di Alfonso Gianni
Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? Questa è la celebre e potente apostrofe con la quale Cicerone iniziò la prima delle sue orazioni contro Catilina. Sostituite al nome di quest’ultimo quello del ministro Giuliano Poletti e abbiamo il quadro della situazione, pur sapendo che l’accostamento nuoce, per evidente sproporzione, alla memoria dell’antico senatore romano. Ma serve oggi per indicare che ogni limite è stato davvero superato, e con esso la pazienza che solitamente l’accompagna. Il ministro del lavoro ne ha infilata una dietro l’altra in rapida successione.
Prima ha affermato che bisognava andare a votare subito per evitare i referendum sul Jobs Act.
Che peraltro si potrebbero fare nel 2017, nello stesso anno delle elezioni anticipate, con una semplice leggina di deroga come nel 1987. Poi ha insultato almeno centomila giovani che sono andati a lavorare o a perfezionare gli studi all’estero, compiacendosi che si fossero tolti dai piedi.
Indi ha raffazzonato improbabili correzioni verbali che non hanno convinto nessuno, compresi quelli del suo partito, visto che proprio dai giovani del Pd di diverse città e regioni d’Italia giunge l’invito al ministro a levarsi di torno. Compare anche l’immancabile conflitto di interessi. Già a suo tempo la stampa si occupò di una cena fra il ministro e Salvatore Buzzi, il leader della cooperativa 29 giugno e ora tra i massimi imputati di Mafia Capitale.
In queste ore fa capolino un’altra vicenda, della quale vanno appurate tutte le circostanze. Il figlio del Ministro è direttore di un settimanale che sarebbe stato finanziato con rilevanti contributi pubblici mentre il padre sedeva nel governo.
Ora fioccano in entrambi i rami del Parlamento le mozioni di sfiducia nei confronti del titolare del dicastero del lavoro, visto che il Presidente del Consiglio non può dimissionare i propri ministri, che sono nominati dal capo dello Stato, sebbene su sua proposta. Potrebbe però esercitare una vigorosa moral suasion nei confronti di Poletti ad abbandonare la poltrona, ma vista l’identità di vedute fra Gentiloni e quest’ultimo sull’articolo 18 e il Jobs Act, non c’è da farci conto. Infatti, al termine di interrogazioni a risposta immediata, in cui ha ricantato le lodi alle magnifiche sorti progressive dei suoi provvedimenti, Poletti ha pronunciato un secco e sdegnato no alla ipotesi di dimissioni «volontarie».
A dimostrazione che la precarietà va bene solo per gli altri e con totale disprezzo dell’articolo 54 della nostra Costituzione salvata dal popolo dei No, di cui i giovani sono stati grande parte, che dice a chiare lettere che «i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore». A maggiore ragione se sono ministri della Repubblica. Il che non significa soltanto astenersi dal bunga bunga, ma che nei loro atti e nelle loro dichiarazioni devono rispettare il popolo che intendono governare e le manifestazioni democratiche della sua volontà.
Più che opportuna quindi l’ironia corrosiva di quei giovani che sotto il Ministero del Lavoro hanno esposto un enorme biglietto di solo andata per quel paese intestato a Giuliano Poletti.
La sua figura non è solo legata al Jobs Act.
Quando da presidente nazionale della Lega delle Cooperative, incarico ricoperto tra il 2002 e il 2014, Poletti diventò ministro del lavoro nel governo Renzi si distinse subito per l’emanazione di un famoso decreto che estendeva a dismisura la possibilità di assumere a tempo determinato, cancellando ogni obbligo di causale per l’apposizione del termine al contratto.
È bene che questo vero campione della precarietà se ne torni a casa.
Fonte: il manifesto
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