La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 11 febbraio 2017

Le rivolte di un mondo senza direzione

di Giulio Azzolini
Nella primavera di dieci anni fa non servivano sismografi troppo sofisticati per avvertire come fosse sul punto di sgretolarsi, non solo in Europa, la base di fiducia su cui si erano retti fino ad allora i sistemi politici nazionali. Poco prima che lo scoppio della bolla dei mutui subprime gettasse nel panico, con la borsa di Wall Street, l’economia mondiale, stava montando un insostenibile clima di risentimento nei confronti della classe politica – sintagma curiosamente rispolverato nell’accezione di minoranza chiusa e organizzata, conferitagli per primo, alla fine dell’Ottocento, dallo scienziato politico siciliano Gaetano Mosca.
In Italia seppero percepire e amplificare il malumore Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, pubblicando il 2 maggio 2007 La casta[1], un’inchiesta destinata a diventare rapidamente best-seller. I due giornalisti del «Corriere della Sera» ebbero il merito di portare all’attenzione collettiva sprechi e privilegi dei partiti, ma il significato del libro finì presto per eccedere i suoi effettivi contenuti. E non è un caso che poco più di un mese dopo, il 14 giugno, il comico Beppe Grillo lanciasse l’idea del Vaffanculo Day (o V-Day), una giornata di protesta contro la casta. Oggi si sarebbe parlato di populismo, ma lì per lì venne estratta dal cassetto l’etichetta dell’anti-politica. Quale che fosse il nome appropriato per definirlo, il fenomeno non era solo italiano e, tenute presenti le ovvie differenze, contagiò gran parte del Vecchio continente.
Nell’estate dello stesso 2007 Peter Oborne, al tempo editorialista del britannico «Daily Mail», proclamava senza esitazioni il «trionfo della classe politica»[2]. E fu in opposizione a tale trionfo che nell’agosto del 2011 centinaia di ragazzi (chiamati spregiativamente «chavs»[3], ossia ‘burini’, ‘tamarri’, ‘cafoni’) misero a ferro e fuoco le periferie inglesi con la più imponente serie di tumulti nella storia recente d’Oltremanica. Ma l’insofferenza della gente comune non era rivolta solo contro la classe politica, bensì contro tutti i settori dell’«establishment»[4]. E così il 23 giugno 2016, in occasione del referendum indetto dal governo su pressione del partito indipendentista di Nigel Farage, il Regno Unito votò al 51,9% per l’abbandono dell’Unione europea, costringendo ad “andarsene” anche l’establishment metropolitano da cui i più si sentivano defraudati.
E «Ci hanno rubato il futuro!» era lo slogan all’insegna del quale cinque anni prima, il 15 maggio 2011, le strade delle principali città spagnole erano state prese d’assalto da folle sterminate. Erano gli indignados, esasperati dall’inasprirsi della recessione e delusi dall’inconcludente alternanza di governo tra Partito popolare e Partito socialista. Quella fiamma, nel 2014, avrebbe acceso Podemos, un movimento che, dopo un anno appena, avrebbe raccolto oltre 5 milioni di voti alle elezioni politiche. E ad ascoltare il suo leader, Pablo Iglesias Turrión, la chiave di quel successo consisteva proprio nella lotta alla «casta», quella «parte fondamentale della classe politica che prende le decisioni», quella «minoranza che, sfruttando le proprie condizioni di privilegio, governa contro gli interessi della maggioranza»[5].
Interessi calpestati, nello stesso periodo, in una Grecia martoriata prima dalla corruzione interna e poi dai tagli brutali della Troika. Alle elezioni europee del 25 maggio 2014 Syriza, la coalizione della sinistra radicale, raccolse il 26% dei voti: un’enormità in confronto al 3,3% ottenuto alle politiche di dieci anni prima; tutto sommato poco rispetto al 36,3% dell’anno successivo, che valse il governo della nazione. Era il 25 gennaio 2015 quando Alexis Tsipras, segretario e anima di Syriza, saliva sul palco di Atene e urlava: «È stata sconfitta la Grecia degli oligarchi. Ridiamo dignità al popolo». Tsipras avrebbe ingaggiato presto un durissimo braccio di ferro con l’Unione europea, ma pur di scongiurare il pericolo Grexit finì per cedere alle feroci condizioni imposte dai “falchi” di Bruxelles e di Berlino.
Europeisti critici in Grecia, nazionalisti incalliti in Francia. Il 6 dicembre 2015, dopo il primo turno delle elezioni regionali, il Front National era in testa in sei regioni su tredici. Al secondo turno avrebbero vinto repubblicani e socialisti, ma se una fazione di estrema destra era divenuta il primo partito d’Oltralpe non si doveva semplicemente al malgoverno repubblicano prima e socialista poi, né alla paura del terrorismo islamista dopo le stragi del 13 novembre a Parigi. E intervistata alla radio sulle ragioni del suo exploit, Marine Le Pen parlava come Tsipras, come Iglesias, come Farage, come Grillo. «Il Front National», diceva, «rappresenta la rivolta del popolo contro le élites». E poi: «i cittadini non sopportano più il disprezzo di una classe politica che per anni ha difeso i suoi interessi e non quelli del popolo».
Parole analoghe, nell’agosto 2015, le scriveva Robert Reich: «il più grande fenomeno politico nell’America di oggi», ammoniva l’economista democratico, «è una rivolta contro la classe dirigente»[6]. E col senno di poi non aveva tutti i torti. La sera dell’8 novembre 2016, infatti, quando la maggioranza dell’opinione pubblica mondiale aspettava l’elezione alla Casa Bianca della prima donna presidente nella storia degli Stati Uniti, le urne provvedevano a bocciare l’ex first lady, l’ex finalista alle primarie del Partito democratico, l’ex segretario di Stato. I sondaggi avevano ampiamente avvertito che nessun settore della cosiddetta classe dirigente, percepita come vera e propria classe dominante, era immune al discredito e difficilmente avrebbe potuto risultarlo una delle sue maggiori protagoniste.
Ora, al netto dei contesti e degli interpreti, diversi e talora contrapposti, le affermazioni riportate sin qui sembrano figurare l’ultimo capitolo della «ribellione delle masse»[7] denunciata nel 1930 da José Ortega y Gasset. Esauste, ma tutt’altro che docili e rassegnate, le masse sarebbero tornate a osteggiare ogni potere costituito. Tuttavia non è più il tempo di Ortega. All’inizio del terzo millennio il sapere è accessibile a tutti, le classi hanno contorni sbiaditi, come le ideologie, la democrazia si espande e affievolisce allo stesso tempo, e gli individui reclamano il rispetto dei diritti acquisiti. Ma soprattutto il malcontento delle masse non dipende più dalla repressione di un orizzonte politico radicalmente nuovo, dalla resistenza verso l’ascesa di un soggetto emancipativo e potenzialmente rivoluzionario. A sgomentare, oggi, è in primo luogo il timore di una regressione, economica e non solo. Perché sono a repentaglio la conservazione delle conquiste sociali e civili ereditate dalle generazioni precedenti, e la ragionevole attesa di vedere eseguita, come promesso, la propria volontà politica.
La rabbia contemporanea non scommette sull’irresistibile avvento di un’altra società, ma nemmeno agogna la restaurazione di «un mondo che, al contrario del mondo borghese, possiede profondamente la realtà, ossia un vero amore per la tradizione», perché non testimonia l’ostilità di Pier Paolo Pasolini «contro l’irrealtà del mondo borghese e la sua conseguente irresponsabilità storica»[8]. Il rancore dei nostri giorni è prima di tutto quello di chi rifiuta di essere espulso dal sistema capitalistico entro cui è cresciuto o quello di chi, trovandosi fuori, è disposto a tutto pur di entrare a farne parte. È una collera integrata o invidiosa, comunque reattiva.
È la passione di un Occidente ormai privo dell’idea di rivoluzione, incapace di nostalgia, nonché vuoto di utopie[9]. Perché oggi tutti si sentono come condannati a un destino comune e spaesante. Governanti e governati, due parti stordite da uno stesso straniante turbamento. E Slavoj Žižek ha ragione quando afferma che «nell’Europa odierna i ciechi guidano i ciechi», ma anche quando precisa che sono specialmente «gli esperti a non avere idea di ciò che stanno combinando»[10].
Ebbene, l’ipotesi che ispira le pagine del libro è che allo spaesamento collettivo[11] concorra non poco la confusione delle parole riguardanti il potere, i suoi detentori, i suoi interpreti. Colpisce infatti che le espressioni ‘casta’, ‘classe politica’, ‘establishment’, ‘oligarchia’, ‘élite’, ‘classe dirigente’, ‘classe dominante’ – accomunate dal rinvio ai ‘poteri forti’ – vengano utilizzate in modo equivalente. Si potrebbe replicare che il linguaggio veicolato dai mezzi di comunicazione di massa non coincide con quello rigoroso dell’accademia e che sarebbe assurdo pretendere che nella sfera pubblica ogni capello sia spaccato in quattro: vano e ingenuo lamentarsi, perché le parole della città non sono mai state e mai saranno conformi a quelle della scienza o della filosofia. Non vi sarebbe nulla da eccepire a questa obiezione, non fosse che la stessa accademia non va troppo per il sottile quando si tratta di nominare il potere e spesso usa indistintamente, tra gli altri, i lemmi in questione. Uno dei propositi del libro, dunque, consisterà nel chiarire come e perché debbano essere valorizzate le differenze tra le espressioni sopra ricordate.
Ma a che cosa giova indugiare sul significato delle parole? Sarebbe quanto mai ingenuo credere che basti a determinare un ritrovamento di sé, il superamento dell’opprimente disorientamento in cui viviamo. Il saggio intende piuttosto aprire gli occhi sull’attuale smarrimento politico, tratteggiarlo, coglierne i motivi di fondo. E addentrarsi nella complessa storicità dei processi in corso non può che tradursi in un invito alla prudenza, a tenersi alla larga dallo snobismo di chi è perennemente pronto a scoprirsi sorpreso, dalla faciloneria di chi promette palingenesi e dal patetismo di chi spera che il futuro ripristini il passato.
Sarà cruciale riflettere sui modi attraverso i quali l’età globale ha inciso e séguita a incidere su quello che Raymond Aron chiamava «il fatto oligarchico»[12], la regolarità per la quale ogni società, anche se governata in maniera formalmente democratica, è sempre e inevitabilmente scissa tra una minoranza di comando e una maggioranza subordinata. Per ‘oligarchia’ non intenderemo quindi, secondo le accezioni prevalenti nel mondo classico, né una forma politica degenerata[13] né il governo dei ricchi[14], bensì, etimologicamente, il comando di pochi. Tale significato descrittivo, per il quale l’oligarchia designa semplicemente il puro fatto che il potere supremo viene esercitato da un ristretto gruppo di persone, si è imposto sul finire del diciannovesimo secolo insieme alla prospettiva generalmente (e genericamente) detta elitista. Ed è proprio questa prospettiva che qui si tratterà di rivisitare, perché, pur tornando attuale in una fase di delegittimazione delle democrazie occidentali, patisce ancor oggi un’insufficiente collaborazione tra teoria, scienza e sociologia della politica. In particolare, la ricerca muoverà dall’individuazione di tre lacune della letteratura scientifica.
La prima carenza concerne la riflessione sulle nozioni portanti della teoria elitista, che la filosofia politica novecentesca ha per lo più trascurato, delegandone l’uso e, quel che è peggio, lo studio alla scienza politica e alla sociologia. È indicativo il fatto che sia nel mainstream delle teorie normative, da John Rawls a Jürgen Habermas, sia nelle diverse declinazioni della teoria critica, da Michel Foucault a Toni Negri, il dibattito elitista sia stato o direttamente rigettato come un detrito del pensiero vetero-positivista oppure liquidato in modo sbrigativo.
La seconda mancanza riguarda il concetto di globalizzazione, che di rado è stato esaminato in tutta la sua pregnanza filosofica e più spesso, invece, è stato accolto in modo acritico per come descritto dall’economia politica e dalla sociologia. Le eccezioni esistono, ma nel complesso alla globalizzazione non è stato riconosciuto il rilievo filosofico che le pertiene.
Il terzo difetto, infine, consiste nel fatto che la teoria delle élites, tanto nei suoi padri fondatori quanto nei suoi interpreti contemporanei, appare viziata da quello che Ulrich Beck ha chiamato «nazionalismo metodologico»[15]. E se questa tara era comprensibile nei classici Mosca, Michels e Pareto, è assai meno ammissibile oggi.
Questo libro rileggerà il problema oligarchico in una prospettiva ovviamente parziale, legata all’adozione di un registro teorico-politico e alla sostanziale delimitazione dell’analisi agli ambiti economici e politici. E se la stratificazione di alcuni tra i processi esaminati rimarrà in ombra, sarà innanzitutto per conferire maggiore coerenza logica e migliore capacità esplicativa all’indagine. Così, sullo sfondo di una globalizzazione che, risalendo al suo modello sferico, appare come epoca postmoderna, mostrerò come e perché sia finito il tempo delle classi dirigenti. A non essere concluso, invece, è il tempo delle oligarchie, che sul versante privato hanno assunto la forma dominante dei gruppi di interesse, mentre sul versante pubblico sono chiamate a reagire allo strapotere di capi e tecnici, riscoprendo il valore democratico delle élites politiche.

Con “Dopo le classi dirigenti. La metamorfosi delle oligarchie nell’età globale” (in libreria dal 2 febbraio per i Sagittari di Laterza, Roma-Bari 2017), Giulio Azzolini rielabora criticamente i concetti fondamentali della tradizione cosiddetta ‘elitista’ alla luce di una lettura originale della logica immanente ai processi di globalizzazione. Per gentile concessione della casa editrice, che ringraziamo, pubblichiamo questo testo che è l’Introduzione al volume.

NOTE

[1] S. Rizzo, G.A. Stella, La casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili, Rizzoli, Milano 2007.

[2] P. Oborne, The Triumph of the Political Class, Simon & Schuster, London 2007. Per la traduzione dei testi stranieri ho tenuto conto, ove possibile, delle edizioni italiane.

[3] O. Jones, Chavs: The Demonization of the Working Class, Verso, London 2011.

[4] Id., The Establishment. And How They Get Away With It, Penguin, London 2014.

[5] Intervistato il 1° giugno 2014 da Ana Pastor nella trasmissione televisiva spagnola El Objetivo.


[7] J. Ortega y Gasset, La rebelión de las masas (1930), Alianza, Madrid 1986.

[8] P.P. Pasolini, La rabbia (1963), a cura di R. Chiesi, Cineteca di Bologna, Bologna 2009, p. 7.

[9] M. Cacciari, P. Prodi, Occidente senza utopie, il Mulino, Bologna 2016. Ma si veda anche P. Prodi, Il tramonto della rivoluzione, il Mulino, Bologna 2015.

[10] S. Žižek, Trouble in Paradise. From the End of History to the End of Capitalism (2014), Penguin, Brooklyn-London 2015, p. 40.

[11] Dalla diagnosi dello «spaesamento del presente» muove Geminello Preterossi nel suo Ciò che resta della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2015, p. XIII.

[12] R. Aron, Les désillusions du progrès. Essais sur la dialectique de la modernité (1969), in Id., Penser la liberté, penser la démocratie, a cura di N. Baverez, Gallimard, Paris 2005, pp. 1469-1781: 1530-1531.

[13] Se per l’Aristotele della Politica (Bur, Milano 2003, p. 259 [1279a-b]) l’oligarchia è la forma degenerata dell’aristocrazia, per il Platone della Repubblica (vol. II, Bur, Milano 1996, pp. 289-296 [550c-555c]) la decadenza dalla kallipolis aristocratica all’oligarchia è mediata da un’altra forma degenerata digoverno, la timocrazia, ossia il “governo dell’onore”.

[14] Cfr. Platone, La Repubblica, cit., p. 289 (550d); Aristotele, Politica, cit., pp. 261-263 (1279b-1280a), 331 (1290b). Jeffrey A. Winters ha tentato di riabilitare il senso plutocratico del termine ‘oligarchia’ nel suo Oligarchy (Cambridge University Press, New York 2011), un’opera tanto ambiziosa quanto discutibile, che ha il torto di presentare in modo stilizzato e sostanzialmente monolitico le dottrine elitiste (nonché, peraltro, le teorie democratiche), senza badare alla decisiva diversità tra le loro molteplici articolazioni concettuali.

[15] Cfr. U. Beck, Cosmopolitan Vision, Polity, Cambridge 2006, in particolare pp. 24-33. Per una discussione critica, si rimanda a D. Chernilo, Social Theory’sMethodological Nationalism. Myth and Reality, in «European Journal of SocialTheory», vol. 9, 2006, n. 1, pp. 5-22.

Fonte: MicroMega online - Il Rasoio di Occam

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