di Alessandro Gilioli
A volte, spingi spingi, una battaglia civile di minoranza diventa mainstream. Qui ci si è occupati per la prima volta di voucher più di nove mesi fa, non solo su questo blog ma anche sull'Espresso cartaceo: e grazie a Fabrizio Gatti e Francesca Sironi ma soprattutto all'allora direttore Luigi Vicinanza che mi diede retta, quando in riunione spiegai la portata del fenomeno e suggerii che ce ne dovevamo ampiamente occupare, anche se non ne parlava nessuno. Adesso, per fortuna, invece ne parlano tutti.
Compreso il responsabile economico del Pd Filippo Taddei, che nell'aprile scorso difendeva senza se e senza ma i buoni lavoro («stanno svolgendo il proprio compito primario, cioè far emergere lavoro nero, quindi la legge non va cambiata, basta introdurre la tracciabilità per evitare gli abusi») mentre ora, sull'Unità, preferisce farne la storia per ricordare che essi furono introdotti dal centrodestra, poi estesi dal governo Monti, quindi ulteriormente allargati da quello Letta, mentre con Renzi ci si è limitati ad alzare un po' il tetto per il loro utilizzo (da 5.000 a 7.000 euro l'anno), garantendone tuttavia la tracciabilità telematica per evitare gli abusi illegali.
In altri termini, Taddei scarica le responsabilità sui governi precedenti, il che è un'implicita (ma neanche troppo) presa di distanza.
Il responsabile economico del Pd ha le sue ragioni, in termini di cronistoria: è vero che i voucher nascono ai tempi del centrodestra ed è vero che la loro prima robusta estensione avviene con i governi Monti e Letta. Tuttavia, va aggiunto, in entrambi i casi con la piena approvazione del Pd. Quanto al governo Renzi, questo ha dato - per così dire - la botta finale: alzare il tetto dei voucher del 40 per cento, date le precedenti liberalizzazioni, ha infatti portato al boom degli ultimi due anni, in cui si è passati da meno di 70 a più di 120 milioni di voucher, con un aumento del 32 per cento solo nel 2016.
Soprattutto, il combinato tra le estensioni precedenti e l'aumento del tetto ha finito per modificarne la natura: nato per regolarizzare le piccole collaborazioni occasionali, il voucher si è trasformato in un “sostituto di assunzione”. Vale a dire: in caso di bisogno di collaboratori-manodopera, invece di assumere personale molte aziende hanno fatto ricorso ai voucher, creando così una nuova classe di lavoratori iper precari, senza alcun diritto alla malattia, alle ferie, alla maternità (e neanche parliamo di Tfr e tredicesima).
È quindi molto inesatto dire (come fanno alcuni) che "i voucher non c'entrano con il Jobs Act", dato che l'innalzamento del tetto del 40 per cento è avvenuto proprio con quella legge. La quale, detto per inciso, secondo Renzi è una di quelle «di cui dobbiamo essere orgogliosi» (tre giorni fa, all'assemblea nazionale Pd).
A Filippo Taddei e al Pd faccio quindi presente che la questione delle responsabilità (è più colpa di Monti, Letta o Renzi?) è certamente interessante nel gioco della contrapposizione politica, ma non è utile ad affrontare in modo limpido il problema sociale, adesso.
Semplicemente, a Taddei e al Pd chiedo: si è favorevoli o contrari a una forma di lavoro iper precaria che non prevede diritto alle ferie, alla malattia, alla maternità, etc etc? E si è favorevoli a questo in assenza di un reddito minimo garantito che contempli anche le cose di cui sopra (maternità, ferie, malattia etc)?
Se si è favorevoli a queste forme di lavoro senza continuità di reddito e senza diritti di base, lo si dica apertamente - e nel caso è solo ipocrisia sostenere che è tutta colpa dei predecessori.
Se invece si è contrari, si cambi verso e si mettano i lavoratori a voucher in condizione di godere di strumenti sociali che consentano loro un minimo di continuità di reddito, di diritto alla malattia, alla maternità, alle ferie etc.
A proposito.
Ieri Berlusconi, alla solita presentazione del libro di Bruno vespa, ha aperto - un po' a sorpresa - al reddito minimo, nella versione "di cittadinanza" proposta dal M5S.
Può essere una boutade, certo, ma è vero tuttavia che ormai il reddito minimo viene ipotizzato non più solo da economisti di scuola keynesiana, ma anche da diversi di estrazione liberale, che lo vedono come unico strumento per salvare il meccanismo di consumo-produzione, insomma il motore del capitalismo. Senza reddito, infatti, crollano i consumi e il sistema va in testacoda.
Se quella di Forza Italia fosse una svolta vera, questo significherebbe che in Parlamento ci sono i numeri per approvare qualche forma che dia continuità di reddito e di diritti nell'era del lavoro molecolare e del precariato acrobatico: essendo il M5S e Sinistra Italiana (ma anche qualcuno nel Pd) firmatari di proposte in questo senso.
D'altro canto, tutte le geremiadi sul costo del reddito minimo hanno perso un po' di autorevolezza, ultimamente: dato che una cifra maggiore è stata trovata in cinque minuti, da entrambe le Camere, per salvare una banca, giusto ieri.
E ormai si è capito - quasi tutti hanno capito - che il costo del reddito minimo è comunque inferiore al costo (economico, ma anche in termini di pace sociale) della scelta opposta, cioè dell'assenza di un reddito minimo.
Già, è proprio come si diceva all'inizio: a volte, spingi spingi, una battaglia civile di minoranza diventa mainstream.
Fonte: L'Espresso - blog Piovono Rane
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