di Giulio Cavalli
Ma che ne abbiamo fatto del coraggio e del dolore dei nostri padri che hanno ingolfato le città che si allargavano a forma di bacini per accoglierli? Ma dove le abbiamo messe le foto dei nonni imbellettati con i capelli di pomata per cui l’America era un impiego nel capoluogo di provincia? Che ne abbiamo fatto del pianto delle nonne nel giorno del diploma dei figli, in bilico tra la soddisfazione di un figlio studiato e il rammarico di un titolo di studio che lì in paese equivaleva a un sicuro foglio di via? Ma non li vediamo quelli che fra qualche giorno si preparano a imbottire auto e borse per passare le feste a casa?
A casa che è “casa” anche se non ci si sta da quarant’anni, in fondo a qualche svincolo d’autostrada, dove i nipoti si domandano chissà come avranno fatto a viverci tutto l’anno tutti gli anni mica solo d’estate?
A casa che è “casa” anche se non ci si sta da quarant’anni, in fondo a qualche svincolo d’autostrada, dove i nipoti si domandano chissà come avranno fatto a viverci tutto l’anno tutti gli anni mica solo d’estate?
Che ce ne facciamo del senso di sconfitta di chi avrebbe voluto contribuire alla costruzione di un luogo all’altezza piuttosto che l’intraprendere un viaggio? Dov’è andata la memoria, il comune sentire, di un Paese di migranti dall’alto in basso, su e giù per il Paese, sempre intenti ad essere pionieri?
Non si tratta né solo di giovani e né solo di Paesi stranieri. L’estero di chi parte per lavorare può essere appena fuori regione eppure lo spirito è quello. Un Paese così avrebbe bisogno di governanti che promettano di farli tornare tutti, quelli che sono stati costretti a partire; avrebbe bisogno di governanti che ci dicano che prima o poi ogni angolo sarà all’altezza di quelli che ci nascono.
Chi rimesta nel viaggio degli altri, invece, quelli che contano chi passa e puntano a chi resta, quelli sono i predatori. Questi saccheggiano la memoria e non se ne rendono nemmeno conto.
Fonte: Left.it
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