di Andrea Bagni
Primo dialogo, scambio di opinioni con un vecchio compagno. Perché dovrei votare per la sinistra, cosa mi importa di un partito che prende il dieci o il dodici per cento? Cosa cambierebbe. (Io penso che il 10% è quasi un sogno per noi. L’obiettivo è da un pezzo superare lo sbarramento, oltre il 4% si festeggia, ma come faccio a dirglielo). Provo a rispondere che non conta solo vincere ed essere forti in parlamento. Che si vuole creare un soggetto politico nuovo, di sinistra eccetera. Lui mi guarda come fossi stato scongelato da un lontano passato. Per fermare Renzi bisogna batterlo, non può gestire le sconfitte, deve vincere sempre e sempre accelerare. Conta solo il governo ormai. Vedi Roma e Torino. Al prossimo giro voterà Cinque Stelle.
In un certo senso la semplificazione del processo politico si è già realizzata.
Questa peraltro è la forza delle riforme di Renzi come lo era di Berlusconi: giocare una partita che si è già vinta fuori del campo, assomigliare al paese, anzi esserlo. Esprimerne la stanchezza e la rabbia. Si vota e chi vince comanda. La democrazia non funziona, come dice Pietro Savastano.
La società è un deserto politico, somma di solitudini spaventate di piccoli uomini feroci.
Secondo dialogo. Si raccolgono le firme per i referendum e un compagno dei più attivi dice a un altro che per mettersi d’accordo sui banchini lo citofonerà verso le nove di mattina. Perplesso l’altro domanda perché citofonare, non sa neppure il suo indirizzo. Alla fine si capisce che il compagno intendeva mandargli un messaggio, un sms probabilmente. Comunque una forma di comunicazione a distanza. Moderna. Appunto citofonare. Mi ha ricordato la mia nonna che chiamava tutti i giochi SISAL. Totocalcio, Lotto, gratta e vinci – tutto SISAL.
Non ci siamo. Un po’ troppa la distanza dal mondo a cui si vorrebbe parlare.
Per la sinistra (e non importa aggiungere aggettivi, non perché ce ne sia una sola ma perché non ce n’è nemmeno una) il terreno elettorale per un bel po’ mi pare terra bruciata. Chi vuole esprimere la sua opposizione vota M5S. Il voto utile. Quello che può vincere, mandare a casa questo governo, creare disordine.
Magari non convincono i grillini, così totalizzanti, partito della nazione anche loro, tendenzialmente xenofobo – perché così è il popolo e noi siamo il popolo. Ma in ogni caso fra un male certo e uno incerto meglio l’incerto.
Votare per avere rappresentanza non ha più senso. Che cosa conta oggi la rappresentanza? In parlamento è pura rappresentazione. Difendere la democrazia parlamentare è sacrosanto ma è difendere un’idea. La realtà è quella di parlamentari che votano ogni quindici giorni la fiducia e che ritenevano Ruby la nipote di Mubarak.
Eppure è quasi solo su quel terreno del governo e delle elezioni che ragiona e si muove quello che resta della sinistra politica. Frammentata da sempre, sempre «unitaria» ma perché calcola di aggregare tutti intorno alla propria sigla, al massimo pronta a mettersi insieme appena piove dal cielo una nuova scadenza elettorale. Durante la quale, ovviamente, ognuno farà campagna per i propri nomi…
Bisognerebbe spostare radicalmente lo sguardo.
Guardarsi intorno e cercare di ritrovare un senso per la propria esistenza fuori dall’inerzia dela coazione a ripetere. Un senso per la sinistra nella società. In questa di oggi.
Intendiamoci, non è che qui ci siano delle «praterie». Ci sono territori abbandonati, invasi di macerie del passato e di nuovi moderni «Castelli» kafkiani. Una cultura politico-commerciale per compratori tristi che struttura l’anima e crea i suoi acquirenti.
La domanda fondamentale è se esiste anche altro, in una dimensione più profonda, sotterranea, sotto-politica, o se dobbiamo rassegnarci ad aspettare: che Renzi frani sulla propria arroganza, che i Cinque Stelle governino e si incasinino, che i giochi si riaprano anche ai livelli istituzionali. E però se lo sfondo culturale del paese resta questo, a un-uomo-solo-al-comando succederà un altro uomo-solo-al-comando. Oppure un tecnico – l’altra faccia del populismo di governo: o il leader portavoce enfatico del popolo ignorante e muto che delega, o l’affidamento agli «esperti» essendo il popolo ignorante e muto delegante. Tanto si tratta sempre di obbedire ai mercati.
C’è qualcosa d’altro, di alternativo, su cui si potrebbe contare, cui si potrebbe tentare di dare voce?
Proprio dare voce, spazio, luoghi pubblici di riconoscimento.
La prima cosa sarebbe esserci nella società, ritrovare una qualche forma di contatto e di empatia. Scommettere sull’esistenza di altro. Forse anche molto sul piano etico e comunitario: le ragazze e i ragazzi che riempiono gli appuntamenti di Libera o Emergency; le feste del gay pride o per la difesa del territorio, piene di mamme e carrozzine.
Vuol dire avere a che fare con i bisogni delle persone, essere utili – come ha fatto Syriza in Grecia – presenti rispetto ai disastri che devastano il paesaggio sociale e quello interiore. Un po’ come nelle antiche relazioni di vicinato e mutualità. E non solo per senso del dovere – per il piacere degli incontri, della reciprocità, di relazioni umane.
E avere a che fare anche con i desideri. L’orizzonte dell’immaginario, i codici simbolici. Perché l’economicismo fa a pezzi gli esseri umani, non li vede mai interi, ma quello che conta è come rappresentiamo a noi stessi le nostre condizioni sociali. Contano «il pane e le rose» e la grammatica che li lega. Il desiderio di liberazione.
Oggi hanno una dimensione sentimentale solo le parole della destra. Di governo o d’opposizione. I discorsi di odio intercettano bene i voti di vendetta. La sinistra sembra fuori della comunicazione emotiva. Afferma dei valori sacrosanti ma come un astratto dover essere; non li fa vivere, non li pratica in relazioni inclusive. E resta incredibilmente noiosa per chi non è «della famiglia».
L’ultimo libro di Marco Revelli, «Non ti riconosco più», qualcuno l’ha giudicato troppo letterario, soggettivo, personale. A me sembrano i nostri discorsi troppo poco soggettivi, personali. Troppo poco sentimentali. Incapaci di comunicare con il calore necessario a vincere la paura e la solitiudine.
Perché un bisogno di politica come spazio in cui portare tutta intera la propria vita e sentirla riconosciuta, a me pare che esista. È bisogno di luoghi comuni di parole e corpi che sappiano esprimere paure, passioni, progetti, il diritto all’invenzione della propria vita. Case accoglienti di storie in cui si possa abitare. Dove a parlare di giovani siano i giovani, di migranti i migranti, di povertà i poveri.
Certo ci vorrebbe un piccolo miracolo.
Che la generazione che ha vissuto (e sofferto, anche nobilmente) questi anni di sconfitte sapesse gettare le basi minime di un cambiamento di linguaggio e di stile. E poi si facesse da parte.
Siamo tutti portatori ormai di una razionalità perversa, una lucidità triste che ci fa sapere sempre già tutto, leggere le intenzioni sotterranee, le mire inconfessate, i retropensieri. Che genera una specie di sfiducia strutturale, una cultura del sospetto che uccide. Oppure un narcisismo che non ti fa mai appartenere a qualcosa di collettivo che non sia perfettamente identico a te stesso.
Forse per far nascere una soggettività politica bisogna non essere troppo pieni di se stessi. Oppure essere un po’ scemi. Ottimisti fino all’imbecillità. Insomma non conoscere tutto del mondo.
Mi viene da pensare che non sarebbe un miracolo tanto piccolo. Però sarebbe bello.
Fonte: Il manifesto
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