di Emiliano Brancaccio
Questa conferenza è intitolata “Resistenze e alternative al libero scambio”. Il tema è di assoluta rilevanza, ma vorrei far notare che il “libero scambio” è in crisi già da qualche anno. I dati indicano che dal 2008 ad oggi sono state introdotte e mai rimosse ben 1196 nuove misure di limitazione degli scambi commerciali tra i paesi del G20, e si è verificato un aumento del 12% del numero complessivo di restrizioni ai movimenti internazionali di capitale. Queste misure restrittive sono state adottate non solo da paesi relativamente piccoli come la Malesia o l’Argentina, ma anche da giganti del calibro di Russia, India, Cina e soprattutto Stati Uniti d’America.
Solo considerando il biennio 2014-2015, gli Stati Uniti hanno avviato 385 investigazioni anti-dumping che hanno dato luogo a varie ritorsioni nei confronti di paesi concorrenti. Oggi Trump lo grida ad alta voce mentre Obama magari preferiva sussurrarlo, ma a ben guardare la politica americana asseconda già da tempo il vento protezionista che sta soffiando sul mondo.
Solo considerando il biennio 2014-2015, gli Stati Uniti hanno avviato 385 investigazioni anti-dumping che hanno dato luogo a varie ritorsioni nei confronti di paesi concorrenti. Oggi Trump lo grida ad alta voce mentre Obama magari preferiva sussurrarlo, ma a ben guardare la politica americana asseconda già da tempo il vento protezionista che sta soffiando sul mondo.
La lotta in corso tra liberoscambisti e protezionisti è una lotta interna alla classe capitalista. Quella tendenza che Marx definiva “centralizzazione” determina una contesa tra capitali forti che intendono abbattere i confini doganali per proseguire nella loro opera di egemonizzazione dei mercati, e capitali deboli che si difendono elevando barriere. E’ facile rilevare che in questa lotta il lavoro e le sue residue rappresentanze non sono protagonisti. Il lavoro è piuttosto una variabile residuale, che subisce le iniziative altrui.
Così come il lavoro è stato “carne da cannoni” nella fase della globalizzazione, così il lavoro rischia di non trarre vantaggi dalla nuova fase di tendenziale protezionismo.
Molte, come è noto, sono le cause strutturali, di lungo periodo, di questa reiterata posizione di sudditanza politica. Le più rilevanti attengono alle ricadute in termini di scomposizione di classe che sono maturate durante più di un trentennio, nella fase di sviluppo e apogeo di quel regime di accumulazione che per più di un trentennio è ruotato intorno alla finanza privata e alle tendenze verso la centralizzazione internazionale dei capitali che parossisticamente essa alimentava. Quel regime tuttavia è entrato da qualche anno in una fase di crisi, che potrà avere ripercussioni più o meno rilevanti sul suo assetto ma che è in ogni caso conclamata. La lotta interna alla classe capitalista, tra protezionisti e liberoscambisti, rappresenta una rilevante manifestazione di questa crisi. A date condizioni, essa potrebbe rivelarsi un’occasione per le rappresentanze del lavoro, per le sinistre e per i movimenti di emancipazione sociale: un’occasione per fare chiarezza al proprio interno e, se possibile, per incunearsi nella lotta in corso e tentare di rientrare nella grande partita politica.
Tra le condizioni necessarie per il perseguimento di tali obiettivi vi è anche, a mio avviso, l’esigenza di unificare le forze materiali e intellettuali per avviare una elaborazione collettiva intorno alla vecchia ma non desueta parola d’ordine dell’ “internazionalismo del lavoro”. Lo scopo, io credo, dovrebbe consistere nel verificare le possibilità effettive di recupero e di rilancio di quella espressione, allo scopo di superare una sempre più marcata nonché funesta contrapposizione interna alla sinistra, tra vecchi globalisti acritici e novelli apologeti di un non meglio definito “sovranismo nazionale”.
Per il perseguimento di questo scopo, io qui porto alla vostra gentile attenzione una proposta che nelle sue varie declinazioni, in Italia, in Francia e in altri paesi, ha già suscitato interessanti discussioni e ha anche raccolto alcuni consensi in ambito politico. Definisco questa proposta “International social standard sulla moneta” [1].
Con questa espressione mi riferisco a una nuova ipotesi di gestione delle relazioni economiche e finanziarie tra paesi, sia fuori che dentro l’Europa, basata principalmente sul ripristino dei controlli sui movimenti di capitale, e se necessario anche di merci. La principale novità del “social standard sulla moneta” consiste nel fatto che i controlli sui movimenti di capitale e di merci dovrebbero essere introdotti specialmente verso quei paesi che praticano politiche di concorrenza al ribasso sui salari, sul fisco, sui diritti sociali e ambientali, e che per questo accumulano squilibri commerciali verso l’estero. L’adozione di un “social standard sulla moneta” implicherebbe cioè controlli sui movimenti di capitale da e verso quei paesi che accumulano surplus commerciali e crediti verso l’estero a colpi di “dumping sociale” interno, o viceversa che compensano il “dumping sociale” interno attraverso un forte deficit verso l’estero. Le relazioni economiche e finanziarie tra paesi verrebbero in questo modo condizionate alla comune decisione di non ricorrere a politiche di competizione al ribasso sui salari, sul fisco e più in generale sui diritti. L’argine dei controlli sui capitali, infatti, proteggerebbe i paesi che aderiscono al “social standard” dai paesi che fanno dumping sociale e quindi accentuano gli squilibri macroeconomici.
L’idea di un “International social standard sulla moneta” non nasce dal nulla. Le sue origini possono esser fatte risalire a un’intuizione di Guido Carli, governatore della Banca d’Italia e ostinato apologeta del “laissez faire”, che negli anni Settanta del secolo scorso utilizzò l’espressione “labour standard sulla moneta” in senso spregiativo, per intendere uno stato di soggezione delle politiche monetarie alle istanze del lavoro e dei movimenti di rivendicazione sociale.
Il “social standard”, tuttavia, è anche frutto di una rielaborazione del cosiddetto “European wage standard”, una proposta che ebbe già qualche seguito in sede europea alcuni anni fa. Dal punto di vista logico, il “social standard sulla moneta” può esser considerato una sintesi tra il concetto di “labour standard” elaborato dalla Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) e la cosiddetta “clausola della valuta scarsa” tuttora presente nello statuto del Fondo Monetario Internazionale (FMI). Combinando queste due misure, il “social standard” connette il problema del riequilibrio macroeconomico tra nazioni alla questione politica della salvaguardia e dello sviluppo dei diritti sociali.
Non è questa la sede per entrare nei dettagli tecnici della proposta. Piuttosto, in questo consesso può essere utile elencare i legami tra le proprietà analitiche del “social standard” e alcune sue possibili implicazioni politiche.
Innanzitutto, rispetto al “labour standard” dell’ILO e alle vecchie “clausole sociali” spesso citate nei programmi politici di vari partiti, il “social standard sulla moneta” presenta una novità rilevante. Le vecchie proposte, come è noto, si limitavano a tracciare una linea assoluta di demarcazione dei diritti, che sanciva il rispetto o meno di determinati “standard internazionali”. Di conseguenza, tali soluzioni tendevano a favorire i paesi avanzati a scapito dei paesi meno sviluppati e anche per questo finivano per arenarsi in sede di trattativa politica. Il “social standard sulla moneta”, invece, guarda non solo ai livelli assoluti dei diritti sociali ma anche e soprattutto alle loro eventuali variazioni al ribasso e ai loro nessi con gli andamenti dei conti verso l’estero. Stando al “social standard”, se un paese avanzato fa “dumping sociale” in concomitanza con un suo squilibrio verso l’estero, esso potrà subire ritorsioni anche se il livello assoluto dei salari e dei diritti che lo contraddistingue sia ancora relativamente alto a livello mondiale. La proposta, in tal modo, non divide i paesi del Nord dai paesi del Sud del mondo.
In secondo luogo, riguardo al suo impiego in ambito europeo, è interessante il fatto che il nucleo logico del “social standard sulla moneta” potrebbe trovare parziale applicazione da parte di uno o più paesi già alla luce delle attuali norme dei Trattati europei che contemplano il ricorso ai controlli sui movimenti di capitale. Si tratterebbe di un’interpretazione estensiva, atta a collegare la disciplina del Six Pack alle regole sui controlli sui capitali, ma proprio per questo si tratterebbe di un’interpretazione potenzialmente feconda per aprire contraddizioni propulsive in seno all’Unione. Sarebbe tuttavia un errore condizionare il lancio di un “social standard sulla moneta” al rispetto di quel colabrodo logico di norme che è diventata l’Unione monetaria. Piuttosto, il “social standard sulla moneta” offre un contributo per prepararci alla prospettiva di una nuova crisi dell’eurozona. In più occasioni abbiamo sostenuto che una futura implosione dell’attuale assetto dell’Unione monetaria europea è un’eventualità altamente probabile [2]. Il “social standard sulla moneta” rappresenta in questo senso un’alternativa alle proposte di chi vorrebbe gestire l’eventualità di un tracollo dell’eurozona lasciando i tassi di cambio al gioco erratico del mercato e degli speculatori, e magari vorrebbe pure che i debiti dei paesi uscenti restassero denominati in euro. Avanzate negli ultimi anni dalle parti più retrive dell’ arco politico europeo, queste soluzioni gattopardesche mirano a cambiare tutto, persino la moneta unica, affinché nulla in fondo cambi nei rapporti di forza tra i gruppi sociali coinvolti nella crisi. Contro di esse, è urgente indicare un’altra via verso un diverso regime monetario delle relazioni europee: il “social standard sulla moneta” è un’opzione possibile.
In terzo luogo, a riprova della sua duttilità politica, il “social standard sulla moneta” può scaturire da un accordo multilaterale, ma può anche essere applicato immediatamente da un singolo paese per poi venire esteso ad altri paesi in base a successivi accordi di cooperazione. Le probabilità di successo dell’applicazione del “social standard” a livello di singolo paese dipenderebbero dallo stato iniziale delle sue partite correnti e dalla connessa, iniziale dipendenza o meno da finanziamenti esteri.
Infine, e soprattutto, l’idea di “International social standard sulla moneta” può rivelarsi una potente arma dialettica contro l’avanzata di quelle destre xenofobe che da anni raccolgono consensi invocando il blocco dell’immigrazione, e che invece non proferiscono parola sul tema ben più rilevante, e logicamente prioritario, del controllo dei movimenti di capitale. Per intenderci: le destre xenofobe propongono di “arrestare gli immigrati”? Ebbene, la sinistra dovrebbe contrapporsi ad esse proponendo di “arrestare i capitali”, che con le loro continue scorrerie internazionali alimentano il dumping sociale e il caos macroeconomico.
Il “social standard sulla moneta” è dunque una proposta realistica, che può aiutare le sinistre europee a sviluppare una posizione critica alternativa rispetto alla lotta in corso tra liberoscambisti e protezionisti, e soprattutto può aiutare a superare la disputa in corso tra vecchi europeisti acritici e nuovi apologeti del sovranismo nazionale. Questa contesa banalizzante e sterile sta montando anche in seno alla sinistra europea e rischia di spaccarla ulteriormente, in modo irrimediabile, negli anni a venire. Bisogna superarla.
Oltre l’ingenua apologia globalista, e contro il revanchismo nazionalista e xenofobo, potremmo definire il “social standard sulla moneta” come un primo tassello, tangibile e non retorico, per la edificazione di un nuovo, moderno internazionalismo del lavoro.
Note
[1] Cfr. anche E. Brancaccio, “Back to the European Monetary System? A comment on Lafontaine (Summit for a Plan B in Europe, Paris, 23 January 2016). Sebbene il “social standard sulla moneta” possa trovare applicazione soprattutto al di fuori dell’Unione monetaria europea, alcune sue proprietà analitiche sono rintracciabili in una soluzione già avanzata alcuni anni fa, in seno alle proposte di riforma dell’eurozona: E. Brancaccio, “Current account imbalances, the Eurozone crisis and a proposal for a ‘European wage standard’ (International Journal of Political Economy, 41, 1).
[2] AA.VV., “The Economists’ Warning: European governments repeat mistakes of the Treaty of Versailles”, Financial Times, 23 September 2013 (www.theeconomistswarning.com).
Questo testo è l'intervento dell'Autore alla Conferenza GUE/NGL “Resistance and alternatives to free trade”,Parlamento Europeo, Bruxelles, 7 dicembre 2016
Fonte: blog dell'Autore
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