di Guglielmo Forges Davanzati
Matteo Renzi ha motivato la riforma costituzionale anche con l’obiettivo di ridurre i “costi della politica”, quantificati, in caso di vittoria del SI, in un miliardo di euro. Anche ammettendo che una Costituzione debba essere riformata per risparmiare, i conti non tornano, né è dato sapere da dove vien fuori l’importo stimato da Palazzo Chigi. Va poi aggiunto che la politica ha necessariamente un costo e che la delegittimazione dell’attuale classe politica – che, in un Paese di caste, è la “casta” per eccellenza – non giustifica in alcun modo la revisione di 47 articoli della Costituzione: se l’obiettivo è risparmiare, lo si può fare molto più semplicemente riducendo gli emolumenti dei parlamentari, dei ministri, dello stesso Presidente del Consiglio.
Ciò al netto del fatto che i privilegi e gli emolumenti di cui godono i nostri parlamentari (nel confronto con quelli dei principali Paesi OCSE) sono effettivamente abnormi, soprattutto considerando l’elevato tasso di assenteismo e in molti casi una preparazione molto lontana da ciò che ci si aspetterebbe nel loro ruolo.
Ciò al netto del fatto che i privilegi e gli emolumenti di cui godono i nostri parlamentari (nel confronto con quelli dei principali Paesi OCSE) sono effettivamente abnormi, soprattutto considerando l’elevato tasso di assenteismo e in molti casi una preparazione molto lontana da ciò che ci si aspetterebbe nel loro ruolo.
In ogni caso, vale la pena provare a fare un tentativo di chiarimento sui risparmi effettivi che si genererebbero in caso di vittoria del SI, nell’attesa che il Governo fornisca stime più puntuali e ufficiali.
Il calcolo risulta agevole proprio se si segue il ragionamento del Presidente del Consiglio, per il quale i risparmi deriveranno dall’abolizione del Senato. Falso. I senatori – e il Senato – continueranno a esistere, sebbene in numero minore e con minori poteri. La nuova Costituzione azzera gli emolumenti dei senatori, ma solo nelle loro attuali funzioni: i nuovi senatori, in numero di 100, saranno designati dalle Regioni, saranno sindaci, e in misura minore (5) nominati pro-tempore dal Presidente della Repubblica. Nei primi due casi saranno gli Enti di provenienza a provvedere alla loro retribuzione.
La voce di gran lunga maggiore nel bilancio del Senato è costituita dagli stipendi che verranno appunto garantiti a livello locale: il risparmio complessivo per le finanze pubbliche è dunque pari a zero.
Come si evince dal bilancio del Senato e dalla relazione tecnica firmata dal senatore Lucio Malan (uno dei tre senatori incaricati di gestirne il bilancio), il risparmio ammonterà a circa 40 milioni di euro l’anno, pari a quasi il 20% del costo di funzionamento del Senato nella configurazione attuale. In sostanza, le sole voci di effettivo risparmio si riducono alla riduzione delle indennità e dei rimborsi per i nuovi senatori. Per dare un’idea di quanto sia irrisorio questo importo per il bilancio dello Stato italiano, si può considerare – come è stato rilevato, a titolo puramente esemplificativo, dallo stesso Malan – che i trasferimenti pubblici per i concessionari autostradali del Brennero costituiscono l’equivalente di ben 200 anni di risparmi derivanti dalla riforma Renzi-Boschi.
Evidentemente i sostenitori del SI possono avere buon gioco per affermare che meglio poco che niente e che comunque è un bene in sé, nel clima dell’antipolitica, ridurre il numero dei senatori (dagli attuali 315 a 100). Vero. Ma è anche vero che per ottenere il medesimo risparmio sarebbe sufficiente una decurtazione del 10% dello stipendio di deputati e senatori dell’organico vigente. E’, quello dei risparmi dei costi della politica, un argomento dunque pretestuoso: per legittimare una riforma la si fa passare come un taglio dei costi della politica; che sarebbe comunque possibile, e nella medesima entità, con una riforma diversa.
E’ poi ragionevole attendersi un altro effetto, peggiorativo per l’obiettivo che si dichiara di perseguire. Poiché si ridurranno, a regime, i posti di senatore, è molto verosimile prevedere un aumento delle spese per le campagne elettorali per acquisire, in un contesto più competitivo, i residui posti di membri della Camera dei Deputati, anche a ragione del maggior potere decisionale che questa assumerà.
Il Governo ci racconta che nel caso di vittoria del NO, per effetto dell’elevata incertezza, si profila un’intensificazione della recessione. Il Centro Studi di Confindustria prova ad accreditare ‘scientificamente’ questa tesi, entrando a gamba tesa nel dibattito sulla riforma costituzionale[1]. E lo fa assumendo una netta posizione a favore del SI, con argomentazioni – questa volta – francamente imbarazzanti per chi continua a ritenere le previsioni in Economia una cosa seria, sebbene difficilissime da implementare e comunque da assumere cum grano salis. Si prevede in caso di vittoria del NO uno scenario a dir poco drammatico: clamoroso aumento del tasso di disoccupazione (- 600.000 occupati) e intensificazione della recessione, con una perdita di 4 punti percentuali di Pil nel prossimo triennio. Curiosamente, a differenza di quanto normalmente si fa (e si dovrebbe fare) non si fanno previsioni sullo scenario alternativo (vittoria del SI), così che non è dato sapere, ammesso che la metodologia sia valida, se il SI produrrebbe crescita o – caso da non escludere - una recessione ancora più intensa.
Come vengono motivate queste previsioni? Fondamentalmente avvalendosi dell’argomento per il quale il NO produrrebbe instabilità; l’instabilità produrrebbe incertezza; l’incertezza si assocerebbe a declino degli investimenti e alla conseguente contrazione del tasso di crescita. Posta la questione in questi termini, viene da chiedersi, non retoricamente, perché non dovrebbe accadere quanto previsto in caso di vittoria del NO per tutte le possibili crisi di governo. E’ ovvio infatti che ogni cambiamento istituzionale genera incertezza, così come lo genera la resistenza (se ha successo), a cambiamenti di significativo rilievo del disegno istituzionale.
A ben vedere, vale semmai l’argomento contrario: è proprio il Governo ad avergenerato incertezza e, se vale questo argomento, è semmai al Governo che andrebbe imputata l’eventuale intensificazione della recessione, ammettendo – ipotesi alquanto eroica – che vi sia un nesso di causa-effetto fra riforma costituzionale e andamento del ciclo economico.
Fonte: MicroMega online
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