di Zvi Shuldiner
Il futuro presidente Trump ha annunciato il nome del prossimo ambasciatore in Israele: è uno dei suoi principali avvocati, David Friedman, che lo ha accompagnato e consigliato in campagna elettorale sia nei riguardi del voto degli ebrei statunitensi che verso Israele e i palestinesi. In una fase difficile in cui nessun atto politico è isolato. Oggi tutto sembra all’insegna di Brexit, Trump e dei milioni di rifugiati che arrivano in un’Europa percorsa da nazionalismo e razzismo. E soprattutto, nella deriva neoliberista, con l’assenza di una sinistra con programmi chiari e con risposte convincenti per le classi più colpite. Mentre i lavoratori delusi dalla politica cercano oggi la risposta proprio in chi accelera il processo di sfruttamento.
L’annuncio della nomina di Friedman arriva quando il massacro in Siria si fa sempre più sanguinoso e le radici del processo più intricate. Non sapevamo forse chi era al-Qaeda? I terroristi del 2001, usati come pretesto per la guerra all’Iraq, causa di un inferno che continua tuttora con un prezzo tremendo in termini di vite umane. Al-Qaeda, Jabat al-Nusra e simili, con l’appoggio dell’Occidente sono stati dipinti come paladini in lotta per la libertà e la democrazia. Così i «ribelli» tanto simpatici in Occidente hanno perpetrato crimini orrendi ma si scontrano con una coalizione, con l’appoggio fondamentale di Putin, che ha commesso altri crimini orrendi per sostenere Bashar al-Assad. Solo il popolo siriano paga un prezzo enorme in distruzioni, vittime, milioni di profughi.
Gli ambasciatori statunitensi in Israele hanno in genere rappresentato una linea che si presentava come neutrale. A volte sono stati un elemento di moderazione degli impeti espansionisti di diversi governi israeliani. Giova ricordare che in non poche occasioni – come per James Baker, segretario di Stato di Bush padre – i repubblicani si sono dimostrati più disposti a frenare Israele rispetto ai democratici. Come per la Dc in Italia, la ragione era molto semplice: storicamente i repubblicani statunitensi e i democristiani italiani erano più legati a interessi petroliferi e a traffici di armi; così, nella necessità di rispondere positivamente alle richieste di vari governi arabi nella regione, mostravano molteplici equilibrismi.
Friedman è una grande novità e rompe con la linea storica della diplomazia Usa nell’area. Si tratta di un estremista di destra che collabora frequentemente con gli organi di informazione dei coloni negli insediamenti. È il presidente dell’Associazione degli amici statunitensi dell’insediamento Bet El, sostiene che i territori occupati debbano essere annessi a Israele, è uno dei più accaniti agenti di propaganda dei coloni negli Stati uniti ed è legatissimo a molte figure dell’estrema destra in Israele.
Friedman ha accusato apertamente Obama di antisemitismo e ha affermato che le attività del gruppo pacifista ebraico negli Usa J Street sono peggiori dei kapò nei lager nazisti dove si sterminavano gli ebrei. Crede che Gerusalemme debba essere l’«indiscutibile e sacra capitale di Israele» e sostiene chiaramente il trasferimento immediato dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme.
Questo il rapido profilo di Friedman, che si oppone alla soluzione dei due Stati, parla della «Gerusalemme sacra», sostiene l’annessione dei territori, è a favore della guerra, denuncia la debolezza e il pacifismo di Obama e anche l’accordo con l’Iran. Pare giustificata l’affermazione di Hami Salev su Haaretz: «In confronto a Friedman perfino Netanyahu può essere considerato di sinistra». La nomina di Friedman può sembrare cosa da poco rispetto alla problematica vittoria di Donald Trump e alla sua squadra di multimiliardari al timone del paese.
Ma occorre ricordare che, se Friedman è un rappresentante autentico della linea futura di Trump, i palestinesi potranno capire più chiaramente che non possono continuare ad affidare le proprie speranza alla buona volontà dell’imperialismo statunitense. Il cammino sarà duro e nella regione scorrerà molto sangue, ma prima di riporre fiducia in qualunque tipo di diplomatico, i palestinesi dovrebbero cercare la strada dell’unità nazionale, uno strumento vero e radicale di cambiamento della realtà attuale. Inoltre c’è un altro aspetto complicato che, dato il mio grande pessimismo sulla situazione in Israele, forse è più che altro un wishful thinking. Ma è necessario ricordare che l’ambasciatore a Tel Aviv o a Gerusalemme sarà alle dipendenze del Segretario di Stato, che a sua volta influenzerà seriamente Donald Trump. In questo senso la nomina di Rex Tillerson, presidente della potente ExxonMobil, è davvero molto significativa.
Egli ha contribuito a migliorare le capacità petrolifere di Putin e per questo ha buoni rapporti con il presidente russo. Sono interessi. E gli interessi che lo stesso Tillerson ha saputo sviluppare con diversi leader arabi, corrotti oppure no, criminali oppure no, potrebbero dare il segno a una politica Usa che non potrà ridursi ai deliri pro-israeliani di Friedman o dei circoli evangelisti.
La nomina di Tillerson potrebbe essere la chiave per una distensione nei rapporti con la Russia, facilitare una soluzione pacifica della crisi ucraina e perfino portare a una politica in Medio Oriente più equilibrata di quella che si annuncia con la nomina di Friedman.
In testa a tutto, rimane la questione delle sinistre, e del pacifismo. L’ora è così grave che non basta condannare Trump, il razzismo o le riforme costituzionali di Renzi. È necessario riscrivere l’identità di una sinistra che non formuli solo richieste liberiste o identitarie – benché alcune siano giuste – ma riprenda una vera analisi del sistema capitalista, e del significato del neoliberismo, i cui dogmi sono stati così facilmente assorbiti anche dalla pseudo-sinistra.
Fonte: Il manifesto
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