di Silvia Peppoloni
Il 24 agosto e il 30 ottobre 2016, due forti terremoti radono al suolo numerosi centri abitati nel territorio compreso tra Umbria, Marche, Lazio e Abruzzo. L’evento di ottobre provoca distruzione anche a Norcia, fino a quel momento considerata cittadina simbolo di un’accorta azione di ricostruzione e rinforzo strutturale eseguita dopo il terremoto della Valnerina del 1979. Crolla quasi completamente la Basilica di Norcia dedicata a San Benedetto, patrono d’Europa, uno dei simboli dell’identità culturale dell’Occidente. Con Norcia probabilmente si sfalda anche una delle immagini positive attraverso cui mostrare necessità ed efficacia della sempre invocata e mai perseguita prevenzione dai rischi naturali.
Del resto, un disastro naturale è contemporaneamente causa ed effetto di un disastro sociale, nel momento in cui la scienza resta inascoltata dalla politica, anche per sua intrinseca debolezza nel saper dialogare con la società.
Del resto, un disastro naturale è contemporaneamente causa ed effetto di un disastro sociale, nel momento in cui la scienza resta inascoltata dalla politica, anche per sua intrinseca debolezza nel saper dialogare con la società.
Di nuovo siamo di fronte a un paese colto di sorpresa dall’ennesimo terremoto, un evento naturale decisamente ricorrente sul territorio nazionale, non prevedibile temporalmente, ma dalle conseguenze quantificabili. Se da un lato la Protezione Civile ancora una volta mostra tutta la sua efficienza e tempestività, dall’altro gli effetti disastrosi sul tessuto sociale, economico, storico e artistico di nuovo denunciano l’assoluta inadeguatezza delle attività di prevenzione.
In questo momento di sconforto e rabbia, parlare di rischi naturali e prevenzione è un compito delicato, che si dovrebbe saper affrontare da angolazioni diverse, nel tentativo di individuare nuove possibili soluzioni.
La scienza e la tecnica nel cassetto
Non esiste in Italia una robusta strategia di riduzione del rischio, articolata in azioni concertate, che parta dall’educazione nelle scuole e dall’informazione alla popolazione, che preveda sistematicamente esercitazioni di emergenza, la pianificazione di interventi di rinforzo delle abitazioni, l’applicazione rigorosa delle normative edilizie, la delocalizzazione di edifici strategici e di impianti industriali a rischio. Al momento la prevenzione in Italia viene percepita soprattutto come declamazione di luoghi comuni e slogan, puntualmente rispolverati dopo ogni tragedia.
Eppure non siamo certo all’anno zero e non mancano i punti forti sui quali fare leva per costruire un patto nazionale per la prevenzione dai rischi naturali, per aumentare la consapevolezza sociale e favorire un’azione politica responsabile. Uno di questi è la conoscenza scientifica. La comunità scientifica nazionale conosce da anni la sismicità delle zone interessate dai recenti terremoti, come del resto di tutta la dorsale appenninica, avendone analizzato le caratteristiche geologiche, le informazioni di sismologia storica e i dati strumentali, e avendo messo a punto banche dati online a disposizione di tutti [1] [2] [3]. Con le dovute cautele, i terremoti del centro Italia erano per la scienza “prevedibili”, se circoscriviamo la prevedibilità all’identificazione delle aree interessate dagli eventi e all’entità dell’energia potenzialmente sprigionabile. La scienza non è ancora in grado di dire in maniera deterministica quando potrà verificarsi un terremoto, ma certamente può quantificare probabilisticamente le occorrenze all’interno di determinati periodi temporali. Altrettanto nota era la vulnerabilità di quell’edificato antico o, se relativamente recente, costruito nell’incultura delle tecniche costruttive, quando non addirittura nella negligenza delle norme antisismiche.
In fondo scienza e tecnica hanno sempre umilmente imparato dai passati disastri e migliorato i modelli e le metodologie di intervento. Eppure, osservando le macerie di quei centri abitati, sembra che scienza e tecnica restino sempre strumenti spuntati, chiusi nel cassetto polveroso dei decisori politici, per i quali quegli strumenti possono solo rappresentare un pesante fardello amministrativo, quando non addirittura la fastidiosa evidenza della propria inadeguatezza e incapacità di lavorare per il bene della comunità.
La cultura del rischio
Pericolosità e rischio sono spesso usati come sinonimi, mentre hanno accezioni diverse. La pericolosità è una caratteristica intrinseca del territorio, funzione delle sue peculiarità geologiche, morfologiche, climatiche, su cui l’uomo non può intervenire, mentre il rischio implica la presenza sul territorio di “elementi” che possono essere danneggiati (popolazione, insediamenti abitativi, attività produttive, infrastrutture, beni culturali). Per valutare concretamente il rischio non è sufficiente conoscere la pericolosità, ma occorre anche stimare attentamente il valore e la vulnerabilità dei beni presenti sul territorio. Dunque, è dal rischio che possiamo difenderci, è agendo sul rischio che si fa prevenzione [4].
Ma il rischio è qualcosa di cui abbiamo un’adeguata percezione? Quanti di noi sono realmente consapevoli di rischiare la vita in determinate situazioni? Quanti cittadini hanno un’idea del grado di vulnerabilità della propria abitazione, o almeno sono a conoscenza dei luoghi più sicuri della propria casa e del proprio centro abitato?
Un dato di fatto è che la popolazione è ancora poco informata. Ad oggi il sapere sociale di cui siamo provvisti non comprende le opportune conoscenze di base sulla pericolosità dei fenomeni naturali e sul rischio ad essa associato, nonostante alcune significative iniziative a carattere nazionale [5]. Le conoscenze che possono venirci in aiuto in una situazione di emergenza o che possono supportare la programmazione della nostra difesa dai rischi sono ancora insufficienti.
La chimera della prevenzione
La chimera della prevenzione
L’Italia, lo sappiamo, è una terra geologicamente giovane e per questo fragile. A questo ambiente fisico difficile e pericoloso spesso si sono aggiunti incuria, disattenzione, se non addirittura interventi scellerati dell’uomo che hanno ulteriormente incrementato l’esposizione al rischio. Purtroppo questo incremento del rischio non è stato accompagnato da un aumento della percezione del rischio stesso da parte della popolazione, che di conseguenza non è in grado di comprendere fino in fondo l’importanza di pretendere dai governanti lo sviluppo di politiche di difesa e di prevenzione.
Senza trascurare in alcun modo la dimensione economica della questione [6], o l’importanza di adottare strategie di riduzione del rischio che incrementino la resilienza delle comunità umane (ovvero la loro capacità di reagire al disastro in termini psicologici, sociali, economici e culturali) e riducano l’entità dell’intervento economico dello Stato per ripristinare nei limiti del possibile lo status quo, la prevenzione è soprattutto un dovere etico che dovremmo responsabilmente assumerci per rispetto della nostra stessa umanità. Lo afferma già nel ‘500 l’architetto Pirro Ligorio nel suo Libro di diversi terremoti [7], quando ribadisce che i terremoti non sono accidenti oscuri e ineluttabili, ma fenomeni alla portata della ragione umana e che cercare di raggiungere la sicurezza abitativa è una necessità e un dovere dell’intelletto umano. È chiaro il suo riferimento alla responsabilità dell’uomo, che trasforma i terremoti in disastri quando in modo colpevolmente responsabile non fa nulla di ciò che è nelle sue possibilità razionali per difendere vite umane, beni e attività.
Ma se la scienza, nella sua dimensione evolutiva storica, ha sempre imparato da tutti i terremoti, le alluvioni, le eruzioni e da altri eventi del passato, mettendo in discussione i suoi modelli sulla base dell’osservazione diretta di quanto accaduto, la società moderna e la politica, sua emanazione organizzativa e operativa, sembrano dimenticare sempre troppo velocemente la lezione del presente, rimandando ad un futuro remoto l’adozione di strategie di intervento a lungo termine [8].
Un terremoto, un’eruzione, un’alluvione si ripresenteranno laddove permarranno le condizioni geologiche “favorevoli” al loro accadimento. E’ solo una questione di tempo. La scienza lo ripete con forza da decenni.
Ma anche alcune forme di saggezza popolare, nate da un rapporto più autentico e osservativo con la propria terra, facevano sì che nel passato, in un centro abitato, non si costruisse dove esistevano condizioni sfavorevoli all’insediamento. Al contrario, la società moderna sembra aver ridotto la sua temporale prospettiva di azione ad un periodo molto breve, determinato costantemente dalla rincorsa al problema contingente. Pertanto, la “cultura dell’emergenza” che domina la nostra società, non appare più come causa, ma si rivela effetto di questa incapacità di pensare al futuro. E nella difesa dai rischi naturali l’incapacità di prefigurare razionalmente un futuro possibile ci determina in un costante atteggiamento passivo nei confronti di fenomeni che hanno tempi di ritorno anche di decenni. In questo quadro di riferimento culturale, la prevenzione resta una parola vuota, senza valore.
Recuperare la memoria del passato per progettare il futuro
Ad alimentare questo stato di cose c’è forse la facilità con cui siamo soliti perdere la memoria dei disastri del passato. In Italia eventi come i terremoti sono certamente frequenti, ma gli eventi più energetici possono avere tempi di ritorno molto lunghi, di parecchie decine se non centinaia di anni. Tempi di ritorno simili superano la durata della vita di un uomo, tant’è che dopo un terremoto bastano pochi anni per dimenticare. Il tempo diluisce la memoria dell’evento e allontana la paura. E mentre quel ricordo si cancella, svanisce dalla nostra memoria anche la necessità di porre l’opportuna attenzione nell’uso delle pratiche costruttive in quelle zone particolarmente rischiose del nostro territorio.
Pensare alla possibilità di un terremoto che ha tempi di ritorno di centinaia di anni è contro la nostra esperienza comune. Tuttavia, la memoria è elemento indispensabile per entrare nella dimensione temporale dei fenomeni naturali e comprenderla. Se non dimenticheremo cosa è avvenuto nel passato, lavoreremo con maggiore convinzione per prevenire ciò che può accadere nel futuro. E in ogni caso questo non basta.
Prevenzione: ruoli e responsabilità
La prevenzione, quell’insieme di azioni mirate a ridurre il rischio, è possibile solo se ruoli e responsabilità di scienziati, tecnici, amministratori locali, politici, mass media, cittadini sono chiaramente definiti [9].
Il compito degli scienziati è fare buona scienza, capire e modellare la realtà naturale, trasferire conoscenza alle diverse componenti della società e contribuire ad orientare chi deve prendere le decisioni sul territorio. I politici hanno il dovere di attivare responsabilmente nuove azioni di governo per la tutela dei cittadini e potenziare le iniziative già in atto [10], dotandosi di validi strumenti normativi che garantiscano il rispetto di adeguati livelli di sicurezza, tarati su conoscenze scientifiche affidabili e condivise. Ai mass media è affidato il delicato lavoro di mediare tra scienziati e società, il che richiede massima attenzione alla qualità delle informazioni raccolte e diffuse, all’attendibilità e all’autorevolezza delle fonti da cui provengono dati, modelli, teorie e notizie. Se da un lato la denuncia mediatica di inefficienze politiche è una fondamentale missione civile, dall’altro i media dovrebbero dar maggiore risalto ai risultati positivi raggiunti nella difesa dai rischi, affinché la popolazione comprenda il valore della prevenzione e dei risultati che è possibile ottenere investendo oculatamente le risorse economiche collettive. Gli stessi cittadini devono diventare più consapevoli della loro possibilità di incidere sulla sicurezza individuale e sociale. Informarsi sulle pericolosità del proprio territorio, accertarsi che gli edifici in cui si vive abbiano caratteristiche di sicurezza adeguate, conoscere i comportamenti che possono salvarci la vita durante un’emergenza, significa contribuire alla risoluzione o al contenimento dei problemi che possono affliggere l’intera comunità. Da un lato i cittadini hanno il diritto di pretendere che lo Stato lavori per garantire la loro incolumità, dall’altro hanno il dovere di informarsi di più, per diventare più consapevoli del valore della prevenzione e dell’importanza di investire sulla propria sicurezza, e per essere in grado di valutare e sorvegliare l’operato di chi gestisce il territorio. L’ordinata società giapponese ci insegna che il rischio, anche se non del tutto eliminabile, può essere ridotto seguendo con responsabilità e disciplina semplici comportamenti virtuosi e pratiche corrette, in modo da non dover più correre almeno quei rischi che si possono evitare.
Le ragioni profonde di una cronica incapacità di prevenzione
Ma perché in Italia la prevenzione stenta a realizzarsi? Perché nel presente è così difficile pensare al futuro del territorio che abitiamo? In una prospettiva schiacciata sul presente, siamo portati a pensare, non senza ragione, che alla base del ritardo cronico nell’avviare estese politiche di prevenzione ci siano esclusivamente la difficoltà di reperimento di adeguate risorse economiche, l’inefficienza burocratica e la miopia delle classi dirigenti di questo paese. Ma forse queste “giustificazioni” non fanno che deviare l’attenzione dalla sostanza della questione, da quello che forse è principalmente un problema culturale, favorendo il perdurare di comportamenti attendisti e fatalisti nella società italiana.
Se come cittadini continueremo a pensare che per fare prevenzione i soldi siano sempre insufficienti, che la politica sia corrotta e la burocrazia incomba come un Moloch imbattibile, allora seguiteremo a sentirci quasi moralmente sollevati dalla responsabilità di dover prendere nelle mani il nostro futuro, aspettando che nella drammaticità dell’emergenza la nostra umana richiesta di aiuto venga accolta.
Ma come è possibile che una popolazione come quella italiana, capace di grandi slanci di solidarietà nei momenti di emergenza (dal cappotto, bene di lusso nel 1951, che il semplice cittadino donava allo sfortunato fratello del Polesine, fino al volontariato infaticabile del moderno sistema di Protezione Civile), non comprenda l’importanza di affiancare all’emergenza un’azione dagli effetti più sicuri e duraturi come la prevenzione?
Viene da pensare che il criterio guida del nostro agire sia condizionato dall’abitudine culturale a rimettere il nostro destino nelle mani del fato o di Dio, e nel contempo a considerare la solidarietà verso il prossimo in difficoltà come nostro unico, sufficiente adempimento morale: questo potrebbe giustificare la coesistenza della cronica trascuratezza nella prevenzione e del formidabile efficientismo in emergenza.
In un quadro simile, anche lo sviluppo di una società della conoscenza scientifica risulta azione gravosa per la collettività, mancando quel requisito di immediata utilità e semplicità necessario in una società sempre più confinata ed orientata da un flusso amorfo e inarrestabile di tweet, post e telegiornali fotocopia.
La prevenzione: una questione culturale
La prevenzione non è una cosa semplice: è un insieme di azioni che possono svilupparsi su periodi temporali anche lunghi, che richiedono una pianificazione oculata di risorse umane ed economiche. Il monitoraggio continuo dei fenomeni, l’identificazione delle aree a rischio, l’organizzazione di campagne educative alla popolazione, l'utilizzo di metodi di pre-allertamento, gli interventi di messa in sicurezza del patrimonio edilizio, la messa a punto di strumenti normativi, il coordinamento efficace tra i molteplici soggetti preposti alla difesa dai rischi, rappresentano le modalità attuative di una strategia preventiva che deve essere alla base di ogni politica del territorio.
Ma queste azioni restano insufficienti se non vi è una contemporanea azione sul piano culturale. Nella società italiana sembra mancare il riconoscimento dei valori su cui fondare il nostro agire in tema di prevenzione. La prevenzione, infatti, non è solo un vantaggio economico. E’ una risposta moderna, razionale e responsabile a quel diritto alla sicurezza che ognuno deve eticamente perseguire per se stesso e per la comunità a cui appartiene, assumendosi una parte di responsabilità, dal politico al tecnico, dallo scienziato fino al singolo cittadino.
Per costruire una vera cultura della prevenzione, occorre recuperare l’idea del territorio come bene comune, risorsa e vantaggio collettivo, elemento nel quale confluiscono gli interessi individuali e quelli di tutta la comunità. Per riconoscere il valore di quel bene per sé e per gli altri, per rispettarlo, difenderlo, conservarlo e trasmetterlo integro alle generazioni future, bisogna prima aver ricostruito all’interno della nostra comunità relazioni sociali solide, fondate su principi etici condivisi ed attuati.
Il territorio: bene comune e sostrato di identità
Una prospettiva reale al nostro paese non può non includere l’obbligo etico di investire sempre di più nella sicurezza del nostro territorio. La stretta relazione tra dissesto geologico e dissesto sociale sottolinea una disattenzione collettiva verso il territorio.
Il territorio non è semplicemente il luogo dove casualmente siamo nati o viviamo, ma è il supporto fisico delle nostre attività, una preziosa risorsa in termini economici, ma anche e soprattutto uno dei valori fondanti della nostra identità, dunque un bene da salvaguardare. Solo attraverso la riscoperta del valore identitario dei territori è possibile avviare quel cambiamento culturale che ci porti tutti a comprendere il vantaggio di perseguire politiche di tutela della bio- e geodiversità, di sviluppo di nuovi modelli economici, di valorizzazione delle specificità storico-artistiche esistenti, di prevenzione dai rischi naturali.
La conoscenza del valore del territorio è il primo mattone su cui costruire una nuova consapevolezza sociale, capace di avviare nelle nostre scuole la formazione di cittadini responsabilmente orientati verso un futuro in cui possa affermarsi un nuovo modo di pensare e gestire il territorio. Educare è già prevenire.
Geoetica: un nuovo modo di pensare e gestire la Terra
La geoetica, seppur nata e sviluppata nell’ambito più strettamente scientifico per analizzare le implicazioni etiche, sociali e culturali che accompagnano l’attività geologica, sta ormai dispiegando tutto il suo potenziale educativo e operativo, andando a comprendere problemi che investono nel suo complesso l’intera società [11]. La necessità di sviluppare un robusto quadro di riferimento di valori etici, sociali e culturali all’interno della comunità delle geoscienze è ormai esigenza inderogabile [12] [13], proprio in virtù del vasto ambito di applicazione di questo gruppo di discipline, che investigano fenomeni tra i più impattanti del nostro tempo, dai cambiamenti climatici all’inquinamento ambientale, dallo sfruttamento delle risorse ai fenomeni naturali distruttivi.
È significativo che la comunità geologica comprenda l’importanza di sviluppare, dapprima al suo interno, una nuova consapevolezza del ruolo sociale e culturale che i geologi sono chiamati a svolgere, e che tenti poi di trasmettere all’intera società un nuovo paradigma culturale.
La geoetica si sta rapidamente affermando come nuova prospettiva e modalità di intendere e relazionarsi al pianeta. Il vivace dibattito internazionale, il crescente numero di pubblicazioni dedicate alla riflessione sugli aspetti etici e sociali della ricerca e della pratica scientifica [14] [15] [16], la creazione di una grande associazione scientifica [17], che promuove la geoetica a livello nazionale e internazionale, formalmente riconosciuta come partner strategico dalle più prestigiose organizzazione di geoscienze del mondo, testimonia che qualcosa sta cambiando.
Ma la portata innovativa della geoetica va al di là del dibattito scientifico, dal momento che può fornirci le categorie corrette per discutere di prevenzione e per accrescere la consapevolezza della sua necessità sia nelle classi politiche che nella cittadinanza. La geoetica mira a costruire un quadro di riferimento di conoscenza e azione basato su valori considerati indispensabili, tenuto conto dei bisogni della società e dell’ambiente e dell’urgenza di riconsiderare il rapporto tra uomo e territorio, uomo e pianeta, un pianeta sul quale vivono ormai 8 miliardi di abitanti, che necessitano di risorse e di protezione da fenomeni naturali pericolosi.
Aristotele definisce l’etica come l’indagine e la riflessione sui valori che sono alla base del comportamento operativo dell’uomo. Per analogia la geoetica è stata definita come l’indagine e la riflessione sui valori su cui basare comportamenti corretti nei confronti del Sistema Terra [18]. Pertanto, essa ha lo scopo di identificare quei valori che devono orientare gli uomini nella gestione della Terra, alla conoscenza e al rispetto delle dinamiche naturali, ponendo particolare attenzione alla corretta e responsabile comunicazione delle conoscenze alla popolazione, inclusa l’educazione al concetto di rischio [19].
La geoetica richiama scienziati e società alle proprie responsabilità. Nella sua applicazione ai rischi naturali, essa trova una felice corrispondenza nella frase di Giuseppe Grandori (1921-2011), grande figura dell’ingegneria sismica, dotato di indubbio buon senso, che ben 30 anni fa affermava: “Difendersi dai terremoti significa ridurre le conseguenze dei terremoti (vittime e danni materiali) al di sotto di un limite che la società ritiene accettabile, tenuto conto dei costi che un’ulteriore diminuzione di tale limite comporterebbe” [20]. L’apparente cinismo che può colpire il lettore a una prima lettura, scompare una volta riconosciute nella frase la propositiva intenzionalità scientifica e la grande valenza operativa e culturale. Difendersi dai terremoti non è azione dalle sfumature fideistiche o ideologiche, ma il risultato di un percorso di conoscenza che si concretizza in un patto sociale, dove la dignità della ragione umana è un insostituibile strumento al servizio del bene comune.
In questo consiste la geoetica e la geoetica ci riguarda tutti.
NOTE
1. Sito Internet dell’INGV – Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia: http://www.ingv.it
2. Database Macrosismico Italiano 2015 (DBMI15), di Locati M., Camassi R., Rovida A., Ercolani E., Bernardini F., Castelli V., Caracciolo C.H., Tertulliani A., Rossi A., Azzaro R., D’Amico S., Conte S., Rocchetti E. (2016). Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Fornisce un set omogeneo di intensità macrosismiche provenienti da diverse fonti relativo ai terremoti con intensità massima ≥ 5 e d'interesse per l'Italia nella finestra temporale 1000-2014: http://emidius.mi.ingv.it/CPTI15-DBMI15/query_place/
3. Catalogo Parametrico dei Terremoti Italiani 2015 (CPTI15), di Rovida A., Locati M., Camassi R., Lolli B., Gasperini P. Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Fornisce dati parametrici omogenei, sia macrosismici, sia strumentali, relativi ai terremoti con intensità massima ≥ 5 o magnitudo ≥ 4.0 d'interesse per l'Italia nella finestra temporale 1000-2014: http://emidius.mi.ingv.it/CPTI15-DBMI15/query_eq/
4. Silvia Peppoloni, Convivere con i rischi naturali, 2014, p. 148, ISBN 978-88-15-25078-0, Il Mulino, Bologna.
5. Campagna di comunicazione nazionale “Io non rischio”, a cura del Dipartimento della Protezione Civile: http://iononrischio.protezionecivile.it/
6.Antonio Scalari, Terremoto e prevenzione: perché l’Italia non è come il Giappone: http://www.valigiablu.it/terremoto-prevenzione/
7. Pirro Ligorio, Libro di Diversi Terremoti, a cura di Emanuela Guidoboni, De Luca Editori D’Arte, Roma 2005.
8. Silvia Peppoloni, La lezione della terra: tutto quello che ci hanno insegnato i terremoti: http://www.corriere.it/cultura/eventi/notizie/lezione-terra-tutto-quello-che-ci-hanno-insegnato-terremoti-bec37350-9b9a-11e6-92af-45665cb81731.shtml?refresh_ce-cp
9. Peppoloni S. & Di Capua G. (2014). Geoethical aspects in the natural hazards management. In: “Lollino, G., Arattano, M., Giardino, M., Oliveira, R., Peppoloni, S. (Eds.). Engineering Geology for Society and Territory - Volume 7, Education, Professional Ethics and Public Recognition of Engineering Geology. XVII, 274 p., Springer”. http://media.wix.com/ugd/5195a5_0440718081d340228edd071b5b20fa0a.pdf
10. Struttura di missione “#italiasicura”: http://italiasicura.governo.it/site/home/italiasicura.html
11. Carlo Doglioni e Silvia Peppoloni, Pianeta Terra: una storia non finita, 2016, p. 160, ISBN 978-88-15-26376-6, Il Mulino, Bologna.
12. Peppoloni S. (2012). Ethical and cultural value of the Earth sciences. Interview with Prof. Giulio Giorello. Annals of Geophysics, vol. 55, p. 343-346, ISSN: 2037-416X, DOI: 10.4401/ag-5755. http://www.annalsofgeophysics.eu/index.php/annals/article/download/5755/6025
13. Peppoloni S. (2012). Social aspects of the Earth sciences. Interview with Prof. Franco Ferrarotti. Annals of Geophysics, vol. 55, p. 347-348, ISSN: 2037-416X, doi: 10.4401/ag-5632. http://www.annalsofgeophysics.eu/index.php/annals/article/download/5632/6026
14. Peppoloni, S. & Di Capua, G. (Eds). Geoethics: the Role and Responsibility of Geoscientists. Geological Society, London, Special Publications, 2015, 419, ISBN 978-1-86239-726-2.
15. Wyss M. and Peppoloni S. (Eds). Geoethics, Ethical Challenges and Case Studies in Earth Sciences (2014), pp. 450, Elsevier.
16. Peppoloni S. & Di Capua G. (2012). Geoethics and geological culture: awareness, responsibility and challenges. Annals of Geophysics, vol. 55, p. 335-341, ISSN: 2037-416X, doi: 10.4401/ag-6099. http://www.annalsofgeophysics.eu/index.php/annals/issue/view/482
17. Sito Internet della IAPG – International Association for Promoting Geoethics: http://www.geoethics.org
18. Peppoloni S. & Di Capua G. (2014). The meaning of Geoethics. In: “Wyss M. and Peppoloni S. (Eds), Geoethics: ethical challenges and case studies in Earth Science, 450 p., Elsevier”. http://media.wix.com/ugd/5195a5_0156301931f9429da6db4bc4843eb605.pdf
19. Peppoloni S. & Di Capua G. (2016). Geoethics: Ethical, social, and cultural values in geosciences research, practice, and education. In: Wessel G. & Greenberg, J. (Eds.). Geoscience for the Public Good and Global Development: Toward a Sustainable Future. Geological Society of America, Special Paper 520, pp. 17-21, doi: 10.1130/2016.2520(03).
20. Giuseppe Grandori, Introduzione. In: Benedetti D., Castellani A., Gavarini C., Grandori G. (a cura di), Ingegneria Sismica, Quaderni de “La Ricerca Scientifica”, n. 114, Vol. 6, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma, 1987, ISSN 0556-9664.
L'Autrice è ricercatrice dell’Istituto Italiano di Geofisica e Vulcanologia, esperta di rischi geologici, è tra le fondatrici a livello internazionale della “geoetica”. Si batte per lo sviluppo di una cultura geologica e della prevenzione in Italia.
Fonte: MicroMega online - La Mela di Newton
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