di Giuseppe Caccia
«Mettere ordine nel linguaggio, ricondurlo a sobrietà e modestia, ad autocoscienza dei suoi limiti – questo sembra restare». Così pare amaramente concludere Massimo Cacciari, nel saggio pubblicato in Occidente senza utopie (Il Mulino, pp. 144, euro 14). Volume in dialogo con Paolo Prodi, intorno alla difficoltà e forse all’impossibilità di un «progetto per il futuro». Sul testo di quest’ultimo si è soffermato Marco Dotti (il manifesto di domenica 18 dicembre) ricordando lo storico cattolico democratico, recentemente scomparso.
Ma è bene comunque partire dal concetto di «profezia» delineato da Prodi, per comprendere quali possano essere punti d’intersezione tra il suo discorso e quello di Cacciari, più produttivi di pensiero. Nell’Antico Testamento, ci ricorda, essa rappresenta sostanzialmente la «contestazione del potere politico e sacerdotale dominante da parte di un personaggio escluso o esterno – diremmo oggi – al sistema», da parte di una figura capace per questo di annunciare il cammino di redenzione del popolo ebraico. Grazie alla forza della «parola», sovranità e sacro, per la prima volta, si separano: nel Patto è il trascendente a farsi garante della «legge», rendendo possibile sia la resistenza al dominio, sia la ricerca di una giustizia sostanziale, fuori dalle «stanze del potere».
A sua volta Cacciari definisce l’«utopia» a partire dalla sua decisiva differenza dall’«ideologia», intesa quest’ultima come «occultamento di contraddizioni reali». L’utopia agisce, eccome, effettualmente a partire da queste. È impossibile dare qui conto della densissima cavalcata che il filosofo compie attraverso le figure-chiave del pensiero utopico.
A partire dal Cinquecento, perché l’utopia è forma che appartiene integralmente al Moderno, mostrando qui una differenza radicale anche dalla profezia. Essa infatti è costruzione razionale e «mai presuppone un irrompere del divino nella storia». Piuttosto guarda al presente, analizza soggetti ed energie in atto, che possono condurre a superarne le lacerazioni e le ingiustizie.
Cacciari torna qui, con sintetica efficacia, agli autori su cui ha lavorato nei decenni scorsi, Thomas More, Campanella e Francis Bacon. E vede, proprio nella sua New Atlantis, dispiegarsi il nocciolo problematico della forma utopica, quello che ruota intorno alla relazione tra dimensione del Politico e forze reali della società. Quella di Atlantide è una figura dell’utopia che ricorda da vicino il marxiano general intellect: «organico cervello sociale» – scrive infatti il filosofo veneziano – che funziona collettivamente sulla base della «responsabilità di ciascuno verso il fine comune». Ma è proprio qui, sul terreno della translatio imperii, che diviene problematico il rapporto con il potere. «Il lavoro creativo è per diritto naturale-razionale chiamato a dominare» la forma politica: la sovranità non potrà più porsi come qualcosa di trascendente, ma deve «immanentizzarsi» completamente del dispositivo produttivo cooperante.
Attraversando le utopie ottocentesche Cacciari approda a Marx. E lo descrive come pensatore della «crisi permanente» di un rapporto troppo lineare tra lo sviluppo delle forze del cervello sociale e le forme del Politico, che si rivela invero «irriducibile a ogni paradigma organicistico-comunitario». Si tratta invece di recuperare in pieno l’idea «dell’agire politico come conflitto (…) per pervenire, muovendo dall’interno delle contraddizioni in atto, scientificamente analizzate, al salto rivoluzionario». L’utopia non può che agire per «discontinuità».
Ma è al Ventesimo secolo, al dialogo appassionato tra Bloch, Lukács e Benjamin (la «più fraterna delle inimicizie») e al riferimento alle opere di Scholem e Rosenzweig, che Cacciari dedica le sue ultime pagine. Le posizioni di questi diversi autori devono essere colte come «grandiosi sintomi dell’apocalisse del nostro tempo». Proprio il confronto tra Storia e coscienza di classe e lo Spirito dell’utopia si presenterebbero come «geroglifici dell’immane tragedia del Novecento, sulla cui risacca noi oggi forse ancora ci troviamo». Nella dimensione globale del «capitalismo vittorioso» sembra non resti che «l’im-politico» dell’amministrazione impotente dell’esistente o il «sentimento del Deus adveniens» a esso speculare.
Forse si tratta invece di partire dal cuore, che Cacciari individua con originalità e nettezza, dell’«utopia moderna» per ritrovare e rivificare lo spirito di Eldad e Medad, i due personaggi biblici che rimangono fuori dalla tenda del potere e parlano «senza autorizzazione». Rinnovare quel gesto di cui furono capaci, insieme, profezia e utopia: disegnare, a partire da forze sociali realmente operanti, i contorni di un «mondo nuovo», per il quale valga la pena confliggere e attraversare fino in fondo tutte le contraddizioni del presente.
Fonte: Il manifesto
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.