di Matteo Bortolon
«È l’inizio di una nuova dittatura europea?». «Il colpo di stato è pronto per l’Italia». Titoli non proprio rassicuranti, anche considerando la provenienza (l’International Business Times non parrebbe una testata incline al complottismo…); che non si riferiscono all’irrompere di forze populiste di destra o simili. Si riferiscono al Mes. Il Meccanismo Europeo di Stabilità, battezzato «Fondo salva-stati» (con un tocco di involontaria comicità) dai media ufficiali, fece parlare di sé quando fu istituito (2011-12), poi emerse nelle cronache politico-finanziarie a proposito della Grecia di Tsipras, poi si è nuovamente inabissato: nel regno della opacità informativa in cui galleggiano poteri poco noti ma pienamente attivi.
Ce lo ritroviamo un po’ a sorpresa il giorno dopo il trionfo del no al referendum: Padoan chiede l’assistenza del Mes (la notizia è stata però smentita). Da qui i titoli citati (6 dicembre scorso). Ma cosa significa davvero? Perché suscita questi timori?
Teoricamente si tratta di uno strumento per la stabilità finanziaria dei paesi dell’eurozona: il concetto sarebbe una sorta di «cassa comune» in cui tutti mettono un po’ di soldi e in caso di bisogno chi è in difficoltà può attingerne, così rimane «stabile» e non contagia gli altri. Così ce lo spiegano, ma scavando un po’ più a fondo le cose non sono così idilliache.
Alla sua nascita venne salutato come «fondo monetario europeo». In effetti le similarità con il Fondo monetario internazionale sono molte, confermate dalla esplicita menzione di quest’ultimo nel trattato istitutivo del Mes. Si tratta infatti di una istituzione permanente con una capacità di prestito di 500 miliardi (si voleva aumentare la cifra ma i tedeschi non ne hanno voluto sapere); ingloba le attività poste in essere dai due fondi salva-Stati precedenti che sono andati in dismissione. Finora hanno agito su Cipro, Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna.
Il Mes è un ente di diritto internazionale formalmente distinto dall’Ue. In pratica, le istituzioni comunitarie vedono la creazione di una entità parallela (con i paesi dell’eurozona come membri) in cui non c’è il principio «un paese – un voto» ma i voti sono proporzionali alle quote di capitale (calcolate in misura proporzionale al peso di ciascuno in Bce). I più ricchi contano di più. Più che una istituzione pubblica, un’azienda.
Quando un paese richiede l’assistenza si valuta la domanda e – se approvata – si esige dal richiedente di aderire a delle «condizioni rigorose» messe per iscritto da un protocollo d’intesa. Esse potrebbero includere le misure volte a «salvaguardare la stabilità»; magari l’impegno a privatizzare le risorse dello Stato, a tagliare la spesa pubblica oppure a aumentare le tasse. O – meglio – tutti e tre assieme.
Suona familiare. In effetti non solo è quello che è successo ai paesi che hanno avuto la sciagura di cadere sotto il Fmi nelle decadi passate; è esattamente quello che sta accadendo in Grecia: il paese, in bolletta per aver salvato le proprie banche (che dovevano i soldi ad altre banche, francesi e tedesche…) si indebita con il Mes (che gli dà i soldi indebitandosi a sua volta sui mercati finanziari) coi cui capitali può indebitarsi ulteriormente coi mercati finanziari o con la Bce.
Alla fine di questa grottesca catena di indebitamenti c’è il cittadino che va spremuto a dovere con le famose condizionalità. Ti prestiamo i soldi ma devi fare il bravo, seguendo tutte le istruzioni per instaurare uno stato di neoliberismo completo.
Al di là delle varie sigle, il Mes è la Troika stessa; la punta di lancia delle politiche di austerità europee. Se non è proprio una dittatura finanziaria siamo sulla strada. Quindi occorre rimanere guardinghi: se l’Italia chiamasse il Mes non c’è da essere allegri.
Fonte: Il manifesto
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