardare alle sfide del futuro, rendendo visibili i potenziali vantaggi — per maggioranze e minoranze, per autoctoni e stranieri — derivanti da una sfera pubblica democratica e pluralistica, supportata da uno Stato che minimizza rischio e vulnerabilità distribuendo capacità sociale e assicurandosi che il bene pubblico, quale che sia la sua definizione, resti protetto e valorizzato. Oggi non esiste alternativa credibile alla retorica della dottrina neoliberista/catastrofista brandita sia dai progressisti che dai conservatori e tantomeno una percezione che l’intensificazione della xenofobia a cui stiamo assistendo rappresenti una provocazione inutile, ingiusta e pericolosa. Nel rinnovare la sua tradizione socialdemocratica/provvidente, l’Europa deve tornare a credere che l’eguaglianza di genere, classe, razza e orientamento sessuale resti un presupposto centrale per una società giusta, l’accesso universale agli strumenti del benessere dia vita a nuove capacità e riduca l’invidia e il risentimento, che una democrazia più forte e più estesa rafforzi la responsabilità e la resilienza sociali, che la protezione delle infrastrutture collettive e dei beni comuni migliori la cultura civica e che la diffusione di opportunità economiche, eguaglianza e sicurezza riducano il conflitto e l’indifferenza […].
Il futuro che si prospetta alle popolazioni europee nel XXI secolo, d’altra parte, è fatto di nuovi rischi globali, un’economia europea divisa e barcollante, aspre critiche all’approccio troppo morbido e disorganizzato dell’Ue in tema di immigrazione, Welfare e sicurezza. La vera idea di un’Europa sociale, pertanto, viene liquidata come anacronistica o troppo costosa. Sebbene alcuni governi siano caduti, come accaduto nelle varie ondate di opposizione alle riforme draconiane imposte dall’attuale crisi finanziaria, ogni protesta contro l’aumento della ingiustizia e della disuguaglianza ha avuto poco effetto sulle riforme. Pare che son ci sia alcuna alternativa da immaginare o difendere e anche il collaudato meccanismo del modello sociale europeo risulta inadeguato.
Tuttavia, senza le sperimentate pratiche collettiviste di quel modello sociale europeo, non c’è modo di evitare che le maggioranze vadano incontro a sentimenti xenofobici verso l’estraneo, divenuto un capro espiatorio delle circostanze difficili in cui ci troviamo. Un’Europa di protezione sociale armonizzata resta l’unico fondamento a partire dal quale si possono tutelare gli interessi della maggioranza, inclusi quelli più a rischio. Una protezione come quella offerta da Welfare, democrazia fiscale e occupazionale, sostenuta da schemi di assicurazione sociale garantiti dallo Stato, può aiutare a mitigare ostilità e invidia e a promuovere una cultura della coesione e della cura sociale. Naturalmente non c’è garanzia che questo possa accadere davvero, come ci hanno insegnato la storia del Welfare State e delle aspettative sociali che esso non ha potuto soddisfare e i vari casi in cui intorno alle provvidenze dello Stato sociale si sono consumate discriminazioni contro i non meritevoli. Ma i livelli di insicurezza e rischio che conosciamo oggi sono così pronunciati e la cultura pubblica è talmente sospettosa verso ciò che è diverso o nuovo che la risposta dell’Europa non può essere aperta e solidale in mancanza delle garanzie dello Stato sociale. Un’Europa che litiga sulle risorse collettive difficilmente arriverà a considerare l’estraneo e lo sconosciuto con interesse e curiosità.
Anche se può apparire banale, è necessario proteggere e magari estendere il modello sociale europeo in modo che i bisogni fondamentali e il futuro di quanti si trovano sulle sponde d’Europa possano essere garantiti senza pregiudizi, con un’etica della responsabilità verso gli individui vulnerabili e i beni comuni. Ciò significa recuperare — sia a livello nazionale che europeo — misure un tempo familiari ma rese straordinarie dalla logica individualista e orientata al mercato, quali la garanzia di diritti sociali e individuali, sicurezza sociale ed economica, giustizia sociale e spaziale, servizi e spazi collettivi e forme dignitose di integrazione umana […].
Tuttavia, un bene comune tacito non può bastare. Alla fine del XX secolo il modello sociale europeo è stato così dato per scontato e lontano dalle motivazioni originarie — far fronte al bisogno, al rischio e all’incertezza — da non essere più visto come un mezzo per soddisfare bisogni e ridurre le differenze attraverso beni comuni. Rinnovare l’immaginario culturale di questo modello significherà recuperare un impegno pubblico a provvedere a tutta la collettività e a proteggerla senza discriminazioni. Questa è la sfida principale per una politica progressista dell’integrazione in Europa. Ritornare a quel modello sociale con l’inganno, senza il sostegno esplicito della popolazione non è sufficiente, come hanno dimostrato, a proprie spese, i nuovi governi socialdemocratici; e neppure basteranno dichiarazioni astratte di principi comunitari. In altre parole, le angosce e le ostilità che tengono in piedi il modello catastrofista crolleranno solo quando approderemo a una nuova visione dell’Europa come bene comune.
Questo testo è un estratto dal cap. V del volume di Ash Amin Europa, terra di estranei, a cura di E. Morlicchio ed E. Pugliese, trad. it. Mimesis, 2016.
Fonte: Rivista Il Mulino
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