di Rino Genovese
Non in Italia, paese ancora politicamente soffocato tra Renzi e Grillo, ma in Europa qualcosa a sinistra si muove. Non mi riferisco tanto all’Inghilterra di Corbyn, il cui pur positivo successo presso la base labour è limitato dalla sua posizione isolazionista euroscettica, quanto piuttosto alla Francia e perfino alla Germania, paese in cui il primato di Merkel è insidiato oggi non soltanto a destra ma anche a sinistra – per quanto incredibile possa sembrare – dall’ex presidente del parlamento europeo Martin Schulz. La possibilità che l’Europa cambi musica è inevitabilmente appesa al filo di un mutamento di rotta dei partiti socialisti e socialdemocratici, in collegamento con le formazioni anti-austerità emerse negli ultimi anni.
L’esempio è dato dal “modello portoghese”, se così vogliamo chiamarlo, in cui un governo socialista si regge su una maggioranza parlamentare formata dai vecchi comunisti, dagli ecologisti e dalla nuova sinistra. Anche se sappiamo bene che in Germania un accordo di programma tra i socialdemocratici e die Linke (la sinistra cosiddetta radicale) è di là da venire, e che lo schieramento delle candidature post-Hollande in Francia è decisamente frammentato, ciò nondimeno qualche indizio di vitalità, o almeno di non rassegnazione a morire neoliberisti, sta arrivando dalla sinistra europea.
L’esempio è dato dal “modello portoghese”, se così vogliamo chiamarlo, in cui un governo socialista si regge su una maggioranza parlamentare formata dai vecchi comunisti, dagli ecologisti e dalla nuova sinistra. Anche se sappiamo bene che in Germania un accordo di programma tra i socialdemocratici e die Linke (la sinistra cosiddetta radicale) è di là da venire, e che lo schieramento delle candidature post-Hollande in Francia è decisamente frammentato, ciò nondimeno qualche indizio di vitalità, o almeno di non rassegnazione a morire neoliberisti, sta arrivando dalla sinistra europea.
Vediamo più in particolare il caso francese, in cui, com’è noto, tutte le previsioni danno Marine Le Pen già al secondo turno delle elezioni presidenziali che si terranno in maggio. Il problema è quello dell’altro candidato al ballottaggio: il che significa poi, per questo secondo, la quasi certezza di vittoria, considerando che vale ancora in Francia la opzione “repubblicana” che spinge l’elettorato democratico a sbarrare la strada all’estrema destra. Chi potrà essere allora il prossimo presidente francese? Fino a qualche settimana fa come baluardo anti-Le Pen tutti avrebbero scommesso su Fillon, esponente di una destra tradizionale e neoliberale: un personaggio, questo, peraltro molto indigesto all’elettorato di sinistra. Ma oggi, dopo lo scandalo in cui è incappato (avrebbe elargito circa un milione di denaro pubblico ai propri familiari per incarichi inesistenti), ben pochi scommetterebbero su di lui. Pressoché altrettanto di destra – ma, a differenza di Fillon, aperto su questioni come il “matrimonio per tutti” – è Macron, ex ministro dell’economia di Hollande, che al momento si prospetta come la probabile alternativa allo scivolone lepenista della Francia. Ma è davvero così sicuro che, al primo turno, un elettorato socialista deluso da Hollande sceglierà un candidato addirittura più a destra del presidente in carica?
La sorpresa, dunque, potrebbe essere Benoît Hamon. Il suo profilo è quello di un coerente frondeur, qualcuno che ha lasciato il suo posto di ministro in dissenso sulla politica economica di Hollande. Il suo merito, nella campagna delle “primarie” (un meccanismo di scelta del leader di cui, come sanno i nostri venticinque lettori, non siamo certo simpatizzanti, ma che in un sistema presidenziale come quello francese ha un minimo di giustificazione), è stato di concentrarsi sul nesso tra la necessità di una “transizione ecologica” e la questione sociale, avanzando, se non altro in linea di principio, la proposta di un “reddito universale di esistenza” come risposta al declino ormai irreversibile, di fronte all’ininterrotto processo d’innovazione tecnologica, delle possibilità di occupazione. C’è un grano di utopia nella sua prospettiva: e ciò fa la differenza sia dal crudo realismo economico della meritocrazia a trecentosessanta gradi di Macron, sia dalla paura per l’altro e il diverso alimentata da Marine Le Pen. Il lavoro non viene portato via dagli immigrati, che di solito svolgono le funzioni più gravose, quelle a cui i lavoratori europei si sottraggono; inoltre va sempre più sganciato dalla “lotta per la vita” in un mondo in cui la giornata lavorativa necessaria alla produzione e alla riproduzione dei beni essenziali potrebbe essere, grazie alla tecnologia, ridotta a poche ore.
È il tempo liberato dal capitalismo quello che s’intravede nella proposta di Hamon, un candidato su cui, fino a pochi mesi fa, nessuno avrebbe scommesso. È vero che, prudentemente, egli propone in un primo momento un reddito di seicento euro mensili limitato alla fascia di età dai diciotto ai venticinque anni, il che appare più un sostegno all’ingresso dei giovani nell’incerto mondo del lavoro odierno che un reddito universale vero e proprio. Intanto però un principio è stato affermato. E che la novità provenga dalle file del Partito socialista, in una prospettiva generale che intende cambiare l’indirizzo politico dell’Europa, è un segno di speranza.
Fonte: Il Ponte
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