di Ivana Risitano
L’esperienza messinese di Cambiamo Messina dal basso nasce attorno ad una candidatura particolare: un uomo, un professore di educazione fisica, noto in città per le sue battaglie ambientali, pacifiste, No Ponte, in difesa degli ultimi; una raccolta di firme di cittadine e cittadini che chiedono a lui, da sempre privo di tessere di partito, di mettere la sua faccia per le amministrative 2013.
Il contesto storico, sociale e culturale è quello della crisi della rappresentanza e dei grossi partiti a livello nazionale, e, a livello locale, di una città schiacciata da pochi poteri forti, politicamente soffocata da meccanismi di controllo di voto, con infiltrazioni mafiose e massoniche in tutti i settori del pubblico e del privato, e un atteggiamento apatico e scarsamente partecipativo, figlio probabilmente di decenni di schiavitù e malgoverno.
Il contesto storico, sociale e culturale è quello della crisi della rappresentanza e dei grossi partiti a livello nazionale, e, a livello locale, di una città schiacciata da pochi poteri forti, politicamente soffocata da meccanismi di controllo di voto, con infiltrazioni mafiose e massoniche in tutti i settori del pubblico e del privato, e un atteggiamento apatico e scarsamente partecipativo, figlio probabilmente di decenni di schiavitù e malgoverno.
Renato Accorinti ha la capacità di aggregare attorno a sé energie sparse: nella lista Cambiamo Messina dal basso si riuniscono le battaglie di associazioni, sindacati di base, piccoli partiti, cittadine e cittadini che avevano condiviso lotte per i diritti e si ritrovano insieme in una campagna elettorale dallo stile e dai linguaggi totalmente inediti. Il programma elettorale viene redatto collettivamente tramite incontri tematici aperti alla cittadinanza: a quello scritto è intrecciato, però, quello inscritto nella storia individuale di Renato e in quella, personale e politica, di tutti i rivoli che convergono verso questo fiume.
E’ già presente, all’alba di questa esperienza, una contraddizione che oggi si fa sentire forte: un leader carismatico, abituato a lanciare da solo la palla in porta, costruisce attorno a sé la narrazione della partecipazione dal basso, in cui a tutti chiede di essere, indipendentemente dai ruoli istituzionali, sindaci e assessori, protagonisti attivi della vita politica cittadina. “Non delega ma partecipazione” grida Renato; “dobbiamo trasformare la città da condominio a comunità” dice nelle decine di incontri, comizi, dibattiti di quei mesi.
Attorno, centinaia di persone che, dalla mattina alla notte, girano la città indossando le magliette col logo arcobaleno, dialogano con le persone, illustrano il programma, organizzano giochi per i bambini, distribuiscono materiale informativo, parlano di beni comuni, liberazione da chi ha derubato la città, ritorno alla Politica vera e bella.
Cambiamo Messina dal basso è una nave salpata senza sapere chi si sarebbe trovato su, chi sarebbe sceso, chi si sarebbe gettato in mare, chi avrebbe preso il timone, chi si sarebbe ammutinato. Chiara solo la meta: non solo quella elettorale, che ci sembrava impossibile, ma la possibilità di lasciare in città una traccia di cambiamento. In campagna elettorale accadono piccoli miracoli: si avvicina gente che non aveva mai fatto politica attiva, gente che dalla politica si era allontanata; si mettono insieme età ed esperienze diverse; si raggiungono le periferie, si parla con chi, fino a qualche tempo prima, era stato vittima di voto di scambio; si riempiono le piazze, le strade; si fa festa. Nello spontaneismo ed entusiasmo di quei mesi, scarsa o nulla è l’attenzione dedicata alla costruzione di una metodologia: limite che inizialmente non percepivamo, ma che negli anni ha fatto sentire tutto il suo peso.
Avviene, il 24 giugno 2013, dopo un ballottaggio col PD, il miracolo elettorale, e dalle elezioni nascono due figli, il Sindaco e la Giunta da un lato, Cambiamo Messina dal Basso dall’altro. Entriamo correndo, fisicamente (quella sera migliaia di persone corrono dalla sede verso il Municipio ed irrompono nel Palazzo) e nell’animo pieno di entusiasmo e speranza, ma dentro troviamo le sabbie mobili: giorno dopo giorno scopriamo cosa significhi governare dentro un apparato burocratico aggrovigliato, con un enorme buco nel bilancio, in mezzo a giochi di potere che non potevano naturalmente estinguersi in un attimo, con un semplice nome barrato sulla scheda elettorale.
CMdB si addormenta comitato elettorale e si risveglia aspirante soggetto politico, senza libretto d’istruzioni, col bisogno di difendersi dall’approccio qualunquista con cui chiunque avesse votato Renato, pur non condividendone appieno il programma elettorale e la visione politica, rivendicava la propria appartenenza al movimento. Le prime assemblee convocate dopo la vittoria hanno numeri simili a quelli delle assemblee della campagna elettorale: ma ora l’obiettivo comune è stato raggiunto, e vanno costruiti nuovi obiettivi, metodi, strategie. Lì emergono in modo sempre più marcato le differenze caratteriali e politiche, i toni sono spesso accesi e non è chiara la metodologia a cui affidarsi. Mentre la Giunta muove i primi passi dentro le stanze del Palazzo, CMdB studia in lunghe assemblee pubbliche la forma da darsi: il Sindaco, che partecipa agli incontri stando in ultima fila ed ascoltando in silenzio, nei pochi momenti in cui prende la parola manifesta la sua preoccupazione per il possibile irrigidimento del movimento e sottolinea il pericolo che una forma strutturata congeli e imbrigli l’entusiasmo della campagna elettorale. Scartiamo la forma “partito”, dopo lunghi dibattiti scegliamo di evitare anche quella associativa e qualsiasi forma di tesseramento, e limitiamo l’adesione ad una semplice firma. La dialettica tra fluidità e solidità resta però viva, e ritorna, nel tempo, tutte le volte in cui si rischia la sclerotizzazione o, al contrario, un’inconcludente liquidità.
Via via che cresce la consapevolezza che i votanti di Accorinti sono stati molti di più di quelli che hanno scelto, poi, di dar continuità all’esperienza, si rende necessaria la redazione collettiva, lunga e tormentata, di una Carta d’intenti che ribadisca i confini politici e valoriali entro i quali ci muoviamo, metta per iscritto un quadro minimo di regole per stare insieme e individui una fisionomia per quel corpo prima fluido ma poi raggrumatosi in un soggetto politico giovanissimo e carico di aspettative.
Si comincia a giocare sin da subito il complicato rapporto tra istituzione e base; da subito emergono le contraddizioni tra quegli assessori che istituiscono tavoli tematici per lavorare con noi ed altri che si chiudono nei loro uffici lavorando da soli o con poche persone fidate; il Sindaco, intanto, entra in Consiglio dicendo di avere 40 Consiglieri e in vari contesti afferma di dover “rispondere alla città”. La città, però, non è un gruppo in senso sociologico: è, piuttosto, una massa informe di persone che per il fatto di essere nate o di vivere nello stesso luogo si trovano a condividerne la vita; è un agglomerato scosso da spinte contrapposte, interessi in conflitto tra loro.Cambiamo Messina dal Basso, invece, si sviluppa come gruppo in senso sociologico: persone che scelgono di stare assieme con un percorso consapevole e co-costruito di crescita.
E’ un neonato, però: e vive, sin da quando ha inizio l’esperienza di governo della città, il dramma di esser quasi abbandonato a se stesso. Intanto, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, il movimento mette mano alla costruzione della propria identità, e, da un inizio confuso, in cui è un mix tra volontariato, battaglie sindacali, feste, con spinte ed esigenze non sempre in armonia tra loro, passa pian piano ad assumere la forma di chi lo abita e lo vive. Nel tempo CMdB, per chi, da lontano o da vicino, lo osserva, è tutto e il contrario di tutto: fan acritici della giunta e fuoco amico, estrema sinistra (alcuni vanno via perché non vedono rappresentati “tutti i colori dell’arcobaleno”) e sinistra annacquata e troppo moderata (poco “rossa”) , troppo seriosi e troppo giocosi; il Sindaco, intanto, fa fatica a far sintesi tra il suo approccio inclusivo ed ecumenico (figlio della sua formazione umana e spirituale) ed un programma “di parte” (dai beni comuni a Rifiuti Zero, dalla liberazione del Fronte mare alla difesa del carattere pubblico dei servizi, dall’accoglienza dei migranti alla lotta alla cementificazione e alla speculazione edilizia), e ci comunica spesso la paura che i paletti che tentiamo di mettere per tener fede al progetto politico possano diventare argini che scoraggiano e allontanano il fiume umano creatosi in campagna elettorale, pieno, ad esempio, anche di donne e uomini di destra che, per vari motivi, avevano scelto di votare lui. Il movimento attraversa momenti di forte crisi: una scelta tormentata tra il sostegno ad un piano di riequilibrio finanziario ed il dissesto, la fuoriuscita di due dei quattro consiglieri, gli scontri con alcuni assessori molto “tecnici” e poco “politici” e con un Sindaco molto carismatico ma poco leader, spesso incline a far scelte da solo o con la squadra ristretta dei suoi assessori.
Le condizioni delle casse comunali sono peggiori di come avevamo temuto: un lungo lavoro di studio fa emergere un debito di più di 400 milioni; ma, nel frattempo, si rende possibile il tentativo di accedere ad una procedura di riequilibrio finanziario: si tratta, dunque, di capire se dichiarare il dissesto e affidarsi a dei commissari, o provare a spalmare il debito su dieci anni; entrambe le opzioni sono figlie dell’austerity, e la scelta della seconda viene fatta non senza dubbi e lacerazioni interne. Ancora oggi essere appesi ad un Governo che prima fa tagli agli Enti locali e compie scelte scellerate in seno alla propria finanziaria (una fra tutte, la follia delle spese militari) e poi sembra tendere la mano per salvare i Comuni dal dissesto, stringendoli però entro vincoli rigidi e limitando fortemente la loro autonomia politica (i servizi a domanda individuale, ad esempio, sottoposti all’obbligo di copertura del 36% da parte dei cittadini, sono decisi a livello centrale, senza che le amministrazioni possano adeguare la scelta alle peculiarità del proprio territorio) lascia la nostra esperienza in bilico tra una rivoluzione lenta, che tenga conto della contingenza nazionale ed europea, ed uno scossone di protesta e disobbedienza. Di fronte, come destinatario ora di trattative ora di ribellione, quel neoliberismo che, sotto i nomi aggraziati di “armonizzazione”, “pareggio di bilancio”, “patto di stabilità”, cela il proprio atteggiamento vampiresco verso i servizi che gli Enti locali sarebbero, in coscienza, tenuti a garantire. In questo scenario ogni progetto politico di cambiamento poggia i piedi su sabbie mobili che tendono a risucchiarlo.
A causa della legge elettorale, che consente di esprimere voti dissociati per sindaco e consiglieri, il nostro gruppo consiliare, che aveva ottenuto il 9% (quattro eletti) ma che si dimezza dopo un anno, si ritrova a lavorare dentro un Consiglio in cui la maggioranza numerica è avversaria dell’amministrazione: io e la capogruppo Lucy Fenech, entrambe alla prima esperienza istituzionale, viviamo la fatica di dinamiche d’aula che spesso facciamo fatica a comprendere, con posizioni pregiudiziali, cambi di casacca improvvisi (l’ex Sindaco Francantonio Genovese, arrestato per truffa nel mondo della formazione, appena uscito dal carcere riesce, con uno schiocco di dita, a portarsi dietro dal PD a Forza Italia una decina di consiglieri), attacchi spesso molto violenti, un malcelato maschilismo, poca politica e molti posizionamenti. Io, che da subito ho scelto di continuare a fare, oltre che la consigliera, vita di movimento, vivo fasi di forte disorientamento: da un lato il desiderio di esprimere, in Consiglio, la sintesi dei dibattiti presenti inCambiamo Messina dal basso, e di avere dunque rispetto dei processi talvolta lenti e delle posizioni non sempre monolitiche; dall’altro, la necessità di “stare sul pezzo”, rispondere alle emergenze quotidiane della Città, ai quesiti dei giornalisti, alle necessità di esprimere un voto.
Le difficoltà, però, sono anche in relazione a quei pezzetti di sinistra convinti di essere sempre più “rossi” degli altri, depositari di dottrine politiche solide spesso accompagnate però da atteggiamenti concreti e relazionali tutt’altro che democratici (“fascismi di sinistra”, scriveva Foucault). E se le energie nate o riunitesi in campagna elettorale sono un polline sparso nell’aria, diversi sono i terreni aridi privi di fiori da fecondare: narcisismi, individualismi e competitività, mali figli di quello stesso neoliberismo che la sinistra afferma di voler combattere; fretta e disabitudine al rispetto dei tempi dei processi, delle dinamiche di gruppo e delle sfumature; continua evocazione di una “rivoluzione tradita”, e gare a chi è più bravo a far saltare il banco; dall’altro lato, una tecnocrazia sempre in agguato, ed un approccio spesso notarile piuttosto che politico; un’alternativa al metodo spartitorio, quella dell’empatia, cara al Sindaco ma rischiosa se sposta il baricentro decisionale dentro un solo uomo o un gruppo ristretto; la difficoltà ad essere squadra, a fare squadra. Quest’esperienza municipalista ci interpella tutti sul piano della democrazia profonda: quanto ne siamo capaci? e cosa significa “dal basso”? cosa è partecipazione? che significato ha quel “cambiamo” coniugato al plurale?
In campagna elettorale Renato parlava di un default culturale e spirituale più grave di quello economico: ma un cambiamento che non sia solo di superficie, che non si limiti dunque al raggiungimento di qualche risultato pratico ma produca trasformazioni profonde, non può non prendersi cura, insieme al “cosa” e forse ancor più che di esso, del “come”, delle metodologie e dei processi. Quel laboratorio complesso che è stato ed è Cambiamo Messina dal basso, con tutto il carico di aspettative (coltivate al suo interno e giunte dall’esterno, da sostenitori ma anche da detrattori), con i suoi sogni e i suoi limiti, è l’incarnazione di una sfida. Che senso ha che l’eterodossia di un movimento entri nell’ortodossia e nei vincoli delle istituzioni? Sarebbe rischioso e mortifero se ne restasse schiacciato: ha il compito, piuttosto, di fungere da stimolo, di forzare l’esistente, di spingere le pareti dei “non si può fare”, di liberare energie, di essere luogo di gestione matura dei conflitti e dei processi partecipativi, di tenere accesa una fiammella anche nei momenti in cui la rivoluzione è “semplicemente” Resistenza, di esprimere la polifonia delle diversità che contiene senza appiattirle ma facendole danzare insieme.
Cambiamo Messina dal Basso ha spiazzato molti, ha provato a sperimentare linguaggi diversi da quelli tradizionali e adesso anche chi non li condivide si trova a dover fare i conti con essi. Le aspettative nella relazione con l’amministrazione erano diverse dalla realtà con cui abbiamo avuto a che fare e non è stato facile trovare una forma e una strada: non siamo, nei confronti dell’amministrazione locale, una forza di opposizione e viviamo all’interno dei vincoli giuridici e finanziari, con un Governo che impone ai sindaci di essere il braccio armato dell’austerity e delegittima i corpi intermedi. Ma, da un esordio in cui molte delle nostre energie sono state prosciugate dalle dinamiche tra movimento ed istituzione, abbiamo costruito un percorso in cui siamo divenuti capaci, oltre che di sostegno, anche di critica, e in cui giorno dopo giorno proviamo a creare infiltrazioni di politica lì dove la tecnica rischia di soffocarla, e a farci vento che sospinge ancor più forte le vele delle scelte che vanno nella direzione del nostro progetto. Abbiamo creduto, per molto tempo, che amministrazione e movimento fossero due facce della stessa medaglia, e abbiamo vissuto con strazio i momenti di mancata sintonia. Nel tempo, però, abbiamo maturato la consapevolezza che i ruoli di sindaco, assessori, consiglieri, attivisti del movimento non sono sovrapponibili, e sebbene spesso riescano a lavorare in sinergia, è giusto e necessario che mantengano una loro fisionomia autonoma, e, tra queste, la funzione del movimento è forse quella più “profetica”, quella capace di lanciare il cuore oltre l’ostacolo dei vincoli normativi, finanziari, contingenti.
Così come la nostra non è stata una mera vittoria elettorale ma l’epifenomeno di una forte volontà sommersa di cambiamento, la grande eredità che possiamo lasciare non è semplicemente una città migliore, ma un soggetto comunitario che sia linfa vitale e spina nel fianco delle istituzioni e di quei grossi partiti che si sono svuotati della loro preziosa funzione. Un sindaco carismatico e rivoluzionario dura cinque, dieci, quindici anni: un soggetto politico alternativo invece rimane, e, se in rete con esperienze simili, può produrre cambiamenti significativi non solo a livello locale. Le esperienze municipaliste, spesso osteggiate o trattate con sufficienza, contengono potenzialità enormi, sono humus fecondo di partecipazione e di democrazia.
Fonte: euronomade.info
Originale: http://www.euronomade.info/?p=7765
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