di Jacopo Formaioni
Cresce ancora la sharing economy, con un numero sempre più alto di settori interessati: dal turismo al welfare, dalla finanza ai trasporti, alla cultura, passando per casa, scienza e lavoro. È vivace e dinamica, ma ancora fragile. Questo il quadro che emerge dall'annuale rapporto di Sharitaly: 8 milioni di italiani ne sono coinvolti, ma sono più del doppio quelli che dichiarano di avere usato almeno una volta un servizio all’insegna del “consumo collaborativo”.
Il 2016 è stato l’anno dell'invasione di campo nel panorama del lavoro delle attività e delle piattaforme di sharing. Con l’apertura dei primi conflitti, come i casi Uber e Foodora, e sollevando i primi interrogativi: quanto questo modello economico sta modificando il modo di intendere i rapporti di impiego e la relazione tra chi richiede un servizio e chi lo fornisce? Secondo Marta Mainieri (Collaboriamo) e Ivana Pais (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano), curatrici di Sharitaly, oggi è sempre più importante stabilire i confini tra quello che rientra davvero nella categoria della sharing economy e quello che invece non può starci.
Di economia collaborativa si può parlare, dicono le due studiose, quando siamo di fronte a piattaforme davvero “peer-to-peer”, che permettono direttamente lo scambio o la condivisione di beni, oggetti, denaro, spazi tra persone, abilitando e non erogando servizi e transazioni attraverso un sistema reputazionale, non stabiliendo un prezzo e non selezionando personale. Altrimenti, se la piattaforma controlla l’erogazione e stabilisce le regole, sostituendo all’abilitazione il controllo del servizio, bisogna parlare di economia “gig”(lavoretto) o “on demand”.
In Italia ci sono 138 piattaforme di sharing e 68 di crowdfounding, per un totale di 206, suddivise in 12 settori, con un aumento del 10% sul 2015. Accanto alla crescita, va tuttavia considerato per la prima volta anche un fenomeno di mortalità abbastanza alto: delle 187 piattaforme attive nel 2015, 13 risultano inattive, ben l’11% . I servizi alla persona e quelli alle imprese, categorie in cui si collocano anche le attività che comprendono il lavoro e i cosiddetti “lavoretti”, arrivate al 16% e all’8,7%, sono tra i settori che crescono di più, insieme ai trasporti (18%) e alla cultura (9,4 %), con il turismo che resta invece stabile al 12%.
L’82% dei fondatori delle piattaforme è composto da uomini, per di più non giovanissimi, visto che l’età media è di 39 anni. I laureati sono il 76%, mentre il 39 % proviene da altre iniziative imprenditoriali (che ha creato o gestito). In media, se si escludono le tre maggiori realtà di sharing, che occupano oltre 15 persone, in una piattaforma tipica si lavora in sei. Non solo. Le piattaforme collaborative italiane sono anche povere di relazioni con altri soggetti, dalla ricerca all’università, agli enti pubblici o alle associazioni di categoria o non profit.
Persino con le altre piattaforme i rapporti sono scarsi, ma non con gli utenti. Nel 2015 il 20% delle piattaforme sharing raggiungeva più di 30 mila utenti, ora sono il 31%. E anche sul lato della domanda ci sono ancora larghi margini di crescita e di distribuzione, visto che il 51% delle piattaforme di sharing ha un numero di utenti inferiore ai 5 mila, mentre l'11% ne concentra già oltre 100 mila.
Gig economy
La sharing economy è un modello economico, ma prima di tutto uno stile di vita ben preciso. E diverso da un semplice strumento finalizzato a rimediare del lavoro, seppure in modo innovativo. Per capirlo basta mettere a confronto due piattaforme come Bla Bla Car e Uber: nel primo caso, l’automobilista pianifica un tragitto e, per contenere le spese, mette a reddito i posti liberi, condividendo spese e riducendo l’impatto ambientale; l’autista di Uber si sposta su chiamata, come un taxista, creandosi un lavoro. Quando parliamo di piattaforme come Uber, Foodora o Deliveroo, ci riferiamo quindi a un modello del tutto particolare, parliamo di gig economy.
Caporalato digitale
Uno dei sistemi di impiego più contradditori degli ultimi anni, che affonda le sue radici già nell’America degli anni sessanta, quando veniva chiamata “lavoro periferico”.Un modello dove le prestazioni lavorative stabili sono azzerate e, di conseguenza, gli impiegati e i dipendenti a tempo indeterminato praticamente non sono contemplati. Dove non esistono più posti di lavoro - né a tempo determinato, né indeterminato - e l’offerta di prestazioni lavorative, prodotti o servizi, avviene solo on demand, quando c'è richiesta. In sostanza, un caporalato digitale.
L’espressione gig economy deriva dal termine inglese “gig”, lavoretto, mentre nel mondo dello spettacolo “gig” è il cachet. Il precario 4.0 è chiamato gig worker e il modello è quello dell’on demand, completamente disintermediata grazie a app e piattaforme digitali. Nella gig economy l’incontro tra domanda e offerta è gestito on-line. Ma il “gestore” non è un arbitro imparziale e innova solo apparentemente: distrugge la cornice giuridica e il fondamento di ogni relazione e garanzia di lavoro.
Un fenomeno che gli studiosi hanno già ribattezzato plattform-kapitalismus, capitalismo delle piattaforme: attraverso app in apparenza neutrali mette in relazione soggetti che cercano e soggetti che offrono attività, prestazioni temporanee. Con il lavoro che rischia di passare da un sistema di pagamento orario a un altro basato sul cottimo, tanto combattuto nel passato, anche recente. Il fenomeno ha assunto caratteristiche negative soprattutto in Italia. Perché, complice la crescente crisi occupazionale, si commette sempre più spesso l'errore di considerare i “lavoretti” non più dei mezzi per arrotondare, ma per mettere insieme un vero e proprio stipendio.
Ma non per quello certe piattaforme sono nate. Prendiamo la tanto discussa Foodora, piattaforma tedesca di consegna di pasti a domicilio, presente a Torino e a Milano, coinvolta lo scorso ottobre nel primo vero sciopere del settore. I giovani fattorini, che si impegnano, percorrono chilometri, aspettano speranzosi una chiamata per guadagnare qualche decina di euro, si sono visti diminuire il compenso da 5 a 2,70 euro a chiamata. Ne è nata una protesta legittima: hanno chiesto migliori condizioni di lavoro e paghe più dignitose.
Garanzie azzerate
Il fattorino di Foodora o l’autista di Uber sono solo alcuni esempi di quegli stessi “lavoretti” che prima si cercavano affiggendo annunci sui lampioni e alle edicole sotto casa. Ora passano da piattaforme che offrono a chiunque la possibilità di lavorare, quando e come vuole. Moltiplicando le occasioni, ma azzerando le garanzie. Garanzie che certe prestazioni mai hanno assicurato, sfuggendo ai controlli e finendo quasi sempre per essere svolte da giovanissimi per arrotondare e solo per un breve periodo. Ma oggi è cambiato l’intero contesto e spesso sono trentenni e anche ultratrentenni che, in mancanza d’altro, sfruttano tutte le possibilità.
Ecco allora il bisogno e l’occasione di dare regole alla gig economy, così come richiesto da più parti. Tentando in questo modo di far emergere il sommerso. Attualmente, una proposta sulla regolamentazione di questi nuovi modelli lavorativi è in discussione in Parlamento, mentre in Europa se ne parla già da tempo. Le priorità individuate dal disegno di legge italiano, che a livello definitorio si esprime in termini assai generici, fanno riferimento da un lato alla tutela del mercato e, dall’altro, a quella dei diritti dei lavoratori, autonomi e non, con l’intento di gestire e definire da un punto di vista legislativo il cambiamento in atto.
Fonte: rassegna.it
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