di Stefano Barbieri
Matteo Renzi ed il suo governo, quello precedente e quello attuale, hanno raggiunto il risultato del famoso 40 %. Solo che non si tratta di consenso elettorale come l’ex premier immagina, ma del dato reale del tasso di disoccupazione tra i giovani dai 15 ai 24 anni rilevato alla fine del mese di dicembre 2016 dall’ ISTAT. Anche in questo caso, come nelle analisi che precedentemente sono state fatte nel corso dell’anno, impietosamente l’Italia si schianta anche nel raffronto con il resto dell’Europa che si attesta, nella stessa categoria anagrafica, attorno al 20-21%.
Le cose non migliorano nemmeno sul totale della popolazione che inchioda al 12% il tasso rilevato, di quasi tre punti percentuali più alto della solita media europea, attestata al 9.6% ed in calo rispetto alle rilevazioni precedenti.
Ancora: il tasso di occupazione italiano e fermo da tempo al 53.7%, tra gli ultimi nella classifica dei paesi europei.
L’aumento congiunturale dell’anno appena trascorso, nell’ultimo mese cresce di meno di un migliaio di unità, concentrate pressoché tutte in contratti a termine (aumento di 46.000) mentre è stabile l’occupazione a tempo indeterminato (+ 6.000 unità) e crolla il lavoro autonomo (52.000 posti in meno).
Insomma, come si era già rilevato, l’unico aumento occupazionale “vero” nell’intero anno 2016 è quello del lavoro precario. Infatti i contratti a termine crescono del 6.6% a fronte di una crescita degli stabilizzati pari allo 0.8%, il tutto, non va mai dimenticato, dentro ad un quadro normativo della riforma del lavoro che consentiva uno sgravio retributivo considerevole, seppur ridotto rispetto all’anno precedente, regalato alle aziende per la nuova occupazione.
Appare quindi sempre più nitido e riconfermato ad ogni verifica, sia questa fatta da ISTAT, INPS o altro, il fallimento totale delle politiche del lavoro racchiuse nel famigerato Job Act promosso dal governo Renzi e sostanzialmente mai messe in discussione.
Tra breve però, dopo la bella vittoria al referendum costituzionale di dicembre, sarà possibile provare a scardinare se non l’impianto, almeno un passaggio non solo simbolico, ma di fondo, della controriforma del lavoro, con il referendum promosso dalla CGIL ed approvato, per 2/3, dalla Corte Costituzionale.
Il verdetto sui referendum sociali ha giudicato ammissibili i quesiti riguardanti l’abrogazione dell’istituto dei voucher e l’introduzione della clausola di responsabilità negli appalti per le imprese.
Ha invece bocciato il quesito sul ripristino dell’articolo 18 e su questo cito testualmente l’intervento del giuslavorista Luigi Mariucci : “Nel 2003 la Corte costituzionale ha ritenuto ammissibile un referendum che azzerava la soglia di applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, a seguito del quale la reintegrazione in caso di licenziamento ingiustificato si sarebbe applicata a ogni unità produttiva comprese quelle con un solo dipendente (sentenza n.41/2003). Oggi invece la stessa Corte dichiara inammissibile un referendum che, a seguito di varie abrogazioni parziali, avrebbe conservato la soglia dei 5 dipendenti, ora prevista per le imprese agricole. Se ne deduce che se la Cgil avesse proposto un quesito referendario massimalista, con abrogazione totale della soglia, forse la Corte non avrebbe potuto discostarsi da quanto deciso nel 2003. Si tratta di un singolare paradosso, inspiegabile sul piano logico-giuridico. Infatti l’effetto manipolativo dei referendum che propongono abrogazioni parziali è da sempre scontato. Basti pensare ai referendum elettorali o agli stessi referendum in materia sociale, come quello che si svolse nel 1995 in tema di rappresentanze sindacali aziendali che comportò un radicale cambiamento dell’art.19 dello Statuto dei lavoratori. Non sta dunque nell’effetto “manipolativo” la questione di fondo. La ragione sostanziale va cercata altrove. Infatti nel referendum del 2003, che avrebbe esteso a tutte le imprese a prescindere dalle dimensioni la tutela dell’art.18, il quorum non fu raggiunto. Questa volta invece, dopo la straordinaria partecipazione al referendum costituzionale del 4 dicembre, forse il quorum si raggiungeva. Si sarebbe comunque aperta nel paese una grande e salutare discussione sulla natura e sulla funzione delle politiche del lavoro: abbassare le tutele, ridurre i diritti di chi lavora serve davvero a incrementare occupazione e competitività? Si è persa purtroppo l’occasione.
Sul piano logico-giuridico la sentenza della Corte costituzionale è fortemente discutibile. Sul piano politico, non della politica contingente ma di quella regola di fondo costituita dal “Salus Reipublicae suprema lex”, vale a dire dalla salvaguardia dei valori costituzionali di fondo di cui la Corte costituzionale dovrebbe costituire un imprescindibile presidio, si può dire che questa sentenza è semplicemente sbagliata. Impedire ai cittadini di pronunciarsi nel merito di singole questioni cruciali, come quella delle politiche del lavoro, salvo poi alzare vani allarmi sulla crescita dell’astensionismo elettorale e sulla abissale distanza tra politica e cittadini, consiste in un puro atto di autolesionismo. Così si alimentano i populismi, invece che cercare di contrastarli con risposte razionali.”
Credo non ci sia altro da aggiungere : aver dichiarato inammissibile il quesito che avrebbe, quello si, smantellato nei cardini principali il JOBS ACT, è sicuramente un pessimo segnale, che non va sottovalutato ancor più in un Paese che, come da Costituzione, si dichiara fondato sul lavoro (senza art. 18 io ti licenzio, non ti devo neanche spiegare perché, ti do una buona uscita di qualche euro e tu vai a casa; è chiaro a tutti che funziona così?), ma sbaglieremmo a pensare che i quesiti confermati abbiano meno importanza e che non si possa costruire una campagna in Italia che, proprio dalla stagione referendaria, apra una grande discussione, soprattutto a sinistra, sul tema fondamentale dell’occupazione e dell’idea del lavoro, sia dal punto di vista elettorale che politico e culturale.
Innanzitutto perché, nel merito, i voucher rappresentano la forma più alta, oggi, dello sfruttamento legalizzato dei lavoratori, l’anticamera di una nuova sorta di schiavizzazione del lavoro e della precarizzazione definitiva della società contemporanea. Dal 2008, anno in cui sono stati creati, ad oggi i voucher hanno avuto una crescita straordinaria. Oltre 145 milioni ne sono stati venduti nel 2016, con un aumento del 26,3% sul 2015. Una percentuale che diventa esponenziale (+27.000%) se si raffrontano i buoni-lavoro venduti nel 2008, 535.985, e quelli nel 2016 (esattamente 145.367.954, dati Uil).
Per questo, il voucher non è modificabile, ma va abolito ed il lavoro occasionale va regolamentato da contratti a termine di brevissima durata, che già sono esistenti e praticati, riconoscendo almeno così i diritti minimi, senza scorciatoie per imprenditori che devono investire o privati che scaricano il proprio impoverimento su chi si trova in una condizione economica peggiore, evitando così anche le operazioni antisindacali che le cronache hanno riportato nei mesi scorsi quando, per esempio, i lavoratori in sciopero delle grandi catene commerciali sono stati sostituiti da lavoratori “voucherizzati” o le aperture straordinarie pagate a voucher dei centri commerciali come il Carrefour e altri.
Anche il quesito referendario sugli appalti è tutt’altro che ininfluente nella normativa generale del lavoro. In questo caso si richiede invece l’abrogazione di parte dell’art. 29 della Legge Biagi. A seguito di varie modifiche, l’ultima della legge Fornero, la versione attuale della norma ammette la deroga alla responsabilità solidale del committente da parte della contrattazione nazionale e, sul piano processuale, costringe i lavoratori che vogliono agire in giudizio a chiamare in causa sia il proprio datore di lavoro (appaltatore) sia il committente (e i sub-committenti). Una volta iniziato il giudizio, inoltre, la legge consente al committente di eccepire il cosiddetto beneficio di preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore (e di tutti gli eventuali subappaltatori): questo significa che il lavoratore, dopo aver vinto la causa e ottenuto una sentenza di condanna, deve prima tentare di recuperare il proprio credito nei confronti del datore di lavoro e dei subappaltatori (normalmente meno solventi) e solo dopo può agire verso il committente.
Con il referendum si chiede anzitutto l’abrogazione di quella parte dell’art. 29, 2° comma che ne consente la derogabilità, ripristinando quindi il principio di una responsabilità solidale inderogabile e piena da parte del committente e cioè del soggetto che sceglie l’appaltatore, da un lato, e che beneficia della prestazione lavorativa dei dipendenti, dall’altro. Inoltre, si chiede di abrogare quella parte della norma relativa all’obbligo per il lavoratore di chiamare in causa anche il datore di lavoro e i subappaltatori e alla facoltà per il committente di eccepire il beneficio di preventiva escussione. Quest’ultima è una modifica che riguarda il processo, molto rilevante in tema di effettività delle tutele e dei diritti dei lavoratori: la vittoria del referendum consentirebbe ai lavoratori di recuperare i propri crediti direttamente e velocemente dal committente, senza dover chiamare in causa tutta la “filiera” dell’appalto. Credo non sfugga a nessuno che, nella giungla selvaggia degli appalti e sub appalti ove spesso trovano collocazione parti tra le più deboli dei lavoratori, a partire dagli immigrati, il ripristino della responsabilità solidale fa fare un passo avanti al livello di civiltà di quel pezzo di mondo del lavoro.
Mi pare chiaro quindi il valore sostanziale della prossima battaglia referendaria: seppur monca di un punto di forza quale quello dell’art. 18, il raggiungimento del quorum e la possibile vittoria dei due SI rappresentano uno spartiacque fondamentale per il futuro del mondo del lavoro, perché come sostiene la ricercatrice Marta Fana, una delle più attente e preparate studiose del mondo del lavoro, “…il referendum sull’abolizione dei voucher e sugli appalti è l’occasione per ricompattare socialmente e politicamente quella fetta di società nata senza o spogliata dei suoi diritti sociali. Quella classe, si sarebbe detto un tempo, che ha tutta la necessità di riconoscersi e prendere coscienza di sé. In questo senso, i referendum non sono che l’inizio (potenzialmente) di un processo politico molto più profondo.”
Ritengo inevitabile che questo processo politico passi attraverso una riflessione profonda ed un confronto serio, a sinistra e non solo, che metta al centro della discussione alcune grandi questioni che forse sottovalutiamo o che, in alcuni casi, chiamiamo impropriamente in modo sbagliato rispetto al loro reale significato: come affrontiamo le questioni (le, sottolineo le, perché sono diverse tra di loro) reddito di cittadinanza, reddito minimo garantito, salario minimo garantito, lavoro minimo garantito, riduzione dell’orario di lavoro? Cosa pensiamo del cosiddetto welfare aziendale, entrato prepotentemente nella contrattazione nazionale sul rinnovo di alcune categorie a partire dai metalmeccanici e dal pubblico impiego? Come si tiene insieme il tutto dentro la prospettiva che, entro dieci anni, la robotizzazione dei processi produttivi stravolgerà i modelli di produzione rispetto a quelli che abbiamo conosciuto nella storia fordista e post fordista di tutto il ‘900?
Vinciamo il referendum e poi confrontiamoci su questo a tutto a campo; io continuo a pensare che la classe lavoratrice, il mondo del lavoro salariato, sia “classe generale” per la trasformazione avanzata della società, ma perché sia così i comunisti, la sinistra, il sindacato devono ragionare sul nuovo mondo nel terzo millennio.
Fonte: Marx21.it
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