La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 11 febbraio 2017

Contro Trump nasce la lista della solidarietà tra scienziati

di Francesco Suman
L'ordine esecutivo firmato il 27 gennaio dal neoeletto presidente degli Stati Uniti Donald Trump (White House Executive Order 13769 "Protecting the Nation from Foreign Terrorist Entry into the United States", 27 January 2017) vieta ai rifugiati di sette paesi a maggioranza musulmana di posare piede su suolo statunitense per 120 giorni. Tali paesi sono Iran, Iraq, Siria, Libia, Somalia, Sudan e Yemen, con l'eccezione della Siria, i cui rifugiati vedono il loro ingresso negli Stati Uniti d'America vietato a tempo indefinito. L'ingresso di tutti i regolari cittadini di questi paesi invece è stato vietato per 90 giorni. La loro colpa: essere nati in un paese in cui la religione islamica è maggioritaria.
In tutto il mondo sono state manifestate espressioni di dissenso. Tra queste, più di 2000 impiegati di Google a fianco dell'amministratore delegato dell'azienda Sundar Pichai hanno abbandonato le loro scrivanie per impugnare striscioni e cartelli con messaggi in difesa degli immigrati. Tuttavia, un sondaggio pubblicato dal Telegraph[1], compiuto da Reuters/Ipsos su un campione di 1201 persone provenienti da 50 stati federali, mostra come il 49% degli statunitensi sia a favore dell'ordine esecutivo anti-immigrazione firmato da Trump. Soltanto il 41% si è espresso in termini negativi rispetto al provvedimento, mentre il 10% non si è schierato.
In seguito agli attentati dell'11 settembre 2001 si era già visto qualcosa di simile: a uno scienziato australiano, ad esempio, era stato impedito di rientrare sul suolo statunitense per nove settimane, dopo un giorno trascorso in Canada, in quanto nato in Malesia, paese che era stato incluso nella watch list del Dipartimento di Stato. È interessante notare come anche agli scienziati israeliani sia precluso l'ingresso in molte nazioni arabe e le stesse restrizioni si possono applicare a chiunque abbia un timbro israeliano sul proprio passaporto[2].
L'insopportabile equazione tra nazionalità e credo religioso che ispira il provvedimento di Trump ha avuto delle forti ripercussioni anche all'interno della comunità scientifica. Lauren Morello e Sara Reardon hanno raccontato su Nature il 29 gennaio scorso[3] la vicenda di Kaveh Daneshvar, un genetista che sta concludendo il suo post-doc alla Harvard Medical School e al Massachusetts General Hospital di Boston, invitato a tenere una presentazione al meeting di biologia molecolare che si terrà a Banff in Canada. Daneshvar, cittadino iraniano, potrebbe non essere in grado di presenziare a questo meeting, in quanto, laddove decidesse di lasciare il paese in cui lavora, si potrebbe trovare nella drammatica condizione di non potervi fare ritorno.
Ali Shourideh, economista presso la Carnegie Mellon University di Pittsburgh in Pennsylvania, di cittadinanza iraniana in possesso di una green card, ha recentemente fatto visita diverse volte in Iran alla madre malata di cancro; tuttavia, ora si trova di fronte a una scelta ancora più drammatica: mantenere il lavoro nel paese in cui vive o star vicino alla madre malata.
Anche in virtù di casi estremi come quest'ultimo, il 1 febbraio Trump e i suoi collaboratori hanno in parte “ammorbidito” l'ordine esecutivo, decidendo goffamente che il divieto non si applica a coloro che possiedono un visto di residenza permanente o una green card. In ogni caso, questo tentativo di operare un aggiustamento fatto passare come “normalizzatore” non può in alcun modo mettere in secondo piano la gravità e la violenza del provvedimento stesso. Il 3 febbraio il giudice James Robart di Seattle dello stato federale di Washington ha imposto una sospensione temporanea dell'ordine esecutivo; tuttavia un decreto d'emergenza dell'amministrazione Trump potrebbe annullare la sentenza e reintrodurre il provvedimento. Su questo fronte, la battaglia potrebbe essere solo all'inizio. Ma oltre alla società civile e al potere giudiziario, anche il mondo scientifico si è schierato contro il bigottismo di Trump. Più di 12000 ricercatori, tra cui 40 premi Nobel e 6 medaglie Fields, hanno già firmato una petizione di denuncia contro l'ordine esecutivo di Trump[4], sottolineando come esso sia non solo fortemente discriminatorio, ma al contempo risulti dannoso per l'interesse degli Stati Uniti d'America, minacciandone la leadership nel campo dell'educazione.
Secondo il Migration Policy Institute, quasi il 30% dei medici e dei chirurghi che lavorano negli Stati Uniti sono immigrati. India, Cina, Filippine, Corea e Pakistan occupano i primi posti di questa speciale classifica, mentre Iran e Siria occupano rispettivamente il sesto e il decimo posto[5]. L'American Association for the Advancement of Science (AAAS) e l'Association of American Universities hanno rilasciato dichiarazioni che invitano Trump a rivalutare gli effetti di un provvedimento che potrebbe generare forti disagi a docenti, ricercatori, studenti e impiegati delle università statunitensi, ma non solo.
Diverse collaborazioni internazionali infatti hanno già risentito degli effetti disastrosi dell'ordine esecutivo. Samira Samimi, una studiosa iraniana di glaciologia presso l'università di Calgary in Canada, avrebbe dovuto recarsi in Groenlandia in aprile con un finanziamento della NASA per studiare lo scioglimento dei ghiacci. Il volo adibito al trasporto dell'intera equipe di ricercatori sarebbe dovuto partire da New York, ma Samimi potrebbe non riuscire a varcare il confine statunitense.
Il provvedimento inoltre potrebbe sortire effetti negativi anche su ricerche per lo sviluppo di vaccini per malattie potenzialmente epidemiche che, ironia della sorte, se ne infischiano di leggi e confini nazionali. Un esempio è rappresentato dalla leishmaniosi, una malattia derivante dall'attacco di un parassita (Leishmania infantum) che colpisce principalmente il cane e più raramente l'uomo. Questa malattia si sta diffondendo in aree occupate della Siria e dell'Iraq e le comunità scientifiche hanno bisogno di reti di collaborazioni internazionali per contrastare le potenziali epidemie, anche per prevenirne l'ingresso, più o meno clandestino, su suolo statunitense. Come riporta Amy Maxem su Nature[6], Farrokh Modabber, scienziato iraniano che lavora allo US National Institutes of Health e al Pasteur Institute of Iran, esperto di malattie infettive, ha già dovuto cancellare un meeting e si chiede se il provvedimento di Trump non possa avere ricadute più gravi sul lungo termine: testare vaccini per malattie tropicali potrebbe diventare estremamente difficoltoso senza la collaborazione di scienziati provenienti dagli stati dove le malattie sono endemiche.
Il micetoma ne è un chiaro esempio: questa malattia comporta gravi reazioni granulomatose dei tessuti causate dall'infezione causata da funghi e batteri che si contraggono per via transcutanea. Il micetoma è maggiormente diffuso in fasce povere della popolazione di almeno 23 paesi e al momento non è disponibile una cura affidabile. In Sudan, uno dei sette stati inclusi nella lista nera di Trump, Ahmed Fahal dirige il Mycetoma Research Centre, l'unico centro di ricerca al mondo deputato allo studio di questa malattia, inserita dall'Organizzazione Mondiale della Sanità tra le malattie tropicali da tenere sotto osservazione. Fahal si trova costretto a declinare l'invito da parte dell'American Society of Microbiology a presentare i suoi studi a una conferenza che si terrà a New Orleans il prossimo giugno. Per le stesse ragioni Isam Zarroug, che dirige il programma di studi in Sudan sull'oncocercosi, nota anche come cecità fluviale, una malattia provocata dall'azione di un parassita nematode (Onchocerca volvulus), non potrà presentare i risultati dei suoi studi al meeting di Atlanta, presso il Carter Center della Jimmy Carter's Foundation.
Questi esempi potrebbero essere tuttavia solo la punta di un iceberg le cui dimensioni ad oggi sono ancora difficilmente calcolabili, ma rilevanti a sufficienza da allertare la comunità scientifica mondiale. Maria Leptin, biologa dello sviluppo presso l'Istituto di Genetica dell'Università di Colonia in Germania e direttrice di EMBO (la European Molecular Biology Organization), ha promosso un'importante iniziativa[7] denominata “The Science Solidarity List” (la lista della solidarietà della scienza) che ha visto coinvolta una cospicua rappresentanza dell'eccellenza della comunità scientifica europea: EMBO infatti pubblica alcune tra le riviste più importanti al mondo nel settore della biologia molecolare (The EMBO Journal, EMBO Reports, Molecular System Biology, EMBO Molecular Medicine, le prime tre edite da Nature Publishing Group).
“La comunità scientifica europea si è immediatamente mobilitata per aiutare concretamente gli scienziati che, a causa delle recenti restrizioni dell’immigrazione volute da Trump, si sono trovati impossibilitati a portare avanti le loro ricerche in territorio statunitense” ha dichiarato Antonella Viola, immunologa e biologa cellulare esperta dei meccanismi alla base dell'infiammazione, professoressa del Dipartimento di Scienze Biomediche dell'Università di Padova, vice direttore scientifico del VIMM (Istituto Veneto di Medicina Molecolare), nonché prima donna dell'Università di Padova tra i membri del board di EMBO.
“L’European Molecular Biology Organization, di cui ho l’onore di essere membro insieme ad altri 7 colleghi dell'Università di Padova, ha creato una pagina web in cui i ricercatori europei possono offrire ospitalità ai colleghi in difficoltà. In questa pagina”, sottolinea Antonella Viola, “in cui al momento si sono registrati 645 laboratori europei, si dichiara di mettere a disposizione spazi di lavoro, strumenti o, se possibile, anche alloggi; in questo modo, i ricercatori che si trovino da un momento all’altro senza la possibilità di rientrare negli Stati Uniti e quindi senza più poter accedere ai propri laboratori, possono consultare la lista e contattare i colleghi europei in base alle proprie esigenze scientifiche. E’ un’iniziativa molto importante non solo per la reale offerta di aiuto, ma anche perché rappresenta una risposta forte della comunità scientifica ad una assurda politica che discrimina in base alla nazionalità e alla religione”.
La collaborazione scientifica trans-nazionale è fondamentale per tutelare un bene comune come la salute pubblica, indirettamente messo a repentaglio dall'improvvido ordine esecutivo del neopresidente statunitense. L'iniziativa promossa da EMBO rappresenta una rimarchevole e puntuale risposta collettiva di una comunità, quella scientifica, che ancora una volta mostra coesione, capacità organizzative e spirito di cooperazione che hanno pochi eguali su scala mondiale.
Esistono molte accezioni del termine “democratico”. Democrazia vuol dire anche farsi carico delle responsabilità che derivano dalla consapevolezza di essere tutti parte di un'impresa collettiva, quella dell'avanzamento della conoscenza nel caso del lavoro della comunità scientifica, che nessuna avventata decisione politica, più o meno ideologicamente informata, potrà compromettere, in quanto incomparabilmente più grande rispetto a qualsiasi mera aspirazione individuale.
In queste azioni gratuitamente solidali la comunità scientifica si mostra come una comunità laica, senza confini nazionali, senza pregiudizi sulla provenienza nazionale o sul credo religioso, tollerante delle libertà individuali di ciascun suo membro, capace di prendere decisioni collettive altruistiche (come la condivisione di strumenti e di strutture a favore di membri svantaggiati) che garantiscano lo svolgimento libero di un'attività di ricerca i cui benefici verranno goduti sul breve e sul lungo termine dall'umanità intera.
In questo senso la scienza è spesso molto più democratica di quei governi che la democrazia hanno avuto la presunzione di esportarla, come merce da vendere a mercati ritenuti ancora vergini.

NOTE








Fonte: MicroMega online - La Mela di Newton

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