di Fabio Neri
Nel precedente articolo sull’estrattivismo abbiamo in qualche modo scomposto il concetto in quattro fondamentali dimensioni. Luoghi reali e non-luoghi attraverso cui contemporaneamente riconoscere in che modo sta avvenendo il passaggio verso l’economia estrattivista, nuova fase del capitalismo su scala globale che chiude definitivamente con la precedente, già stravolta di fatto dalla messa in pratica della teoria monetarista più comunemente conosciuta come neoliberismo e applicata su scala globale. Il periodo precedente che si conclude è quello iniziato dopo la seconda guerra mondiale: lo stato soggetto economico regolatore dei rapporti di forza, redistributore di ricchezza (infrastrutture, industria nazionalizzata, estensione dei diritti salariali e previdenziali, servizio sanitario, etc.).
Con le dovute accortezze e specificità per ciascun paese, queste sono state caratteristiche reali che hanno condizionato stili di vita, aspettative e vita materiale di intere generazioni. Ed è proprio lo stato ad assumere un ruolo centrale in questa nuova fase, malgrado in molti sostengano erroneamente la fine di questo e dei suoi confini sotto la scure della globalizzazione. A ben veder infatti lo stato accompagna con un movimento verso l’alto la crescente concentrazione/fusione che avviene tra i soggetti economici privati in molti settori. Facevamo riferimento al decreto Sblocca Italia e alla riforma del Titolo V come “normazione”, elevazione a Regola, della verticalizzazione del processo decisionale e della concentrazione di potere pianificatorio in mano esclusiva del governo. La sconfitta sonora del tentativo di riforma costituzionale del 4 dicembre non deve però farci pensare che sia stata egualmente battuta la visione estrattivista ormai fatta propria dalle elite economiche globali e nostrane.
Con le dovute accortezze e specificità per ciascun paese, queste sono state caratteristiche reali che hanno condizionato stili di vita, aspettative e vita materiale di intere generazioni. Ed è proprio lo stato ad assumere un ruolo centrale in questa nuova fase, malgrado in molti sostengano erroneamente la fine di questo e dei suoi confini sotto la scure della globalizzazione. A ben veder infatti lo stato accompagna con un movimento verso l’alto la crescente concentrazione/fusione che avviene tra i soggetti economici privati in molti settori. Facevamo riferimento al decreto Sblocca Italia e alla riforma del Titolo V come “normazione”, elevazione a Regola, della verticalizzazione del processo decisionale e della concentrazione di potere pianificatorio in mano esclusiva del governo. La sconfitta sonora del tentativo di riforma costituzionale del 4 dicembre non deve però farci pensare che sia stata egualmente battuta la visione estrattivista ormai fatta propria dalle elite economiche globali e nostrane.
La stessa riorganizzazione territoriale in chiave macroregionale, cioè in aggregazioni di più regioni, sembra essere una questione studiata in diversi ambiti del mondo economico e bancario, disegnata in alcune proposte di legge che giacciono in Parlamento, ma sempre più materializzata in particolare dal settore delle cosìdette multiutilities. Il progetto di legge (abbastanza dormiente) in Parlamento a firma di Roberto Morassut, del Pd, ricalca più o meno il modello ipotizzato dalla Fondazione Agnelli a metà anni ’90 nel documento “Un federalismo dei valori”. Anche in tempi più recenti, il fondo Equiter di Intesa San Paolo, ha rilanciato l’idea, e per la prima volta ha individuato come ossatura delle nascenti aggregazioni proprio i territori in cui operano le grandi 4 multiutilities: A2A, Hera, Iren, Acea. Società enormi, quotate in borsa, con fatturati di miliardi di euro, che gestiscono ciascuna con un suo asset principale le varie utilities, e cioè i servizi idrici, energetici, di smaltimento dei rifiuti, in molti territori del centro-nord Italia. Sono quelle, insomma, per scendere verso il basso, che intestano le nostre bollette.
Primo: la concentrazione
Ma a questo punto, per comprendere come si intrecciano la de-territorializzazione delle istituzioni pubbliche e le necessità del mondo economico, ci viene utile tornare per un attimo verso l’alto, ed esattamente ad una delle dimensioni in cui abbiamo scomposto l’estrattivismo: il processo di concentrazione/fusione dei soggetti economici (non solo privati ma anche misti, come il caso delle multiutilities), accompagnato da una elevata e crescente finanziarizzazione. La concentrazione/fusione tra imprese riguarda di fatto ogni settore economico e aziende di ogni dimensioni e, tanto per dare qualche cifra, nel 2015 ha generato solo in Italia un volume di scambi di 59 miliardi di euro. Ma perché accade? Fondendosi tra loro, le imprese danno vita ad una concentrazione di capitale finanziario sempre maggiore, ma soprattutto concentrano quote di mercato crescenti facendo diminuire contemporaneamente gli attori in campo. La composizione dei consigli di amministrazione di queste megaimprese corrisponde sempre alla galassia dei cosiddetti “investitori”, spesso senza volto come i fondi di investimento speculativi (tipo Blackrok), in una progressiva spersonalizzazione e “a-territorialità”. Per chi agisce sui territori, resistendo a questa o quella “grande inutile opera”, questa diviene o deve divenire materia di analisi costante. Insomma, un fulgido esempio della insita tendenza al monopolio, o almeno all’oligopolio, alla faccia della concorrenza con cui ancora molto dei retori del libero mercato infarciscono i loro messaggi all’ora di dover descrivere gli aspetti positivi della privatizzazione di questa o quella azienda pubblica o di questo o quel servizio messo a gara anziché affidato direttamente alle aziende speciali. Alcuni esempi possono essere utili. La Salini Impregilo, che ha incorporato nel 2009 la umbra Todini spa: nel 2011 Impregilo è diventata il primo player nazionale, la prima azienda italiana per fatturato all’estero e tra i primi al mondo nel settore delle costruzioni e grandi opere. La recente concentrazione/fusione Bayer-Monsanto, per toccare le mega corporation globali dell’agroindustria e farmaceutica, passando per il mondo bancario in continua concentrazione/fusione, fino alla fusione tra imprese pubbliche di servizi con i giganti del settore. Proprio queste ultime oggi rappresentano sui territori forse la più grossa messa in mora della possibilità da parte dei cittadini e degli stessi comuni (molto più spesso soggetti attivi della privatizzazione in quanto soci) di poter decidere sulla gestione dei servizi pubblici essenziali, e quindi sui loro costi e sui loro bilanci.
Hera, ad esempio, creata nel 2002 come azienda di comuni del bolognese, oggi copre una vera e propria macroregione adriatica che va dalle Marche fino al Friuli, passando per la Romagna, suo territorio di origine, e il Veneto. Per un totale di 358 comuni divenuti soci per tramite delle aziende pubbliche incorporate o attraverso la creazione di nuove imprese (newco). Questo formidabile processo di concentrazione, che ha ovviamente risvolti politici oltre che economici, non poteva non essere accompagnato da un grado crescente di finanziarizzazione. Nel 2002, anno della fondazione, i soci erano esclusivamente i comuni, ma già a giugno del 2003, anno della quotazione in borsa, il 44% delle azioni era in mano al mercato.
Cambia il core business
E qui entriamo appunto nella dimensione fondamentale del nuovo processo di accumulazione a cui si dà il nome di estrattivismo: per molti soggetti economici la produzione di valore avviene fuori dalla concreta produzione di beni, anche nel caso della gestione di servizi, e si svolge nelle dinamiche del mercato azionario in cui si acquistano capitali in un complesso sistema di strumenti finanziari, spesso “tossici” come quelli che hanno generato l’ultima crisi mondiale partita dagli Stati Uniti. Fondi derivati che assumono un valore sulla base di un valore sottostante a sua volta strumento finanziario. E così aumenta il peso del valore finanziario a scapito di quello dalla produzione/gestione, processo peraltro misurabile dal rapporto tra volumi di profitti ottenuti dal settore finanziario sul valore da produzione. Il motivo è semplice: l’elevata finanziarizzazione permette di generare volumi di profitti in breve tempo da distribuire sottoforma di dividendi per gli azionisti. Che questi siano soci privati o pubblici non fa distinzione, né deve farci pensare erroneamente che possano essere magari utili ai comuni che compongono l’assetto societario delle multiutilities. È evidente come il nesso tra gestione del servizio idrico o dei rifiuti e la creazione di valore economico sparisce, e il rapporto tra il potere decisionale dei soci pubblici e quello in mano ai privati non può che essere sbilanciato a favore di questi ultimi e della logica finanziaria di cui sono naturalmente portatori e attori rilevanti. Testimonianza ne è che nel quinquennio 2010-2014 le quattro multiutilities hanno distribuito più dividendi dell’utile netto a disposizione, con un rapporto del 113% ed un calo vertiginoso degli investimenti. Ciò significa che la logica della finanziarizzazione prevede la generazione di debito, pur di garantire dividendi certi. Debito che ovviamente andrà coperto dalle tariffe.
Quanto tutto questo abbia a che fare con la democrazia davvero esercitata o esercitabile da parte dei cittadini nella possibile decisione in merito ai servizi essenziali, è evidente. La vicenda del referendum sull’acqua pubblica è li a testimoniarlo Così come il rapporto tra reddito e possibilità di accesso ai servizi, tanto che aumentano esponenzialmente i casi di morosità e di stacchi coatti dei contatori, su cui agiscono contestualmente la crisi strutturale che impoverisce sempre più persone e la forma proprietaria con cui questi soggetti economici gestiscono i servizi essenziali.
Come tutto questo si faccia “geografia” politica ed economica diventa quindi più chiaro. Mentre la politica giocherella pubblicamente con il tema delle macroregioni, nei fatti e proprio utilizzando gli strumenti finanziari e di concentrazione/fusione delle multiutilities le va materializzando, in particolare al centro-nord Italia. Intere porzioni del paese sono di fatto controllate da multitutilities che impongono economie di scala, per le quali i territori fanno parte di un generale asset produttivo e relativa impiantistica senza alcuna distinzione e pertinenza regionale, spingendo verso l’“industrializzazione” dei settori. Come nei rifiuti, in netta antitesi con le esperienze più virtuose in Italia caratterizzate in modo esclusivo proprio dal pubblico e in forme di aggregazione al massimo provinciale. In questo senso, il decreto Sblocca Italia, con la previsione di nuovi otto inceneritori, spinge proprio verso il rafforzamento del settore dei colossi, gli unici in grado di sostenere costi e know how di mega impianti. Tanto che anche Cassa depositi e Prestiti da tempo ha messo l’accento sulla “peccaminosa” frammentazione delle forme di gestione dei rifiuti, proponendosi come soggetto attivo di una necessaria industrializzazione, ovviamente in capo alle maggiori multituility. Ne parleremo nel prossimo articolo in cui affronteremo il ruolo dello stato e del pubblico, all’epoca dell’estrattivismo.
Fonte: ribalta.info
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