di Richard Falk
Appiccicare l’etichetta di “Primavera Araba” ai considerevoli eventi del 2011 sembra già bizzarro, se non una denominazione impropria. Guardandoci indietro cinque anni dopo, piuttosto che una via a un futuro migliore, quello che si sta svolgendo è l’oscuramento di un quadro politico regionale già molto fosco. Tuttavia il fatto che tale oscuramento sia l’esito finale piuttosto che un punto mediano di un processo il cui esito non può essere previsto è al centro dell’incertezza interpretativa.
Questo articolo tenta una panoramica di sviluppi salienti nel corso di questo periodo turbolento e anche una citazione estremamente selettiva di accadimenti precedenti che accrescono la nostra comprensione di quella che io continuo a chiamare Primavera Araba, in parte per comodità, ma anche per riconoscere l’eccitazione che fu accesa da una serie di spettacolari rivolte popolari contro regimi autoritari radicati, verificatisi in tutto il Medio Oriente nel corso del 2011.
Un’osservazione significativa s’incentra sull’eco molto più debole dell’esperienza della Primavera Araba e del seguito controrivoluzionario in rapporto alle varie monarchie del mondo arabo rispetto agli stati con procedure governative laiche. Spiegare più adeguatamente questa apparente differenza strutturale impone di considerare la situazione prevalente in ciascuna monarchia, ma le monarchie nel loro complesso sono parse possedere una legittimità maggiore di quella dei loro vicini laici. Ciò è stato rafforzato da alcuni collegamenti transnazionali tra le famiglie reali, da vari legami con la dirigenza religiosa islamica e come risultato della loro relativa ricchezza che ha consentito la pacificazione della popolazione mediante sussidi statali e altri interventi materiali.
Antecedenti
Le rivolte arabe del 2011 sono state precedute da una varietà di sviluppi che hanno preparato il terreno per ciò che è accaduto, in aggiunta alle ovvie condizioni riguardanti l’intera regione: un processo governativo che era corrotto e repressivo producendo profondo scontento e acute divisioni di classe; povertà e disoccupazione diffuse accentuanti crescenti disuguaglianze tra l’élite ricca privilegiata e il resto della società. Naturalmente queste condizioni regionali generali producevano configurazioni politiche diverse a seconda delle distinte situazioni nazionali prevalenti in ciascun paese, compreso il carattere della dirigenza politica e la qualità della macchina governativa.
Ci sono stati quattro sviluppi in Medio Oriente che hanno dato alla religione una particolare rilevanza in questi eventi politici. Innanzitutto la diffusa sensazione che il nazionalismo laico non aveva prodotto risultati efficaci nel periodo dell’indipendenza, una visione intensificata dalle aspettative post-coloniali deluse della popolazione e dalle promesse non mantenute dei primi leader post-indipendenza. Questa delusione nella cittadinanza si è estesa anche al fallimento di questi stati di recente indipendenza quanto al mantenere l’integrità della sovranità del paese in reazione ai progetti intrusivi occidentali.
Queste percezioni nel mondo arabo sono state rafforzate da un decennio di successi goduti dal Partito della Giustizia e dello Sviluppo in Turchia, che è stato percepito come un risultato vantaggioso dell’orientamento islamico della dirigenza politica. In secondo luogo la resilienza della Rivoluzione Iraniana che aveva assunto il potere nel 1979, aveva imposto un regime teocratico al popolo iraniano e tuttavia era riuscita a resistere a una varietà di pressioni ostili montate da fuori dai suoi confini. Terzo: l’impiego di grandi risorse da parte dell’Arabia Saudita per diffondere la militanza islamica in tutta la regione e oltre. Quarto: l’intervento militare illegale del 2003 in Iraq e l’occupazione successiva in conseguenza degli sforzi congiunti di Stati Uniti e Regno Unito. Una caratteristica di tale occupazione è stata l’aggravamento della rivalità tra sunniti e sciiti in modi che hanno contribuito all’ascesa del jihadismo in tutto il Medio Oriente e a favorire allineamenti settari che hanno amplificato la dimensione della violenza in Siria e in Yemen.
In aggiunta a questo sfondo storico, ma esercitando una considerevole influenza nel plasmare gli eventi e contribuire a spiegare le varie esperienze nazionali di ordine e caso che hanno afflitto i paesi del Medio Oriente, ci sono state due altre imposizioni da parte di forze extra-regionali dell’Occidente [1]. Soprattutto la diplomazia che pose fine alla prima guerra mondiale creò condizioni che generarono conflitti interni e instabilità regionale in forme che permangono un secolo dopo. Forse il più famigerato dei risultati dopo la prima guerra mondiale fu l’attuazione dell’Accordo Sykes-Picot del 1916, che manifestò le ambizioni coloniali del Regno Unito e della Francia riguardo all’allocazione delle spoglie territoriali associate al collasso dell’Impero Ottomano [2]. Tale sviluppo rappresentò non solo un tradimento europeo delle promesse fatte ai leader nazionalisti arabi durante la prima guerra mondiale, ma inflisse confini arbitrari e comunità politiche artificiali alla regione [3]. In tali condizioni solo un governo coercitivo e autoritario poteva sperare di conseguire stabilità. Le idee di “Promozione della Democrazia” messe in atto durante la presidenza di George W. Bush come obiettivo legittimo dell’intervento militare in Iraq sono state un fallimento spettacolare e screditante. Tragicamente, dal 2003 l’Iraq ha vacillato tra un grave caos di violenze interne e il ripristino di un autoritarismo violento che rifletteva il pregiudizio settario sciita del processo di governo statunitensi imposto al paese per attuare il suo progetto di costruzione neoliberista di uno stato, una dinamica che è considerevolmente responsabile dell’emergere dell’ISIS [4].
La Dichiarazione Balfour del 1917, che promise al movimento sionista mondiale l’appoggio britannico alla creazione di una patria ebraica in Palestina ha contribuito anch’essa fortemente ai guai della regione [5]. La nascita dello stato d’Israele rifletté motivazioni europee contraddittorie. E’ stata a un tempo una conseguenza dell’interferenza colonialista con i diritti di autodeterminazione goduti dal popolo palestinese e molto dopo una reazione umanitaria/politica all’orripilante esperienza ebraica dell’Olocausto. Quali che ne siano le origini, l’ascesa di Israele come potenza militare regionale in spregio ai diritti dei palestinesi e alle idee delle maggioranze arabe ha iniettato un elemento permanentemente destabilizzante che è sia una crudele eredità dell’era coloniale, sia una fonte periodica di tensioni politiche e di scontri che ha dato origine a una serie di guerre nella regione e a una costante atmosfera di tensione.
E’ su questo sfondo che nel 2011 è scoppiata la Primavera Araba come shock alla percezione diffusamente condivisa che, indipendentemente da tali deficienze dell’ordine regionale, l’ordine politico stabilito era, nel bene e nel male, ultra-stabile. Si riteneva che i pubblici arabi fossero disposti a essere sottomessi e passivi, rendendo fuori discussione prospettive di contestazioni populiste allo status quo politico. Agenzie dei servizi segreti ed esperti accademici hanno del tutto trascurato la rilevanza politica di questi antecedenti della Primavera Araba e hanno così trascurato di tener conto delle forze all’opera sotto la superficie, che stavano divenendo spettacolarmente attive come agenti di contestazione se non vincenti alla fine come agenti di cambiamento.
La Primavera Araba può essere interpretata da varie angolazioni. Pare ragionevole distinguere gli sviluppi in Egitto e Tunisia da quelli in Libia, Siria e Yemen. E inoltre distinguere tra gli stati laici della regione che hanno vissuto sostenute rivolte e potenti forze contrapposte delle monarchie rimaste stabili pur nonostante segni di diffuso scontento.
Le rivolte arabe: Tunisia ed Egitto
Com’è oggi diffusamente noto, la serie di rivolte nel mondo arabo è iniziata con un incidente tipico, esemplificativo della sofferenza dei poveri, ma che raramente dà origine a ripercussioni politiche di proporzioni nazionali e persino regionali e globali. La catena di reazioni di sviluppi politici in intensificazione che ha prodotto una diffusa turbolenza in Tunisia ha avuto inizio il 17 dicembre 2010. Un modesto fruttivendolo ambulante, Mohammed Bouazizi nella cittadina tunisina di Sidi Bouzed si è dato fuoco dopo essere stato umiliato e dopo che le sue suppliche erano state respinte da un funzionario comunale inferiore, morendo pochi giorni dopo in mezzo a una furia crescente. Apparentemente la situazione sottostante era così instabile che questo singolo atto di autoimmolazione ha offerto la scintilla che ha innescato una grande rivolta che ha contestato la dirigenza dittatoriale e repressiva del paese sulla base di una serie di rimostranze associate alla disoccupazione, alla diffusa povertà, alla corruzione, all’inflazione dei prezzi degli alimenti e alla negazione di libertà elementari. L’attività di protesta è proseguita per molti giorni, concentrando la sua rabbia e le sue rivendicazioni sulla persona di Zine Abidine Ben Ali, un uomo forte tunisino che aveva governato il paese dal 1987. Il 14 gennaio Ben Ali ha abdicato fuggendo in Arabia Saudita dove gli è stato offerto asilo, e ne è seguita una lotta per un nuovo processo governativo.
Quella che è stata notevole in Tunisia, e nello schema altrove, è stata la mancata corrispondenza tra le aspettative estremamente ambiziose della gente nelle strade per un nuovo ordine sociale, economico e politico e le rivendicazioni relativamente limitate di cambiamento avanzate dai militanti. La sola richiesta specifica è stata che Ben Ali rinunciasse al suo ruolo di comando e che fosse messo in atto un processo di riforma costituzionale. Come altrove nel Medio Oriente, le forze islamiche erano meglio organizzate tra i gruppi di opposizione e hanno rapidamente assunto il controllo del processo politico sotto la guida di Mohamed Ghannouchi del Movimento Ennahda. Il processo non è stato facile e due insiemi di forze hanno creato problemi a questo tentativo di riformare il processo di governo della Tunisia. Uno è stato l’Islam militante che rifiutava l’approccio pluralista e inclusivo favorito da Ghannouchi e l’altro sono stati i laicisti che si opponevano alla minima traccia di influenza islamica nel processo di governo. Ci sono stati assassinii politici, elezioni turbolente, episodi terroristici, ma anche una volontà di consentire che facesse presa un processo di compromesso finito con il conservare la continuità con il passato e con il garantire moderazione nel presente. A questo riguardo, nonostante tutte le sue difficoltà e triboli, la Tunisia non solo ha avviato la Primavera Araba, ma è stata la sola, tra gli stati interessati, a conseguire una costante spinta democratizzatrice in avanti [7].
L’Egitto, per molti versi il più importante degli stati arabi, ha seguito un percorso molto diverso da quello della Tunisia dopo che il suo spettacolare movimento è succeduto a Hosni Mubarak che aveva retto il paese per tre decenni. La sua rivolta, incentrata su Piazza Tahrir inizialmente notevole per la sua relativa nonviolenza e per l’uso dei media sociali per mobilitare sostegno, è riuscita a far dimettere Mubarak e a fargli accettare l’esilio interno in una residenza estiva. Agli inizi del 2011 è sembrata una grande vittoria per le forze democratiche che ha ispirato attivisti in molte parti del mondo, un grande stimolo al movimento Occupy negli Stati Uniti e in Gran Bretagna [8].
La formidabile presenza islamica in Egitto era incentrata nella Fratellanza Mussulmana (FM), la cui dirigenza era stata a lungo tenuta in carcere ed era stata confinata ad attività politiche in larga misura clandestine e a prestare servizi sociali in comunità di tutto il paese. All’inizio la FM ha calmato le preoccupazioni dei laici promettendo di non candidarsi in molti dei distretti politici egiziani nel corso di una serie di elezioni legislative e anche di non presentare un candidato proprio nelle importantissime elezioni presidenziali. Quando è emerso che la FM aveva conquistato un sostegno prevalente alle elezioni legislative, risultati accresciuti da successi elettorali di nuovi partiti salafiti, ciò ha indotto sia la FM sia i suoi rivali a riconsiderare il futuro del paese. E’ stata questa manifestazione di forza che indubbiamente ha indotto la FM a ritirare la sua promessa e a competere dovunque nel paese e a proporre un leader FM quando è arrivato il momento di eleggere un presidente. E non c’è dubbio che la prospettiva di un controllo islamico del destino politico del paese ha causato preoccupazione e una svolta da parte di molti egiziani di città che avevano inizialmente appoggiato la rivolta.
Questi sviluppi gettano un’ombra sulle vittorie di Piazza Tahrir. Anche se c’era un accordo iniziale che alla FM doveva essere consentito di competere politicamente come parte di un passo in direzione della democrazia inclusiva, questo atteggiamento tra le élite laiche dell’Egitto è svanito rapidamente. Le élite laiche avevano supposto in origine che la forza della FM non sarebbe stata superiore al 30 per cento in termini di partecipazione parlamentare, e ciò poteva essere accettato, ma quando è emerso che era il doppio, i laici si sono trovati di fronte a una prospettiva sinistra: o l’Egitto sarebbe finito dominato dalla FM, gerarchica e ossessionata dalla segretezza, e dalla legge della sharia, oppure doveva tornare a una forma autoritaria di governo. L’apparente unanimità del periodo di Tahrir è scomparsa, con i sostenitori liberali del movimento anti Mubarak a quel punto ritiratisi o a unire forze con falool o il residuo dell’era Mubarak. E’ divenuto chiaro che il vecchio regime era sostanzialmente sopravvissuto alla caduta del leader e che le forze armate egiziane avevano la chiave del futuro del paese.
Pareva che le forze armate egiziane fossero rimaste passive nelle prime fasi della rivolta e del suo seguito. Sotto un aspetto importante la rivolta aveva conseguito un risultato gradito alle forze armate e cioè squalificare i due figli di Mubarak dal succedere al padre nel governo del paese. C’erano anche indicazioni che la FM e le forze armate avessero raggiunto un accordo con l’offerta di sostegno politico in cambio di assicurazioni che non sarebbero stati contestati i privilegi dell’esercito riguardo al bilancio e a un vasto interesse nel settore privato. Ma poi le cose hanno cominciato ad andare per il verso sbagliato. Il candidato della FM, Mohamed Morsi, ha vinto di poco le elezioni nazionali e le forze laiche nel governo e nella società hanno rifiutato di accettare tale risultato, facendo del loro meglio per creare una crisi di legittimità che avrebbe destabilizzato il governo eletto. Al tempo stesso Morsi, dopo aver giurato da presidente egiziano, non ha mostrato alcuna abilità o tatto nel gestire il processo governativo e si è rapidamente alienato e ha spaventato le minoranze, specialmente i copti, e ha gestito l’economia in un modo che dava poche speranze di equità o di crescita. Il turismo e le attività commerciali sono declinate fortemente e nel giro di pochi mesi ci sono stati molti mormorii tra gli ex sostenitori della rivolta che le cose andavano meglio sotto Mubarak. Almeno allora arrivavano turisti e le piccole aziende prosperavano.
Ha preso piede un secondo movimento popolare, in realtà più vasto di quello che aveva catturato l’immaginazione del mondo nel 2011, culminando in grandi dimostrazioni di piazza e in un colpo di stato diffusamente appoggiato, condotto dal generale Abdel Fattah al-Sisi, il presidente attuale. Il colpo di stato è stato seguito da una repressione sanguinosa della FM e, più di recente, chiunque criticasse il regime rischiava la tortura e il carcere. Diversamente dalla Tunisia, l’Egitto è oggi più autoritario che sotto Mubarak e anche se gode di un vasto sostegno economico da parte dei paesi del Golfo e di un forte appoggio delle forze armate egiziane, non ha trovato un modo per resuscitare l’economia o per soddisfare le rivendicazioni dei poveri e dei disoccupati.
Notiamo che Tunisia ed Egitto, nel 2016, hanno conseguito apparentemente risultati molto diversi, ma forse, esaminata più da vicino, l’attuale fase di governo non è tanto dissimile. Di certo la Tunisia ha gestito una transizione a un processo democratico, anche se assediata da problemi irrisolti e soggetta a gravi minacce di disgregazione. Tuttavia a oggi ha superato acque turbolente, in parte non minacciando la burocrazia di Ben Ali o la sua struttura di classe, e in parte elaborando un certo accomodamento sostenibile con le forze islamiche e con la loro dirigenza flessibile e realistica.
L’Egitto, per contro, ha ottenuto una continuità paragonabile a quella del passato, ma irregolarmente, accompagnata da giri di vite duri e sanguinosi. Nessuno dei due paesi ha trovato un modo per superare le fondamentali difficoltà economiche derivanti dalla povertà di massa, dalla disoccupazione, dalla corruzione e da grossolane forme di disuguaglianza, ed entrambi sono vulnerabili agli aumenti dei prezzi degli alimenti o a una rinnovata recessione economica globale e forse a rinnovate agitazioni politiche.
Le rivolte arabe: Siria, Libia e Yemen
La stessa aspirazione sociale al cambiamento evidente in Tunisia e in Egitto è stata vissuta altrove nella regione. Questo sentimento politico anti-regime ha condotto rapidamente a un’ulteriore serie di rivolte popolari in Siria, Libia e Yemen. Diversamente dalla realizzazione tunisina di una transizione graduale a una forma di governo più democratica e in contrasto con i passi egiziani in direzione della democrazia che hanno generato una reazione controrivoluzionaria che ha restaurato il governo autoritario, Siria, Yemen e Libia hanno, ciascuna a suo modo, vissuto un sostenuto conflitto civile che ha causato grandi sofferenze alla popolazione civile e ha condotto al collasso del governo ordinato. Anche se le dimensioni regionali delle relazioni stato/società contribuiscono a spiegare la similarità delle contestazioni montate contro lo status quo, la situazione specifica di ciascun paese, specialmente le contrastanti reazioni nazionali della dirigenza governativa, chiariscono le grandi differenze da paese a paese. Un’ulteriore somiglianza è la presenza di una decisione del governante e del suo entourage più stretto di usare la polizia statale e il potere militare per superare le richieste sociali di riforme drastiche.
Un significativo punto di contrasto con Tunisia ed Egitto riguarda la presenza e la misura dell’intervento straniero nei conflitti sorti dopo la rivolta. E’ degno di nota che gli eventi in Tunisia e in Egitto si siano svolti principalmente come reazione al gioco di forze politiche interne, anche se specialmente in Egitto influenze straniere nascoste, specialmente sulle forze armate e mediante assistenza economica estera, sono state esercitate in misura indeterminata sia dagli Stati Uniti sia dall’Arabia Saudita.
Nei casi di Siria, Yemen e Libia, tutti paesi attualmente in preda a gravi disordini, la dimensione della violenza politica seguita a una sfida al processo governativo nazionale stabilito è stata fortemente accresciuta da forme indirette di intervento straniero provenienti dalla regione e da oltre. I disgraziati effetti di questi interventi, anche se molto diversi nei tre casi, rafforza gli argomenti contro l’intervento militare, anche quando è autorizzato dall’ONU, come è accaduto in Libia [9].
Siria. In Siria la dirigenza, a partire dalle iniziali espressioni di protesta nella città meridionale di Daraa, ha reagito violentemente e il movimento di opposizione è sembrato crescere e diffondersi rapidamente, assumendo la forma di un’insurrezione armata. Gli Stati Uniti e la Turchia, dopo un breve intervallo, sono stati espliciti nel loro sostegno alle forze siriane ribelli, così come lo sono stati Arabia Saudita e Qatar, anche è presto divenuto evidente che l’opposizione al regime di Damasco, guidato da Bashar al-Assad, era molto frammentata. Al tempo stesso circa durante il primo anno dell’insurrezione si riteneva diffusamente che il regime di Assad sarebbe stato rovesciato rapidamente.
Una tale aspettativa si è rivelata sbagliata. Le forze armate del governo siriano erano ben equipaggiate e addestrate, in possesso di sistemi avanzati di difesa antiaerea e di altri armamenti moderni. Inoltre la dirigenza alauita di Damasco aveva il sostegno delle minoranze cristiane e druse nel paese, a eccezione dei curdi, ed era in larga misura appoggiata dalla comunità commerciale urbana. OItre a ciò la Russia e l’Iran erano alleati impegnati e fornivano assistenza materiale e diplomatica; lo era anche Hezbollah che forniva un considerevole numero di combattenti. La lotta siriana è stata sanguinosa sin dall’inizio e le perdite totali sono oggi quantificate in più di 250.000 uccisi e almeno metà della popolazione totale, stimata in 23 milioni, è sfollata internamente o profuga.
Ci sono state molte iniziative internazionali che hanno ricercato sia un cessate il fuoco sia un intervento occidentale più vigoroso [10]. La situazione si è fatta ancor più complicata con l’ascesa dell’ISIS come principale forza anti Assad e con gli sforzi dei curdi siriani sia di combattere sul terreno contro l’ISIS sia di creare un proprio stato di fatto sul terreno. Questi sviluppi hanno fortemente confuso gli allineamenti degli attori statali e di quelli politici non statali intervenuti. Le priorità per gli Stati Uniti e per l’Europa sono passate a sottolineare la lotta contro l’ISIS, minimizzando l’obiettivo di sostituire la guida di Assad, mentre in Turchia si altalena tra obiettivi anti curdi e anti Assad.
Ciò che ha conferito al seguito siriano della Primavera Araba una particolare rilevanza storica è il suo carattere, che pare incarnare la nuova forma della guerra nel ventunesimo secolo [11]. L’originalità di questo terribile conflitto civile consiste nella misura dello straripamento extranazionale dalla lotta sotto forma di enormi flussi di profughi e di terrorismo transnazionale estendendo il campo di battaglia oltre la Siria a includere le fonti straniere di intervento, comprese la Turchia, l’Europa e persino gli Stati Uniti; la combinazione stratificata e contraddittoria di attori statali e non statali coinvolti e che perseguono obiettivi mutevoli e a volte incoerenti e la combinazione di governi o movimenti politici regionali e globali interventisti. Il conflitto siriano mostra anche una forma distintiva di ibridismo, mescolando un conflitto tra lo stato e un’opposizione interna mobilitata con sia una lotta per contenere un attore terrorista che controlla un considerevole territorio, sia con allineamenti settari e che coinvolge un tentativo armato della minoranza curda siriana per realizzare uno stato de facto. Inoltre gli attori intervenienti hanno i propri obiettivi diversi che spesso si trovano in contrasto tra loro e confusi da priorità mutevoli e contraddittorie: anti Assad all’inizio, poi anti Russia e anti Iran, poi pro e anti ISIS così come pro e anti curdi e, non da trascurare, pro e anti islamisti, pro e anti sunniti. Non si esagera certo nel sostenere che non c’è mai stata in tutta la storia una guerra così multidimensionale e così ibrida. E’ anche evidente che gli stalli geopolitici e i limiti della leva interventista rendono pericoloso e imprudente agire coercitivamente per plasmare l’esito politico del conflitto.
Libia. La Libia è sembrata all’inizio seguire da vicino il modello stabilito da Tunisia ed Egitto. Una rivolta popolare contro una dirigenza dittatoriale repressiva sotto Muammar Gheddafi, che governava il paese da decenni riuscendo a sopprimere le tensioni etniche e tribali che si opponevano alla coesione nazionale e sostenuto da abbondanti risorse energetiche. La rivolta è divenuta rapidamente violenta, favorita dal coinvolgimento di consiglieri stranieri europei e Gheddafi ha reagito violentemente, rifiutandosi di cedere terreno e suscitando preoccupazioni globali condannando forze d’opposizione con una retorica isterica che aveva un estremo genocida. Diversi paesi occidentali hanno manifestato preoccupazioni umanitarie, hanno convocato il Consiglio di Sicurezza dell’ONU e, nonostante scetticismo, hanno ottenuto un mandato per creare una zona d’interdizione al volo per proteggere la popolazione civile di Bengasi prossima a essere minacciata. I limiti inclusi nel mandato del Consiglio di Sicurezza, che era un debole avallo della forza militare in considerazione di astensioni di cinque paesi importanti, sono stati ignorati sin dall’inizio dell’operazione militare condotta sotto auspici della NATO [12]. Invece di proteggere la popolazione accerchiata di Bengasi dalle truppe governative avanzanti, è stata bombardata Tripoli, ed è stata messa in atto un’impresa di cambiamento di regime, finita con una disgustosa esecuzione di Gheddafi da parte delle forze ribelli.
Quella che è seguita in Libia è stata una serie di iniziative fallite di costruzione di uno stato che hanno lasciato la società in disordini caotici, dominata da milizie locali e da rivalità tribali, priva di un efficace governo centrale. Il disordine politico ha anche creato una situazione in cui l’ISIS è stato in grado di stabilire una presenza forte, ponendo una minaccia a interessi di sicurezza locali e occidentali che non era esistita nel periodo di Gheddafi. L’instabilità della Libia pare destinata a persistere e contrasta con la stabilità repressiva (eccetto nel Sinai) conseguita dall’Egitto di Sisi e con il tipo di costituzionalismo fragile che sinora sopravvive in Tunisia.
Il seguito libico è distintivo sotto molti aspetti. Soprattutto, come nel caso dell’Iraq, suggerisce che da un punto di vista occidentale e in termini di ordine pubblico interno, l’intervento militare non mantiene la sua promessa di produrre una forma più umana di governo anche quando riesce a rovesciare un regime autoritario e a incoraggiare l’emergere di un ordine costituzionale. In Libia, come in Iraq, gli abusi del vecchio ordine politico sembrano molto meno distruttivi della violenza, devastazione e fuga causate da un intervento straniero dalla mano pesante. Invece della “promozione della democrazia”, quella che si è verificata in Libia, come prima in Iraq, è meglio descritta come “promozione del caos” e così come la regione è ora costituita ciò apre anche la porta a un estremismo politico che può prosperare in modi mai possibili sotto il vecchio ordine.
L’intervento libico è stato costoso anche in altri modi. La manipolazione del Consiglio di Sicurezza interpretando gli obiettivi e la natura dell’intervento contemplato ha completamente minato la fiducia che aveva indotto i cinque membri scettici ad astenersi piuttosto che votare contro, il che, nel caso di Russia e Cina, avrebbe annullato qualsiasi autorizzazione dell’ONU in forza del loro diritto di veto. Come è emerso, questo ricordo della manipolazione istituzionale nel caso libico ha impedito un ruolo forse più costruttivo dell’ONU in risposta al conflitto in Siria.
Naturalmente ci sono domande rilevanti sorte sul perché intervenire in un paese ma non in altri. La questione del petrolio fa parte della spiegazione degli interventi su larga scala in Iraq e più tardi dopo la Primavera Araba in Libia, ma di nulla dello stesso livello in Siria o Yemen, privi di petrolio e che non offrivano prospettive di accordi di ricostruzione per riparare i danni causate dalle tattiche di “shock and awe” su cui si erano basati gli interventi stranieri dall’aria?
Yemen. Come altrove, la rivolta popolare in Yemen è stata inizialmente diretta contro il governante odiato, corrotto e violento, Ali Abdellah Salah, determinando un rabbioso scontro stato/società che resta irrisolto. La sfida all’ordine stabilito ha anche resuscitato tensioni geografiche ed etniche che coinvolgono la minoranza Houthi al nord e hanno introdotto una dimensione regionale per procura al conflitto interno. Gli Houthi erano sciiti e percepiti dalle monarchie del Golfo come un’estensione dell’influenza dell’Iran, il che ha indotto l’Arabia Saudita a schierarsi con il regime contestato, determinando alla fine un intervento su larga scala che ha assunto la forma di attacchi aerei punitivi, causando diffuse devastazioni e considerevoli perdite di vite civili e tuttavia non riuscendo, sinora, a controllare il destino politico del paese. L’epilogo in Yemen è in bilico, resta dubbio, ma una volta di più rafforza l’impressione che interventi esterni per controllare le dinamiche politiche di un paese dopo la Primavera Araba producano probabilmente risultati negativi e facciano sembrare il vecchio ordine, per quanto detestabile fosse, meno dannoso per la società del tentativo controrivoluzionario di sconfiggere le forze sociali che perseguono il cambiamento.
Emergono numerose conclusioni: (1) la rivolta originale in Yemen è stata un’ulteriore indicazione regionale che l’ordine politico autoritario non era sopportato dal considerevoli segmenti della cittadinanza; (2) diversamente da Egitto e Tunisia ma in un modo simile a Siria e Libia, il regime contestato ha contrattaccato anziché cedere il passo al movimento popolare; (3) come in Siria, il rapporto interno di forze ha condotto a una lotta prolungata che resta irrisolta, senza alcuna transizione a una nuova normalità in vista; (4) le difficoltà dello Yemen si sono sommate in una misura tale che la lotta interna è stata anche percepita come contenente implicazioni settarie, innescando un feroce intervento saudita, ma diversamente dall’intervento anti-regime in Libia, l’intervento in Yemen è stato a favore del regime.
Le monarchie. Il fenomeno della Primavera Araba ha avuto chiari riverberi nelle principali monarchie della regione MENA [Medio Oriente e Nord Africa – n.d.t.], specialmente in Bahrain, Giordania e Marocco. Dimostrazioni di protesta si sono avute in questi paesi ma sono state rapidamente contenute, spesso accompagnate da impegni reali a riforme economiche e politiche che promettevano alla cittadinanza una maggiore equità economica e una partecipazione più significativa al processo di governo. Come nel caso dei governi laici, le monarchie avevano le loro caratteristiche nazionali distintive che spiegano alcune differenze nelle reazioni di governi e di attori regionali. Ad esempio il Bahrain, in parte a motivo della sua maggioranza sciita e della presenza di una grande base navale statunitense, era percepito come il più vulnerabile a una sfida insurrezionale interna. Per impedire una simile eventualità l’Arabia Saudita è intervenuta con forze di terra e ha aiutato il regno a ripristinare la stabilità sopprimendo l’opposizione e incarcerando leader della società civile, tra cui promotori dei diritti umani. Giordania e Marocco, entrambi dotati di potenti forze di sicurezza interna, hanno affrontato l’attività dell’opposizione con la disciplina poliziesca e con alcuni gesti reali di accomodamento. In Marocco e specialmente in Arabia Saudita il rapporto tra Islam e stato ha contribuito alla stabilità e alla legittimità dell’ordine politico prevalente, anche se in Arabia Saudita queste condizioni sono state rafforzate da un insieme pervasivo di limitazioni oppressive, che hanno incluso offese ai diritti umani in competizione con il comportamento dell’ISIS nel loro disprezzo per gli standard dell’imposizione civilizzata della legge, specialmente nei confronti delle donne e della minoranza sciita.
Il caso dell’Arabia Saudita è particolarmente esemplificativo dell’interazione tra la Primavera Araba e la geopolitica. A causa della speciale relazione con gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, come Israele, gode del sostegno incondizionato di Washington. Ciò ha incluso il chiudere un occhio sulle decapitazioni e la pubblica esibizione di teste mozzate di dissidenti e, più incredibilmente, ignorare il sostegno saudita al terrorismo jihadista in tutta la regione, comprese le prove del finanziamento dell’avvio dell’ISIS [13]. Questo rapporto speciale era inizialmente basato sull’importanza, per l’occidente, di relazioni positive con la produzione e le riserve di petrolio del Golfo, viste come un vitale interesse strategico dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma che è persistito in anni recenti nonostante il prezzo calante del petrolio e la diminuita dipendenza dalle riserve del Golfo grazie allo sviluppo di altre fonti di energia.
Ci sono altri sviluppi nei cinque anni dalla Primavera Araba che contribuiscono a spiegare il rapporto con l’Arabia Saudita e, in misura minore, con le altre monarchie. Principale tra essi è la ricerca combinata di stabilità regionale, collegamento positivo con l’economia mondiale neoliberista e l’incoraggiamento di interessi convergenti tra Arabia Saudita e Israele. Quest’ultimo sviluppo è divenuto particolarmente evidente nel tacito appoggio saudita all’aggressione di Israele contro Gaza nel 2014. La logica della convergenza sta nei supposti collegamenti tra Hamas e l’Iran nonché nella percezione di Hamas come derivazione della Fratellanza Mussulmana egiziana. Com’è evidente, sia Hamas sia la FM hanno un orientamento sunnita, rendendo chiaro che la principale priorità saudita consiste nell’isolare il proprio regime monarchico dalle forze ostili, siano esse sunnite o sciite. A questo riguardo la carta settaria è giocata pragmaticamente per contrastare le ambizioni regionali dell’Iran in numerosi scenari nazionali, ma il settarismo non spiega l’ostilità saudita nei confronti dei movimenti islamici di base della FM, che sono considerati come forse incoraggianti i movimenti sociali antimonarchici in tutta la regione e dunque trattati come minacciosi.
Osservazioni conclusive
La conclusione più impressionante consiste nel constatare, dalla prospettiva del 2016, che la reazione controrivoluzionaria alla Primavera Araba sembra molto più duratura delle sfide poste dalle rivolte del 2011, nessuna delle quali ha creato una discontinuità duratura con gli antecedenti autoritari. La Tunisia è quella che vi è arrivata più vicina, ma ha conservato una relativa stabilità dopo la rivolta, pur essendo punteggiata da sfide islamiche estremiste e da ansie laiciste. La dirigenza politica ha mantenuto continuità sia nella burocrazia governativa sia nell’élite privilegiata. Ha, in effetti, liberato permanentemente il paese dal leader autoritario, come ha fatto l’Egitto, ma con quest’ultimo, l’autoritarismo è tornato a governare in una forma ancor più oppressiva.
Per molti versi la storia dell’Egitto e quella della Siria sono le eredità più influenti e pronunciate della Primavera Araba. L’Egitto è lo stato perno del mondo arabo con la segreteria della Lega Araba situata al Cairo. La rivolta egiziana è sembrata esprimere le speranze più elevate della Primavera Araba attraverso la notevole impennata di riunioni pacifiche dell’opposizione a Piazza Tahrir. Tuttavia due anni dopo la rivolta e le sue speranze riformiste sono state completamente cancellate e sostituite dal ripristino del vecchio ordine, con la benedizione, stupefacentemente, della schiacciante maggioranza del popolo egiziano. La delusione di massa nei confronti del processo politico post Tahrir era derivata dal fallimento della democrazia elettorale quanto all’apportare miglioramenti delle condizioni materiali o il rispetto della nuova dirigenza politica.
Diversamente dall’Egitto, la Siria è emblematica di ciò che può succedere quando l’incoraggiamento ispiratore della Primavera Araba contesta un regime che è deciso a prevalere anche a costo di scatenare una guerra virtualmente illimitata contro il suo stesso popolo e di distruggere le sue stesse città. L’esperienza siriana è esemplificativa delle tragedie che accompagnano una sfida insurrezionale che non è in grado di spostare l’equilibrio delle forze contro lo status quo. La Siria illustra anche le poste in gioco regionali di una simile lotta nazionale, nonché la rivalità settaria che ha prodotto una guerra regionale per procura, con Iran e Hezbollah a sostegno del governo di Assad e l’Arabia Saudita schierata con le forze ribelli. In aggiunta, la Russia con la sua sola base navale in acque calde in Siria, una situazione non diversa da quella degli Stati Uniti in Bahrain, non sorprendentemente si è alleata con Damasco, mentre una geopolitica opposta ha indotto gli Stati Uniti ad appoggiare le forze anti Assad cosiddette moderate.
Ciò che pare evidente a posteriori è che nessuno dei movimenti che hanno seguito la rivolta tunisina è stato sufficientemente rivoluzionario da creare la voluta discontinuità in termini di libertà, governo costituzionale e crescita economica ed equità. Di nuovo il caso egiziano è quello più esemplificativo. Le stesse qualità dell’organizzazione di una sfida nonviolenta contro Mubarak basata su entusiasmanti manifestazioni di unità religiosa e sociale, senza un programma o una dirigenza, hanno prodotto un vuoto politico colmato da una parte dalla Fratellanza Mussulmana e dalla parte opposto dagli aderenti all’ordine costituito. Alla resa dei conti, come ci si poteva aspettare, le forze armate, sulle quali era fatto affidamento per gestire la transizione politica, hanno organizzato un colpo di stato controrivoluzionario e represso la FM. Ciò ha completato una dinamica che ha visto una controrivoluzione trionfante e popolare seguire una serie disordinata di fallimenti nel creare progresso sociale nell’Egitto post Mubarak.
Infine, quelli che apprendiamo da questi sviluppi nel Medio Oriente verificatisi negli ultimi cinque anni sono gli stretti collegamenti tra scontri nazionali, regionali e globali e priorità diversificate. Tale forte interconnessione genera allineamenti e interventi militari di vario livello di trasparenza, con l’esperienza libica a un estremo dello spettro e l’Egitto all’altro, a motivo della sua apparente relativa autonomia nazionale. La Siria, soprattutto, è stato resa grossolanamente vittima negli ultimi cinque anni sembrano invitare lotte per l’influenza da parte di una molteplicità di protagonisti esterni, nazionali e non nazionali, aggravando il conflitto tra stato e società avviato dalla Primavera Araba.
Oggi il solo futuro che si può discernere è visto attraverso occhiali scuri, cioè un caos persistente o un governo autoritario oppressivo [14]. Non ci sono spunti luminosi degni di fiducia, anche se le fragili politiche di Tunisia e Libano sembrano, almeno attualmente, aver evitato il peggio della tempesta controrivoluzionaria, ma nessuno dei due paesi è molto sicuro che sviluppi futuri non portino caos e conflitti interni.
[1] Per una panoramica perspicace vedere Mohammed Ayoob, Will the Middle East Implode?
[2] V. See Eugene Rogan, The Fall of the Ottomans
[3] Per una valutazione della diplomazia della pace dopo la prima guerra mondiale riguardo al Medio Oriente, vedere Richard Falk, Power Shift: On the New Global Order, Capitolo 9.
[4] V. See Daniel Byman, Al Qaeda, The Islamic State, and the Global Jihadist Movement; utile anche Phyllis Bennis, Understanding ISIS and the New Global War on Terror.
[5] Jonathan Schneer, The Balfour Declaration: The Origins of the Arab-Israeli Conflict; vedere anche Victor Kattan, From Coexistence to Conquest: International Law and the Origins of the Arab-Israeli Conflict, 1891-1949
[6] V. Farhad Khosrokhavar, The New Arab Revolutions that Shook the World; also, Richard Falk, Chaos and Counterrevolution: After the Arab Spring
[7] V. Khosrokhavar, Capitolo 2
[8] Un resoconto dall’interno è Wael Ghonim, Revolution 2.0; vedere anche Khosrokhavar, Capitolo 3.
[9] Sull’intervento umanitario vedere Fabian Klose, a cura di, The Emergence of Humanitarian Intervention; Rajan Menon, The Conceit of Humanitarian Intervention; Richard Falk, Chaos and Counterrevolution
[10] Per una varietà di idee vedere Nader Hashemi & Danny Postel, curatori, The Syria Dilemma
[11] Ciò che è seguito in Siria va oltre l’analisi innovativa di Mary Kaldor riguardo alle nuove guerre in Mary Kaldor, New and Old Wars, terza edizione.
[12] Per il testo vedere Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1973 (2011), compresa la sua frase provocatoriamente ambigua autorizzante “tutte le misure necessarie” per imporre la zona d’interdizione al volo.
[13] V. citazioni alla nota 4.
[14] Per valutazioni diverse vedere Marc Lynch, The Arab Uprising: The Unfinished Revolutions of the New Middle East; Richard Javad Heydarian, How Capitalism Failed the Arab World: The Economic Roots and Precarious Future of the Middle East Uprisings; Falk, Chaos and Counterrevolution.
Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: Richardfalk.com
Traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2016 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0
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