di Paolo Paesani
“L’uguaglianza all’interno dei paesi è nemica dell’uguaglianza a livello globale?”. E’ questo il titolo della XVI Lezione “Angelo Costa”, che si è tenuta il 2 Dicembre di quest’ anno presso la sede centrale della Confidustria, con il patrocinio della Rivista di Politica Economica. Ad affrontare questo argomento di grande attualità, e tema-chiave della sua riflessione e della sua produzione scientifica, è stato Dani Rodrik, professore di Politica Economica Internazionale presso la John F. Kennedy School of Government dell’Università di Harvard e autore di ricerche importanti sugli effetti della globalizzazione sul sistema economico-sociale e sulla politica economica.
All’ inizio della sua lezione, confrontando la fase attuale di globalizzazione dell’attività economica (1950-2008) con la precedente (1820-1910), Rodrik ha messo in evidenza due temi in particolare: l’aumento della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi sul piano mondiale, e l’aumento del contributo relativo della disuguaglianza fra le nazioni (between country inequality) rispetto alla disuguaglianza all’interno delle nazioni (within country inequality) nella determinazione di questo fenomeno.
Se nel 1820, la disuguaglianza globale, misurata non con l’indice di Gini ma con la deviazione logaritmica media (mean logarithmic deviation) dei redditi, risultava pari a 0,422, di cui 0,370 (88%) within country e 0,053 (12%) between country (F. Bourguignon e C. Morrisson “Inequality among World Citizens: 1820-1992”, American Economic Review, 2002), Rodrik – partendo dalle stime di Milanovic – calcola una disuguaglianza globale pari a 0,98 nel 2008, di cui meno di un quarto within country e più di tre quarti between country (Rodrik “Is National Equality the Enemy of Global Equality?”, mimeo, 2016).
Negli ultimi anni, Rodrik registra una parziale inversione di tendenza rispetto all’importanza crescente della disuguaglianza between countries e attribuisce un ruolo primario in questo alla crescita dell’economia cinese e alle politiche industriali – “pragmatiche, opportunistiche e spesso non ortodosse” – che l’hanno sostenuta (sussidi alle esportazioni, manipolazione dei tassi di cambio, finanziamenti ad hoc allo sviluppo, le barriere protezionistiche non tariffarie e la creazione di zone speciali di investimento).
La crescita cinese, centrata sullo sviluppo del settore manifatturiero, nell’ambito di un contesto, nazionale e globale, favorevole all’investimento e all’adozione di politiche fiscali e monetarie orientate alla stabilità, è però, secondo Rodrik, un fenomeno irripetibile. L’importanza crescente dell’ innovazione e della skill intensity in campo industriale rende sempre più improbabile che altre economie emergenti possano seguire l’esempio della Cina, come testimoniato dal fenomeno, sempre più frequente, della deindustrializzazione prematura. Da qui, la previsione che nei prossimi anni la disuguaglianza globale aumenterà e con essa l’incentivo di milioni di persone a spostarsi dai paesi di nascita, collocati prevalentemente nella parte Sud del mondo, verso le nazioni economicamente più sviluppate.
Nonostante questo, e nonostante la dimensione dei flussi migratori in corso, Rodrik è convinto che esistano ancora barriere molto elevate alla mobilità internazionale del lavoro, che è difficile giustificare su un piano strettamente economico. Al di là delle considerazioni etiche sul diritto di tutti ad uno standard di vita accettabile, indipendentemente dalla nazione di nascita, Rodrik discute due vantaggi principali che è legittimo attendersi dalla riduzione delle barriere esistenti alla mobilità internazionale del lavoro. Primo, un fortissimo vantaggio per i lavoratori immigrati a fronte di un danno limitato per i residenti, nell’ipotesi di una bassa elasticità dell’ offerta di lavoro a variazioni del salario e di un differenziale elevato tra i salari medi pagati nel Nord e nel Sud del mondo. Secondo, un miglioramento sul versante della giustizia distributiva, attraverso la riduzione di fenomeni di concorrenza sleale, quali il dumping sociale, e una maggiore uniformità negli standard di sicurezza e nelle garanzie economiche per un numero crescente di lavoratori.
A fronte di questi vantaggi, che presuppongono il superamento del dualismo nel mercato del lavoro all’interno dei paesi sviluppati (ipotesi che Rodrik richiama con la giusta cautela), esiste il rischio che masse crescenti di migranti determinino una pressione eccessiva sulle istituzioni nazionali, poste a tutela della coesione sociale nei paesi sviluppati, spingendole verso una crisi. Citando G. Weyl, a proposito del legame diretto tra grado di apertura all’ immigrazione e disuguaglianza interna (G. Weyl “The Openness-Equality Trade-Off in Global Redistribution”, 2014) e le ricerche di Alesina ed altri a proposito del collegamento tra omogeneità culturale-etnico-lingustica e offerta di beni pubblici (es. A. Alesina, R. Baqir, W. Easterly “Public Goods and Ethnic Divisions”, Quarterly Journal of Economics, 1999), Rodrik sottolinea come il mantenimento di un’offerta adeguata di beni pubblici nei paesi sviluppati possa richiedere barriere significative alla mobilità internazionale del lavoro, seppur non così alte come quelle attuali. Il desiderio di preservare le democrazie liberali dai rischi del populismo suggerisce di muoversi nella stessa direzione.
A sostengo di questa tesi, Rodrik cita un studio di K. Baldwin e J.D. Huber (“Economic versus Cultural Differences: Forms of Ethnic Diversity and Public Goods Provision “, American Political Science Review, 2010) che mette in evidenza l’ esistenza di una relazione inversa e statisticamente significativa, tra offerta di beni pubblici e disuguaglianza economica fra gruppi etnici diversi all’interno delle singole nazioni (Between Group Inequality BGI). Baldwin e Huber considerano questo fattore, piuttosto che la frammentazione etnico-linguistica, come una causa essenziale, seppur non l’unica, della possibilità che un aumento della migrazione, dal Sud verso il Nord del mondo, determini una riduzione nell’offerta di beni pubblici nei paesi sviluppati, minando le basi dell’uguaglianza al loro interno.
Rodrik non offre una risposta definitiva a questo problema e alla domanda che ha scelto come titolo per il suo intervento. Nella sua riscostruzione, le nazioni ricche sono tali perché dotate di solide istituzioni a sostegno del mercato, capaci di legittimarlo, stabilizzarlo e regolamentarlo. Le nazioni più povere, che sono riuscite ad emergere, lo hanno fatto adottando un mix intelligente tra apertura e intervento pubblico. La Cina costituisce un esempio perfetto in questo senso, con la sua formula della “finestra aperta ma con una zanzariera” (“open window, but with mosquito screen”), una zanzariera fatta di politiche industriali, cambi amministrati e controlli sui movimenti internazionali di capitale.
In quest’ottica, l’esistenza di stati nazionali, capaci di fornire una quantità adeguata di beni pubblici a tutti i residenti, a prescindere dalla loro nazionalità, è centrale in vista dell’obiettivo ultimo di una riduzione significativa della povertà e delle disuguaglianze a livello globale. Sarebbe davvero una vittoria di Pirro, ha affermato Rodrik, se la rimozione delle barriere alla migrazione per motivi economici arrivasse fino al punto di indebolire la capacità degli stati nazionali di fornire quei beni pubblici che sono necessari ad accrescere la produttività del lavoro da cui dipende, in ultima analisi, la capacità dei paesi del Nord del mondo di pagare salari relativamente alti.
Rodrik ritiene, dunque, che vi siano argomenti solidi a favore della riduzione delle barriere – oggi eccessivamente elevate – all’immigrazione economica, ma non per un loro completo smantellamento. D’altra parte, ha concluso Rodrik, l’economia è la scienza della scelta e non è una sorpresa che le soluzioni ad angolo (zero barriere oppure zero immigrazione) non siano ottimali. Gli stati nazionali, dunque, non sono nemici dell’uguaglianza globale ed è probabile che in futuro, siano necessari stati nazionali più forti e non più deboli per adottare quelle strategie di crescita efficaci che costituscono ancora la garanzia migliore per la riduzione delle disuguaglianze a livello globale.
Nell’ insieme, l’analisi proposta da Rodrik riflette il tentativo di combinare un impianto teorico di tipo ortodosso, basato su una visione tradizionale del mercato e del rapporto tra istituzioni (causa) e crescita (effetto), con un’analisi in prospettiva storica, rispettosa delle differenze nazionali, animata da una genuina preoccupazione per l’accentuarsi delle disuguaglianza a livello globale e consapevole dell’importanza della politica economica come fattore correttivo. E’ inevitabile che da un’impostazione del genere vengano soluzioni di compromesso e, in ultima analisi, più domande che risposte. Le domande, però, sono quelle giuste e invitano a riflettere sulle cause della disuguaglianza e della povertà, all’interno delle singole realtà nazionali e sul piano mondiale, nonché sui possibili interventi di politica economica per attenuarne l’impatto, realizzando una sintesi virtuosa tra equità ed efficienza. Come suggerisce la relazione di Rodrik, la ricerca delle risposte continua.
Fonte: eticaeconomia.it
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