La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 11 febbraio 2017

Evitare la catastrofe. Appunti teorici per orientarsi nel presente

dei Centri Sociali Del Nord Est
Con il nuovo anno non mancano i buoni “vecchi” propositi: il movimento che trasforma lo stato di cose presenti, o, che dir si voglia, la rivoluzione. Facendo tesoro di ciò che di buono c’è stato l’anno passato, e consapevoli che molto ci sia ancora da fare, vogliamo provare a mettere nero su bianco alcune riflessioni che ci vengono dalle uniche due attività essenziali del fare politica: osservare la realtà che ci circonda senza paraocchi ideologici di qualsiasi matrice, e provare a determinarla cambiandone la direzione attraverso l’iniziativa e l’organizzazione politica.
La forma qui proposta non è di un articolo o di una “analisi di fase”, quanto piuttosto un manifesto dei principi generali che determinano l’agire quotidiano nei nostri spazi e al di fuori di questi. Ad un occhio acuto (o malizioso) potrà sembrare riduttivo usare questa forma e indubbiamente le considerazioni fatte più sotto peccano di semplicità e concisione. Ma è proprio quello che vogliamo fare: essere il più precisi e chiari possibile, rimandando ad un altro momento la possibilità di approfondire alcune problematiche esposte e - perché no? - darci il tempo di verificarle, modificarle, cambiarle.
1. Le trasformazioni epocali del capitale, del lavoro e dei rapporti di classe: in quale direzione?
Stiamo vivendo in una fase in cui le trasformazioni delle forme di vite - nella loro dimensione culturale, sociale, politica, antropologica ed ambientale - sono estremamente radicali. Il problema sta nel contenuto, nella direzione di questo cambiamento. Per orientarci e cercare di ricomporre i vari pezzi della nostra bussola del presente, sappiamo di aver bisogno di un lavoro teorico innovativo. Il sapere scientifico “di parte” è sempre necessario per analizzare, contestualizzare e mettere assieme tutte le considerazioni che il tempo presente ci dà. Il sapere critico-rivoluzionario serve per elaborare, oltre ad una critica radicale del presente, il nostro orizzonte tendenziale, la Città futura non-utopica, cioè costituente qui ed ora. L’esperienza deve essere il fondamento di questo sapere, in grado di orientarlo e di dare le coordinate affinché la teoria possa tradursi in prassi, andando oltre il dato immediato: un po’ come gli artigiani quando apprendono la loro conoscenza pratica a partire dal materiale che hanno davanti e dalla verifica delle tecniche di lavorazione. Gli artigiani possono facilmente diventare artisti della rivoluzione se sanno come fare creazione dagli oggetti che hanno davanti. I tecnici della politica, chi pensa di fare analisi e strategia a partire da un modello pre-confezionato ed astratto, da riprodurre nella realtà senza garanzia di una sua rispondenza, non ci interessano. Da materialisti, abbiamo sempre preferito Aristotele a Platone. Con metodo marxista vogliamo iniziare i nostri punti iniziando da quello essenziale: le trasformazioni del capitale e del lavoro.
2. Postfordismo e neoliberalismo: un paradigma del comando del capitale, dalle democrazia rappresentativa al nuovo ordine delle oligarchie finanziarie
Abbiamo marcato da ormai alcuni decenni il passaggio dal modo di produzione fordista ad un altro postfordista, caratterizzato dall’ideologia neoliberale e, in Europa, dalla sua sottospecie ordoliberale. Il capitale trova i momenti più proficui di valorizzazione nella riproduzione e nella circolazione. A questo nuovo modo di produzione il capitale ha adattato le istituzioni politiche e della società civile: di qui la trasformazione degli Stati-nazione con la progressiva perdita di sovranità e l’intensificazione delle tecniche governamentali; di qui il ruolo dei mercati finanziari nel tracciare i limiti delle politiche statali, sempre presenti come fantasmi, e delle istituzioni sovranazionali (di credito o politiche). Adesso stiamo vivendo la trasformazione delle democrazie liberali in oligarchie, di fatto ultimo compimento di questo processo. Non stiamo di certo parlando di dittatura o di superamento del meccanismo di voto: ciò che intendiamo è la crisi oggettiva della rappresentanza e della forma-partito. I ceti burocratici di partito si auto-riproducono blindando i meccanismi di elezione dei rappresentanti: vorrebbero eliminare i terzi competitors tra i due poli della stessa famiglia liberale, definiti ancora formalmente come “Destra” e “Sinistra”, e centralizzare al massimo grado la decisione per imporre sul piano nazionale gli interessi dei mercati finanziari. La “rivoluzione dell’alto”, la lotta di classe perpetrata dalle oligarchie contro i nuovi e vecchi poveri, ha rianimato la legalità della ragion di Stato che intensifica la repressione penale e l’autoritarismo del comando (nelle decisioni e contro il dissenso) prefigurando un superamento del moderno Stato di diritto. La contraddizione oggettiva è tra un vuoto di sovranità provocato dalle trasformazioni del capitale passate ed una ricontestualizzazione più o meno mascherata della stessa per le trasformazioni presenti. Non è un caso che alcune ideologie abbiano rivisto nella sovranità e nel Politico alcune possibilità di intervento strategico, anche dal punto di vista della "liberazione". Ritorneremo più avanti su questo. 
3. Nuova accumulazione originaria, profitto e rendita
Dobbiamo rivedere le dinamiche e configurazioni del modo di produzione postfordista alla luce della nuova ragione neoliberale. Il neoliberalismo è una morula: fa convivere tra loro contemporaneità e non-contemporaneità, attuale e inattuale (in senso regressivo), passato e presente, sussunzione reale e sussunzione formale. La coesistenza sincronica del plusvalore relativo ed assoluto ha riportato una nuova attenzione sul lato del profitto oltre che sulla rendita: i ritmi di produzione intensificati, le tecniche di controllo informatico sui comportamenti dei lavoratori, l’allungarsi della giornata lavorativa in ufficio o in studio oltre i tempi contrattuali per portare a termine una commissione, il dispositivo del merito e dell’iper produttività per affermarsi e sopravvivere nella giungla della precarietà, riportano l’attenzione del capitale sul tempo classico di lavoro. Gli stessi spazi di libertà del lavoro cognitivo e/o autonomo prima imprescindibili per il postfordismo vengono drasticamente ristretti. La ricerca di nuovo profitto non va vista separatamente dalla rendita (finanziaria, immobiliare, sulle risorse della terra, la spoliazione predatoria del comune, ecc.): sono gli intrecci organici della nuova accumulazione originaria intrapresa dal capitale contemporaneo. Da una parte, le privatizzazioni e lo smantellamento della ricchezza sociale (istituti del welfare) alla base dell’austerità causano nuove povertà, cioè nuovi servi semi-liberi (più prestatori di corvée che operai salariati) che si sottomettono volontariamente a rapporti di lavoro denigranti, similmente agli ex servi della gleba “liberati” dai vincoli feudali e costretti a lavorare per le botteghe urbane. In tutto e per tutto questa accumulazione va in direzione della rendita capitalistica. Dall’altra, l’accaparramento intensivo delle risorse naturali e fisiche per la produzione energetica sta provocando guerre guerreggiate neocoloniali e accrescendo la crisi ambientale che mette in pericolo l’intero pianeta. Tutto ciò è non è che un altro modo per valorizzarsi che ha il capitale, laddove non riesce più a farlo secondo i tempi ed i luoghi classici anche del postfordismo. 
4. Nuovi rapporti di classe e forme dello sfruttamento. La rottura della dialettica tra lavoro e capitale
4a) Il capitale è un rapporto sociale, quindi si trasforma allorché si trasforma il lavoro. Il capitalismo vive di una rivoluzione permanente al suo interno, come dice Marx, che non lo fa mai essere identico a se stesso nel corso della storia. La stessa cosa vale per il lavoro, l’altro polo della contraddizione. Il lavoro nel postfordismo è sussunto “realmente” nei nuovi meccanismi di valorizzazione: tempo di vita e tempo di lavoro sono diventati indistinti data la centralità del momento di riproduzione per la messa a valore degli affetti, dei linguaggi, delle immagini, delle relazioni. E’ ancora così, soprattutto se pensiamo che proprio su questo si fonda la “circolazione produttiva” tra marketing, realizzazione del just in time, la relazione con la città che instaura la logistica, ecc. Dal punto di vista qualitativo, al di là della tecnica specifica di lavoro, il valore viene estratto dalla nostra connettività in rete con i dispositivi telematici, dalla continua condivisione di dati sui social degli smartphone, dalle piattaforme informatiche della sharing economy. Ma riteniamo che il concetto di cognitariato, inteso con un significato paradigmatico, sia adesso limitato: è necessario stratificarlo ed osservare laddove non trovi un riscontro nelle composizione tecnica. Sicuramente, il concetto non si riferisce alla sola parzialità del lavoro cognitivo, ma vuole affermare la centralità della sfera cognitiva dell’essere umano anche nelle mansioni materiali e ai fini della valorizzazione capitalistica. Tuttavia, per comprendere bene la frammentazione in seno alla classe, non possiamo affidarci ad un’interpretazione esclusiva che lascia da parte le diverse tipologie dello sfruttamento del lavoro contemporaneo o di accumulazione, che poco hanno a che vedere con la conoscenza. Non possiamo dimenticarci di quelle mansioni che richiedono una forza lavoro intesa come mero corpo, dispendio di energia senza mente, riproducendo un dualismo cartesiano del tutto artificiale tra la mente ed il corpo. Un estremo in questo senso è esemplificato dal lavoro schiavistico del bracciantato migrante. Nel merito del lavoro cognitivo in senso stretto, invece, i dispositivi contemporanei di controllo e di disciplinamento della forza-lavoro individualizzano, gerarchizzano, mettono in competizione i soggetti sociali per frammentare e dividere le diverse mansioni dell’attività intellettuale. La qualità ed il livello dei lavori cognitivi sono così diversi tra loro da aver perso il senso di cooperazione e la libertà flessibile di cui godevano. Addirittura, possiamo parlare di ritmi ripetitivi e talvolta toyotisti per alcune mansioni cognitive, del tutto somiglianti alla «bassa manovalanza» dell’operaio dequalificato. Inoltre, non possiamo tralasciare lo sfruttamento dell’uomo sulla natura, che fa dipendere la valorizzazione capitalistica dalle risorse materiali e dalla loro circolazione. Un conto è riconoscere nella riproduzione e nella circolazione il punto di massima valorizzazione, un altro è vedere nella composizione sociale una diffusa intellettualità ad alta formazione.
4b) La riproduzione è uno dei terreni dell’accumulazione, abbiamo detto. Il processo di sussunzione reale continua ad essere fondamentale per la rendita del capitale. Ribadiamo che le nuove tecniche di disciplinamento, anche informatizzato, che ad esempio subiscono i lavoratori nei luoghi dove i rapporti di potere sono più visibili, come la logistica, ci impone di analizzare le nuove dinamiche del profitto. Oltre al profitto e alla rendita, che riconducono l’estrazione di valore al momento del salario, vogliamo fare nostro il concetto di imprinting (Chicchi-Leonardi-Lucarelli), di produzione di soggettività con una postura, un’attitudine, una disposizione e delle aspettative già orientate a sostituire il salario come retribuzione. Di qui i tirocini, gli stage gratuiti, gli investimenti privati con i propri risparmi in borsa, l’accumulazione di voci nel curriculum, le prestazioni lavorative pensate solo per una promessa futura di reddito. E’ il sogno del capitale: fare soldi sul lavoro a costo zero o creare denaro dal denaro. Ed è un sogno realizzato non solo sul lavoro cognitivo, ma su tutta un’ampia fetta della forza-lavoro poco formata o che ha ricevuto un’educazione professionale. La diffusione capillare delle nuove tecnologie e del lavoro clinico che mettono a valore zoé (oltre che il bios) dovrebbe darci la misura di quanto lo sfruttamento vada al di là del salario e della sussunzione delle capacità cognitive.
5. Le “robinsonate” del neoliberalismo. L’individuo isolato come produttore ed imprenditore di se stesso nella giungla mercantile 
5a) L’imprinting ci porta all’ideologia e all’antropologia tipiche del neoliberalismo: l’uomo-impresa. E’ questa forma a caratterizzare perlopiù la composizione sociale del lavoro, al di là delle competenze tecniche che assume nel rapporto di lavoro capitalistico. Tale specifica forma di vita si è ben adattata alle trasformazioni del capitale le quali, in virtù dell’accumulazione, hanno bisogno di un soggetto imprenditoriale su cui ricadano le responsabilità della sua riproduzione.
La dismissione del welfare ci parla proprio di questo: non sono più i compromessi keynesiani a garantire la riproduzione, la cittadinanza inizia a perdere la garanzia dei diritti sociali e a scaricarli sul soggetto; i diritti sociali diventano così salario diretto individuale e non più sociale. L’affidamento al privato (nel senso di individuale) di un diritto di cittadinanza, comunque inseparabile dal lavoro, ci parla di un assoggettamento al di là del salario e di crisi del lavoro a livello concettuale e materiale. Sul lato concettuale possiamo vedere come il lavoro perda l’aspetto di riconoscimento di classe che ha avuto nelle varie fasi dello sviluppo capitalistico e come sia sempre più difficile trovare una dimensione comunitaria nel lavoro stesso.
L’imprinting ci svela un’altra triste realtà: quella dell’auto-sfruttamento, del desiderio verso un godimento possibile soltanto se si raggiungono determinati standard di produttività che eccedono quelli classicamente intesi.
5b) La frammentazione della composizione sociale ci deve far guardare più da vicino le sue qualità tecniche in generale. Ogni singolo è individualizzato perché deve provvedere a sé, e per farlo deve recidere dei legami sociali comunitari vedendo nell’altro un’ostilità, un soggetto contro il quale competere. In questa dinamica il disciplinamento della vita, compatibile con un margine di libertà eteronoma, rafforza ancor di più le identità definendole in antitesi all’altro/a. Questo processo che agisce ex ante della sussunzione compromette fortemente la dimensione cooperativa, di condivisione della composizione tecnica. Anzi, tale dimensione diventa proprio ciò su cui si danno molto spesso gli episodi di free-riding sfruttando la cooperazione stessa. Del resto, sono le nuove impronte manageriali e di organizzazione del lavoro a premiare le mansioni «di squadra» all’interno delle quali non può, ma deve emergere il merito individuale. Tutto ciò succede nelle scuole, nelle università e nei luoghi di co-working, negli studi dei professionisti autonomi, all’interno delle piccole imprese e delle grandi aziende. Ci piace pensare a questa dinamica come ad una delle tre forme di corruzione del comune descritte da Negri-Hardt. Vogliamo però aggiungere un altro tassello con una analisi del concetto di General intellect. La scomposizione dei concetti è un’attività, del resto, fondamentale per non ipostatizzarli, per non considerarli come categorie in sé. Il General intellect è stato definito come pratica della cooperazione cognitiva e messa in comune dei saperi su cui il capitale imporrebbe ex post la sussunzione e l’individualizzazione. In quanto il processo di individualizzazione avviene nel soggetto prima della messa a lavoro del capitale, possiamo davvero parlare di un General intellect cooperativo precedente la sussunzione? Di nuovo, un conto è parlare di questo concetto come cooperazione, un altro è invece parlarne come generalità delle competenze. Siamo d’accordo sul fatto che il capitale abbia bisogno di considerare queste competenze nel loro insieme per produrre valore nei momenti della circolazione e della riproduzione. Per vedere le competenze nel loro insieme l’ontologia della cooperazione deve dunque subire un rapporto pervasivo che non può essere spiegato soltanto con la rendita ex post. Che l’ontologia della cooperazione si sia trasformata in chiave eminentemente capitalistica? Dove stanno, dunque, gli spazi politico-rivoluzionari per una radicale scissione e separazione antagonistica?
6. Il neoliberalismo riproduce i “neofondamentalismi” funzionali al dominio globale
6a) Quanto detto finora non può prescindere dall’eterogeneità e della molteplicità che comunque compongono il lavoro contemporaneo. Ed è proprio l’accentuazione in negativo dell’eterogeneità a generare frammentazione e divisioni. Su questa linea gioca, sulla scia del neoliberalismo ma ancor più di esso, il neofondamentalismo. Chiamiamo neofondamentalismo quel discorso e quella pratica pubblici che sono a) sintomi, e non causa, degli effetti del neoliberalismo; b) in quanto sintomi estremizzano la disciplina che lo stesso neoliberalismo utilizza in questa fase storica rafforzando le identità (in senso restrittivo); c) rendono il neoliberalismo l’unica alternativa possibile; d) utilizzano nuove forme di comunicazione e formano diverse costellazioni politiche rispetto al passato. Il neofondamentalismo prende le mosse dall’egemonia neoliberale in crisi, essendone però funzionale; parallelamente assume i tratti di un movimento di lotta al neoliberalismo con una narrazione retorica di ritorno al glorioso passato (nazionalista e coloniale) come unico modo per riscattare le aspettative disattese del presente. Il connotato di resistenza neofondamentalista è importante perché le non-contemporaneità conservatrici si staccano completamente dal blocco di potere egemonico. Il neofondamentalismo si inserisce tra le maglie dell’individualismo iper-egoico imposto dalle molteplici logiche dello sfruttamento del capitale. Al neofondamentalismo si associano tendenzialmente i ritorni alla sovranità nazionale come conseguenza estrema di una visione identitaria attorno ad un Io pubblico ed etnico. L’uso di tale categoria, improduttiva per il conflitto, non è altro che l’assunzione di uno «spirito di scissione» rovesciato che il neofondamentalismo vuole attuare nei confronti del capitale globale al fine di una velleitaria ripresa della decisione sovrana. Nell’avanzare ciò, il neofondamentalismo crea una scomposizione delle classi intensificando il disciplinamento sociale, costruendo e riproponendo vecchie identità lungo la linea della classe, del genere e della razza. Lo vediamo con il nuovo discorso politico delle destre, che siano laiche o religiose. Le identità stratificano e gerarchizzano i soggetti, difendono vecchi e nuovi privilegi. Non è un caso che le lotte post-coloniali e una ripresa delle lotte femministe e queer stiano avvenendo nel momento in cui si intensificano i domini sulle forme di vita. Le identità subalterne vengono relegate nell’impoverimento relativo, da non intendersi solo materiale ma anche simbolico, per imporre la paura di quello assoluto che può colpire anche i soggetti privilegiati (maschi, bianchi, eterosessuali, benestanti). In un certo senso, viene messa a valore questa sovrastruttura delle immagini delle identità, gioco di specchi rifrangenti, per creare più sfruttamento verso la forza-lavoro complessiva: chi è privilegiato e avrà paura di diventare povero, sarà più docile e seguirà gli assiomi del capitale; chi non ha il privilegio viene marginalizzato ancora di più, fino agli estremi della nuda vita indifferente. Dividi et impera. Gli episodi di violenza sociale contro le subalternità sono ormai un fenomeno in rapida crescita che va anche oltre la violenza istituzionale. Un caos disordinato, delle pieghe che rendono striato lo spazio liscio dell’uniformità tipica moderna le cui specificità sono rese innocue da nuovi dispositivi di comando.
6b) Il neofondamentalismo prende le mosse dalla rivoluzione passiva imposta dal capitale, che ci parla di una ri-articolazione della biopolitica e dell’altra faccia della medaglia, mai assente, ossia la tanatopolitica. Dobbiamo analizzare bene la seconda parte della frase con cui Foucault descrive la biopolitica: «il potere di far vivere o di respingere nella morte». La morte non è solo opposta alla vita, ma diventa parte delle forme di vita imponendo la sua quotidiana presenza nella narrazione dominante, come lo era la Morte Falciatrice nelle incisioni medievali. La progressiva esclusione dai diritti sociali di cittadinanza e dal welfare è un ulteriore effetto della tanatopolitica: non tutti sono meritevoli di implementare la propria vita. Come accade ai migranti, e non solo, chi non corrisponde alle linee del privilegio e viene messo in contrapposizione ai soggetti privilegiati, può essere lasciato alla morte. Un’altra sfaccettatura della guerra ai poveri e della lotta tra poveri che genera il capitale, i cui frutti vengono presi dal neofondamentalismo. La tanatopolitica è giustificata da questa lotta di classe rovesciata che prende avvio all’interno della composizione sociale ed è portata avanti da una parte contro un'altra parte, dal basso verso il basso. Frantz Fanon ben descrive la «piramide dei tirannelli» tipica dei domini coloniali, in cui i colonizzati tendono ad interiorizzare e riprodurre i valori dei colonizzatori. Sono aspetti questi assolutamente visibili in tutto l’“Occidente” capitalistico, dagli USA fino agli Stati europei, all’interno dei quali le stratificazioni popolari vengono private di qualsiasi identità di classe.
7. Il “populismo” come velo di Maya della lotta di classe. 
L’interiorizzazione della lotta di classe rovesciata prende una duplice forma: da una parte si ritorce contro il neoliberalismo identificando nelle oligarchie i responsabili della perdita del privilegio o dell’impoverimento; dall’altra vede nell’altro la minaccia, instaura una relazione xenofoba con l’alterità. Alcune correnti cosiddette populiste giocano su entrambi gli aspetti rifacendosi alla nozione storica di popolo; siano esse di destra o di sinistra, vorrebbero inverare l’artificio giuridico e politico del “popolo”, inseparabile dall’unificazione fittizia e mistificante delle differenze di classe, ovvero dalla neutralizzazione di ogni conflitto. E, soprattutto dalla sua accezione moderna in poi, inseparabile dalla sovranità e dallo Stato. Il soggetto popolare dovrebbe ontologicamente ambire ad occupare la sovranità «dal basso» verticalizzando i suoi bisogni ed i suoi desideri, che in quanto tali sovvertono i rapporti di forza attuali. Per populismo, tuttavia, non possiamo intendere un concetto astratto e uniforme, omogeneo. Da materialisti abbiamo sempre bisogno di cogliere le manifestazioni concrete di un fenomeno. Il populismo non è un blocco unitario ma vive di diverse forme. Considerarlo come un oggetto auto-evidente, che si dà in unico modo, porta anche i movimenti rivoluzionari ad avere degli abbagli analitici. Aspettarsi che in questa fase la soggettività che segue il populismo sia la classe di riferimento male interpreta il concetto stesso di classe. La classe non è immediata, un dato oggettivo in sé. La classe è un divenire che si fa nel movimento, in una dinamica non lineare che interrompe, taglia, esclude alcune disposizioni delle masse, creando azioni costituenti contri i blocchi di potere egemoni, dotandosi nella lotta di una sua coscienza collettiva (per sé). Lenin chiama codismo l’atteggiamento delle organizzazioni politiche che si pensano avanguardia e «amici del popolo», che confidano nello spontaneismo popolare come se fosse portatore in sé di un’istanza di classe rivoluzionaria. Le avanguardie si accoderebbero quindi alla spontaneità delle masse garantendo loro l’organizzazione necessaria al processo rivoluzionario. Ciò che non si comprende, per dirla nuovamente con Gramsci, è che lo «spirito di scissione» non deve soltanto aggredire i blocchi di potere ma deve produrre distacco, distanza dagli elementi dell’ideologia dominante interiorizzati all’interno delle masse stesse. In assenza di una tale disposizione la lotta di classe come processo i trasformazione delle soggettività viene sostituita dall’unica concepibile, che è quella di occupazione della sovranità (non solo in termini istituzionali) e del Politico. 
8. Economismo, spontaneismo, “soggettività rivoluzionaria”: vecchie e nuove questioni.
Un altro abbaglio dei movimenti rivoluzionari è imparentato strettamente con la teoria della spontaneità, pur differenziandosi in parte da questa. La tesi di fondo dell’abbaglio in questione è che la moltitudine abbia in sé gli strumenti ed i mezzi per la sua cooperazione autonoma, separata ed indipendente, la quale, come dicevamo, viene postulata a livello ontologico, che si corrompe soltanto in seguito alla sussunzione reale del capitale. Di qui il mito della volontà generale da raccogliere nella convocazione di uno sciopero generale: è come se, in quanto forza-lavoro, fossimo tutti consapevoli della strutturale cooperazione, nonché dello sfruttamento (e autosfruttamento), e avessimo solo bisogno dell’imaginario giusto che ce lo mostri in maniera evidente. Gramsci critica Sorel proprio su questo punto. Il comunista sardo accusa il sindacalismo rivoluzionario di fare affidamento su una presunta volontà generale, la quale poi dovrebbe indicare da sola la via dell’azione politica sfruttando la convocazione dello sciopero. L’organizzazione politica viene praticata in senso debole, dovendo solo garantire la costruzione dell’immaginario dello sciopero per poi sparire, liquefarsi nella volontà generale senza contaminarla. In un certo senso, l’organizzazione si affida all’arbitrio della volontà generale e non sedimenta, andando avanti solo per eventi sporadici. L’evocazione di un immaginario senza radici reali ritiene che a priori ci siano dei soggetti attratti dalle parole d’ordine del sindacato, quando al contrario quelle stesse parole devono trovare dei corpi trasformati, soggettivati che le facciano vivere. L’organizzazione dovrebbe vivere in questa visione due tempi scissi: quello del consenso separato da quello del conflitto. Il primo punterebbe alla banale estensione numerica del consenso lasciando da parte l’intensità delle lotte, secondo una strategia attendista che puzza di economismo, per dirla sempre con Gramsci. Conflitto e consenso, guerra di posizione e guerra di movimento sono inseparabili. Economismo, del resto, significa affidarsi solo sul dato economico o di entusiasmo per radunare grandi numeri, essendo sicuri del consenso che hanno attorno a sé le questione economiche. L’ossessione per il processo politico che non si condensa mai in momenti di rottura va a braccetto con l’economismo, visto che si rimanda ad un tempo che verrà il conflitto. E’ una forma mentis debole che non ci appartiene né ci è mai appartenuta.
9. Rivoluzione per il comune o barbarie della tanatopolitica: tertium non datur
Rovesciare la lotta di classe rovesciata, costruire una nuova (post)umanità al di fuori della solitudine e dell’individualismo con nuovi legami sociali, praticare il comune. Questi i punti astratti del nostro programma politico che devono essere sostanziati, nel corso di quest’anno e oltre, dai contenuti e dai riscontri della realtà. La rivoluzione senza un nuovo rinascimento che soggettivizza le singolarità in senso comunitario, cooperativo, di eguaglianza sociale e libertà sostanziale, di autodeterminazione, non è possibile. E’ necessario adattare un rinascimento dell’umanità alle nuove esigenze, desideri e bisogni della composizione sociale, capendo dove si debba dare una rottura, una cesura con quanto di poco virtuoso ci sia nella composizione stessa. E questo bisogna farlo con il conflitto, che solo può spostare in avanti le griglie interpretative del consenso. Certo, l’arduo compito non è solo responsabilità delle strutture politiche: la fortuna gioca sempre il suo ruolo in questo caso. Ma sappiamo che per poter cogliere l’occasione dobbiamo armarci preventivamente di virtù attraverso l’organizzazione. Non vogliamo dare facili soluzioni all’eterno problema dell’organizzazione: è una ricerca che va portata avanti con serietà. Ma se omnis determinatio est negatio, sappiamo bene che dobbiamo partire da ciò che non ci convince e che abbiamo detto più sopra per poi avvicinarci ad una teoria valida.
Ci piace pensare che un altro adagio si aggiunga al concetto di fortuna: quello per cui essa arrida solo gli audaci. Niente manie spontaneiste per noi: ci riferiamo al fatto che con determinazione, anche con il rischio di fare degli errori, si debba provare a far fare alla storia un salto in avanti. Del resto, il marxismo eretico (dalla Scuola di Francoforte a Benjamin, da Bloch all’operaismo, da Althusser a Deleuze e Foucault) ci insegna che la storia non procede linearmente, che non possiamo prevederla a partire dalla fenomenologia delle masse. L’unico modo per farla andare avanti è realizzare l’inattuale, irrompere con una novità: una cosa che solo il conflitto può fare. Il conflitto, oltre alla creazione di consenso, è quel valore aggiunto che deve essere immesso dalle strutture politiche per trasformare la composizione, distanziarla dall’ideologia dominante, compromettere i rapporti di potere e praticare allo stesso tempo i germi dell’alternativa – dal basso e a sinistra. Non abbiamo paura di usare la parola «sinistra», cosa ben distinta dalla Sinistra istituzionale. Solo chi specula guardando al cielo non si accorge del pozzo, che sta lì in basso, in cui la Sinistra è caduta da tempo, con molte delle sue forme europee, e che la sua condizione è frutto di una lunga eutanasia. Il fatto che la Sinistra sia irrevocabilmente in crisi non ci porta, tuttavia, all’indistinzione tra atteggiamenti di «destra» e di «sinistra» dal punto di vista sociale. Qui sta il punto della questione e ciò che ci interessa: debellare gli atteggiamenti di destra che si insinuano nella società, anche per responsabilità dei partiti di Sinistra e di Destra, e promuovere pratiche virtuose che uniscono e abbattono ogni privilegio. Consapevoli del fatto che il conflitto può certamente ottenere delle vittorie anche adesso, all’interno di questo paradigma politico, ma che deve sapersi innovare, nelle pratiche, per essere incisivo sul lungo termine. La riflessione attorno ad un’altra istituzionalità comune, moltitudinaria, territoriale e confederata, va sempre tenuta in considerazione per non perdere di vista il problema del potere e della sua gestione. La liberazione dalle maglie della governance finanziaria è simultanea al superamento della forma-Stato attuale, che si confà alla prima e che corrisponde ad un esercizio autoritario del potere. La prospettiva in questo senso non può che essere europea e guardare alla costruzione di una confederazione tra autonomie oltre i confini geograficamente e nazionalmente stabiliti. Così vediamo il comune: eguaglianza e libertà di decidere per i molti e le molte. Il General intellect diventa quindi un progetto rivoluzionario, un obiettivo delle lotte, che si pone di praticare mutualismo e cooperazione al di là degli egoismi individuali e dell’organizzazione imposta dal capitale. 
La rivoluzione, certamente un processo e mai un evento unico, si deve dotare dell’immaginazione politica di nuove istituzioni se vuole effettivamente raggiungere una più equa distribuzione della ricchezza, distruggendo gli interessi di classe che abitano le istituzioni contemporanee, e per superare la stasi della dialettica capitale-lavoro. Il capitale ha ridotto drasticamente gli spazi della mediazione, tanto da interferire con la capacità di portare a nuovo sviluppo il capitale stesso attraverso le lotte. Nuovo sviluppo, adesso, significa maggiore disciplinamento, dominio e rapporti di potere pervasivi ai fini dell’accumulazione. La polverizzazione della società civile, anche in termini di peso dell’opinione pubblica, ci indica proprio questo. Soltanto un orizzonte rivoluzionario di riscrittura delle istituzioni e della cooperazione ci può consegnare una eventuale emancipazione dalle pratiche e della forme del fare politica, prima utili, che adesso raramente raggiungono gli obiettivi politici. Al di là degli sforzi di un’organizzazione forte e capillare, questo può essere fatto solo uscendo fuori di sé, nella contaminazione con la moltitudine di soggetti subalterni e sfruttati; contaminazione che dobbiamo essere anche noi in grado di fare nei confronti di questi soggetti. Per soggetti non intendiamo soltanto altre strutture politiche o sindacali (ricordiamoci bene che fine hanno fatto le velleità di coalizione sociale), ma la composizione viva preda della voracità vampiresca del capitale e dell’arroganza dei domini contemporanei. 
La coalizione non può essere separata dalla trasformazione vicendevole dei suoi termini: operare nel campo della vita per riscoprire una biopolitica rivoluzionaria contro il biopotere è essenziale per due motivi. In primo luogo perché vuol dire dare nuovo significato ai legami sociali, ristabilire la cooperazione e produrre un’altra umanità trasformando intensivamente le relazioni. In secondo luogo, rimettere al centro la biopolitica è direttamente funzionale alla crisi, al sabotaggio della «nuova catena di montaggio della rete». Se l’imprinting e la soggettivazione nella subalternità avvengono a causa delle posture, disposizioni, addomesticamenti del soggetto su di sé e sono diretta produzione di valore, soltanto soggettivando altre posture e disposizioni si potrà inceppare l’estrazione di valore per la ricchezza di pochi. 
Tempi bui si vedono dalle finestre delle nostre comunità. Già da un po’ hanno allungato la loro tenebra sopra di noi. Ora più che mai non è possibile far finta di non vedere nella storia presente una drastica scelta: quella tra la catastrofe o la salvezza. Il problema, come ben ci dice Benjamin descrivendo l’Angelus Novus di Klee, è che se stiamo fermi veniamo necessariamente dirottati dagli eventi verso la catastrofe. L’impegno e l’organizzazione per la salvezza sono l’unica alternativa che ci rimane.

Fonte: globalproject.info

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