di Alberto Burgio
Vorrei tornare sulla questione della «morte della politica», oggetto di alcuni articoli di grande interesse apparsi di recente sul manifesto, a cominciare dagli interventi di Valentino Parlato, Pierluigi Ciocca e Giorgio Lunghini (vedi elenco sotto, ndr). Sono infatti convinto che l’attuale crisi della sinistra (in Italia come in gran parte dell’Europa) – una crisi organica, non episodica – abbia radici profonde. Che non se ne uscirà con le consuete modalità (anche se effimere ripartenze verranno puntualmente simulate in occasione degli appuntamenti elettorali).
E che l’idea della morte della politica possa servire in prima battuta a inquadrare il problema se ci si affretta ad abbandonare il terreno delle suggestioni e a sostituirlo con l’esame di argomenti razionali.
E che l’idea della morte della politica possa servire in prima battuta a inquadrare il problema se ci si affretta ad abbandonare il terreno delle suggestioni e a sostituirlo con l’esame di argomenti razionali.
Evocare la morte della politica serve a indicare una direzione di marcia. C’è un lutto da elaborare, una perdita grave che non può più essere rimossa. Occorre finalmente comprendere che cosa è andato perduto e perché e quando. Questa ricerca non è stata ancora neppure avviata, per responsabilità plurime che ricadono sull’intellettualità della sinistra non meno che sui gruppi dirigenti dei soggetti collettivi (partiti, sindacati, movimenti). Finché non ci si caricherà di questo fardello, nulla di buono e di serio nascerà.
Quando si evoca la morte della politica, essenziale è chiarirsi sull’idea di politica con cui si ha a che fare. Si potrebbe facilmente obiettare che la politica c’è, avendo noi un parlamento, un governo e una maggioranza che lo sostiene. L’idea di politica che si ha in mente in questo discorso è tuttavia ben diversa.
Il suo primo ingrediente – ciò che la contrappone all’amministrazione dell’esistente – è la prospettiva storica. Pensare e agire politicamente implica, in particolare per una forza critica, leggere la realtà storicamente, in un quadro di ampio respiro. Individuare la genesi di ciò che è dato; coglierne i presupposti materiali e immateriali (economici, sociali, politici, culturali); concepire scenari futuri, esiti possibili dei processi di trasformazione. E fare tutto questo con realismo ma senza grettezza. Con ambizione e senso di responsabilità.
Contrapporre politica ad amministrazione suppone questa prospettiva. Parafrasando uno slogan che ebbe fortuna qualche anno fa, si tratta di pensare storicamente per agire politicamente. Ma è anche evidente che porre la politica in stretta connessione con lo sguardo storico significa suggerire che la politica, almeno per le forze critiche, intercetta questioni fondamentali, laddove l’amministrazione si occupa di aspetti contingenti. Proprio in questo senso Gramsci distingueva tra politica grande e piccola, dove la prima affronta snodi strutturali (il modo di produzione e la corrispondente forma di Stato), la seconda i problemi «parziali e quotidiani» posti dalla struttura economico-sociale data.
Quali sono gli snodi strutturali che la politica, così intesa, per sua stessa natura affronta, e che oggi – nella nostra ipotesi – sono invece accantonati, implicitamente assunti e quindi esclusi dall’orizzonte del pensiero e della prassi della sinistra? In primo luogo proprio i temi-chiave della struttura (la composizione e la mobilità sociale; la divisione sociale del lavoro; il grado di autonomia del lavoro e delle sue organizzazioni; il ruolo della mano pubblica nella programmazione e nella direzione dello sviluppo e nella gestione delle risorse strategiche; i diritti sociali; l’uguaglianza) in quanto funzioni del modo di produzione capitalistico. In secondo luogo, le sedi-chiave della partecipazione democratica (la formazione, l’informazione, la cultura; i partiti, come opportunamente sottolineato da Parlato; le potenzialità del conflitto tra piano locale, nazionale e continentale) in quanto momenti essenziali nella produzione di soggettività critiche. Infine, il terreno internazionale (la pace e le guerre; la geopolitica e i nuovi imperialismi; gli effetti sistemici dei flussi migratori) in quanto sede elettiva dei processi di transizione.
È un elenco disordinato e lacunoso, ma forse sufficiente a chiarire che cosa si intende evocando la morte della politica. La sinistra di tutto ciò non si occupa più. Non se ne interessa nemmeno la destra, ma questo è fisiologico per le forze della conservazione. È patologico invece ed esiziale che lo sradicamento dell’intelligenza politica dal terreno analitico e critico coinvolga le organizzazioni che dovrebbero, al contrario, interpretare le domande di trasformazione.
Da quando questo avviene? In Italia, come in gran parte dell’Europa, da quando si è compiuto lo sfondamento neoliberale sul piano dei processi di regolazione e riproduzione e, conseguentemente, sul terreno della sovranità politica. Nel giro di un trentennio questo processo ha indotto la mutazione genetica del Pci dapprima in una forza pro-ciclica («progressista»), poi (con la nascita del Pd) in una forza conservatrice, ispiratrice di un riformismo controriformatore.
Questo dato di fatto spiega perché nessun discorso sulla crisi della sinistra oggi in Italia potrebbe prescindere da una seria analisi critica del ruolo del Pd, al di là della sua più o meno futile dialettica interna. Ma soprattutto permette di comprendere perché la politica in Italia latita almeno dagli anni Novanta, da quando è stata scientemente distrutta una grande forza della sinistra capace di muoversi criticamente e in prospettiva storica sul terreno delle grandi questioni strutturali. Dopodiché è chiaro che ci si deve far carico, giorno per giorno, anche delle «quistioni parziali e quotidiane» di cui dice Gramsci. Ma si dovrebbe almeno sapere, a sinistra, che si tratta solo di un divagare, di un parlare d’altro.
Fonte: il manifesto
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