di Luca Gaddi
Il crollo del Muro di Berlino ha spesso, nel mondo giornalistico ma anche accademico (si pensi al vituperato lavoro di Francis Fukuyama La Fine della Storia), portato diversi di coloro che si interessavano di relazioni internazionali e di studi strategici a parlare di inizio del “Secolo Americano”, inteso come il vero inizio di un’egemonia militare ed economica degli Stati Uniti d’America, rimasti unica superpotenza su scala globale dopo l’implosione dell’Unione Sovietica.
Se queste ipotesi avessero trovato un posto nella realtà noi oggi vivremmo in un mondo dove la democrazia liberale e l’apertura commerciale verrebbero abbracciate in ogni singolo angolo della Terra, regolate e garantite da un ipotetico superpotere americano che dà forma e regole ad un ordine mondiale liberale dove il concetto stesso di ordine internazionale vestfaliano (Stati intesi come attori volti alla massimizzazione del proprio interesse in sicurezza e benessere) diverrebbe sempre più obsoleto col passare dei decenni.
Se queste ipotesi avessero trovato un posto nella realtà noi oggi vivremmo in un mondo dove la democrazia liberale e l’apertura commerciale verrebbero abbracciate in ogni singolo angolo della Terra, regolate e garantite da un ipotetico superpotere americano che dà forma e regole ad un ordine mondiale liberale dove il concetto stesso di ordine internazionale vestfaliano (Stati intesi come attori volti alla massimizzazione del proprio interesse in sicurezza e benessere) diverrebbe sempre più obsoleto col passare dei decenni.
Eppure, non è andata così.
Le ragioni per la quale non si può affermare che le tesi più ottimiste sul futuro delle relazioni internazionali si siano dunque realizzate sono abbastanza evidenti. Oggi, si ripropongono fenomeni su scala mondiale già visti meno di un secolo fa. Crescita di consenso nei contesti nazionali verso populismi (perlopiù collocabili sull’asse ideologico verso posizioni di estrema destra), crescente popolarità di modelli economici protezionisti, un rafforzato sentimento di xenofobia (forse la più grande sfida all’integrità stessa dell’Unione Europea) e, nondimeno, la crescita di attori-Stato capaci di porre in discussione l’egemonia (perlomeno economica) americana, e che in un futuro non troppo lontano potrebbero inoltre porre in discussione il ruolo americano di “poliziotti dell’ordine mondiale”. Nelle parole di Mark Twain, “La storia non si ripete mai, ma spesso può far rima”.
La ragione principale di questo articolo è evidenziare come, sebbene gli Stati Uniti siano ancora caratterizzati da una superiorità militare e strategica rispetto a qualsiasi altra potenza mondiale (rimanendo quindi l’unica superpotenza militare), potrebbero presto cessare di essere la superpotenza economica che sono stati sin dagli anni Sessanta, venendo dunque rimpiazzati da un’emergente nuova superpotenza economica, la Cina (Repubblica Popolare Cinese).
Sarà proprio il Dragone a sostituire il Cowboy come principale potenza economica del mondo nel XXI secolo? Tale condizione porterà alla creazione di un nuovo ordine internazionale?
Chiunque, nel campo delle relazioni internazionali e degli studi strategici, vorrebbe avere risposte pronte a un così spinoso e attuale interrogativo. Non avendole, chi si interessa di tali questioni può tuttavia elaborare previsioni che siano quanto più basate su fatti concreti, e dunque, sui processi di shift of power che stanno prendendo piede in questo momento storico. Chi volesse abbracciare ipotesi apocalittiche e sempre più mainstream nel ben nutrito cerchio degli scenari sul “tramonto occidentale” potrebbe sostenere che la Cina sia già una potenza tale da poter sfidare apertamente gli Stati Uniti, scatenando un novellistico conflitto mondiale da cui uscirebbe vincitrice. Altri invece potrebbero ignorare qualsiasi rischio di anacronismo, e sostenere che gli Stati Uniti non solo non stiano attraversando una cruciale fase di declino, ma che a prescindere dall’ascesa di altri fondamentali attori sulla scena internazionale, essi continueranno a essere i principali fornitori di “beni pubblici” internazionali, quali la sicurezza militare e un mercato libero dove guadagnare tramite l’esportazione di beni e servizi.
Tuttavia un osservatore attento della contemporaneità non può porre fiducia in tesi di questo tipo, per quanto affascinanti. Se si osserva la realtà con analisi e sguardo critico, si nota come il XXI secolo sia un momento storico che si apre con una sua specifica complessità, che si ricollega ai processi storici del secolo scorso, ma che con sé porta anche nuove caratteristiche e nuovi scenari. Dunque, che cosa possiamo osservare oggi nel rapporto fra i due (o due dei principali) giganti del sistema internazionale? Un conflitto è inevitabilmente alle porte, come nelle tesi del professor Mearsheimer, o possiamo aspettarci una reciproca collaborazione per i decenni a venire, pur improntata sul perseguimento degli interessi nazionali?
Obbiettivi militari e frizioni fra Cina e Stati Uniti nel Pacifico
Se si vuole portare avanti un’analisi ordinata, ritengo sia importante incominciare dalla componente militare/strategica delle relazioni fra i due attori. Se analizziamo i rapporti tra USA-Cina in una più semplice dimensione bilaterale, troviamo come coesistano componenti molto positive della relazione, assieme ad altre che potrebbero invece essere causa scatenante di tensioni seriamente destabilizzanti per l’ordine internazionale. Sia USA che Repubblica Popolare Cinese, che ha preso il posto della Repubblica di Cina (meglio nota come Taiwan), sono membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e in quanto tali sono sostanzialmente membri alla pari su qualunque questione riguardi la sicurezza mondiale, in quanto godono entrambi di potere di veto su ogni questione fondamentale. Sono inoltre entrambi membri del Trattato di Non Proliferazione Nucleare, status che dovrebbe quantomeno assicurare per gli Stati firmatari, e nel caso specifico di USA e Cina pare effettivamente assicurare, il non sviluppo di ulteriori programmi nucleari a fini bellici tra le potenze ratificanti il trattato.
Già è stato sottolineato l’enorme peso militare degli Stati Uniti nel sistema internazionale, la cui spesa militare da sola costituisce il 48% delle spese militari mondiali e la cui sofisticatezza degli armamenti conferisce al paese un primato strategico mondiale tuttora impareggiabile. Tuttavia è importante sottolineare come negli ultimi dieci anni la Cina abbia esponenzialmente aumentato le sue spese militari, specie nel campo della marina militare, al fine di raggiungere specifici successi strategici nel teatro del Pacifico. Ma che cosa c’è in gioco nel Pacifico?
I principali articoli scientifici pubblicati per analizzare la strategia cinese nel Pacifico, strategia che inevitabilmente crea frizioni con gli Stati Uniti, individuano quattro contesti specifici dove la Cina starebbe applicando strategie che uniscono claims territoriali (quindi rivendicazioni su aree che le autorità di Pechino considerano come territori su cui sarebbe legittimo esercitare la sovranità cinese) a una forte presenza militare della marina militare cinese (tramite esercitazioni navali o creazioni di avamposti civili/militari). Queste quattro aree sono il vasto arcipelago delle Spratly Islands (conteso con le Filippine, e, solo per alcune entità, con Malesia e Brunei), l’arcipelago delle Paracels Islands (storicamente conteso col Vietnam), le isole Diayou/Senkaku (contese col Giappone) e, ultima ma decisamente rilevante, Taiwan, territorio storicamente noto per essere motivo di frizione con gli Stati Uniti.
È percezione comune, tra diversi analisti della strategia militare cinese, che col tempo la questione di Taiwan si sia “calmata” rispetto ai tempi della Guerra Fredda (forse grazie anche all’enorme mole del commercio e dei guadagni tra Repubblica Popolare Cinese e Taiwan), mentre invece si sia scaldata sempre di più la contesa sulle Spratly Islands con le Filippine, storico alleato americano nel Pacifico che tuttavia ha saputo ben poco contenere l’espansione cinese nell’area. La Cina, infatti, bersagliando alcune entità dell’arcipelago filippino, ha realizzato in brevissimo tempo vere e proprie roccaforti civili/militari nel cuore del Mar Cinese Meridionale, il cui caso più eclatante è probabilmente rappresentato dalla Fiery Cross Reef (isola quasi disabitata divenuta, nel giro di un anno, avamposto militare cinese con pista d’atterraggio e bacino di carenaggio).
I recentissimi avvenimenti in seno alla politica americana e filippina sembrano aver comunque invertito i trend delle relazioni diplomatiche con la Cina per ambo i paesi, difatti gli sforzi di Obama di una sempre maggiore cooperazione con il rivale (o partner?) d’oltreoceano appaiono rapidamente cancellati dall’amministrazione Trump, che sin dalla sua campagna elettorale ha utilizzato toni chiaramente ostili nei confronti di Pechino, e ha già ribadito proprio nei suoi recenti contatti coi vertici di Taipei come non si useranno mezze misure nelle ripercussioni commerciali contro la Cina, in caso Pechino continui a perseguire la strategia di manipolazione della valuta cinese. Dalla parte filippina invece, la leadership di Rodrigo Duterte pare positivamente indirizzata a relazioni di apertura e cooperazione con Pechino, che potrebbero realisticamente far pensare anche ad un prossimo “disinteresse” filippino su alcune rivendicazioni territoriali nelle Spratly Islands per cui solo nell’estate del 2016 (pochissimo tempo prima dell’insediamento dell’attuale presidente) le Filippine avevano vinto il ricorso alla Corte d’Arbitrato Internazionale dell’Aia contro la Cina riguardo la contesa sui suddetti territori.
Mantenendo comunque il focus sulla dimensione militare delle relazioni sino-americane non si può comunque ignorare la possibilità che la Cina, nonostante i recenti successi della tattica salami-slicing applicata nel Mar Cinese Meridionale, possa nei prossimi anni mettere in atto una politica estera e militare più aggressiva, nel caso in cui percepisca negativamente la sua condizione di, come viene definito in geopolitica, Einkreisung, ossia un accerchiamento del proprio territorio da parte di basi militari non alleate.
Nello stato di cose attuale, magari tale condizione di accerchiamento può apparire esagerata (difatti, per ovvi motivi non ci sono basi americane nella Federazione Russa, e nemmeno in Mongolia), tuttavia non risulta difficile constatare il perché la Cina possa sentirsi infastidita militarmente dagli USA, in quanto basi militari e punti di appoggio strategico per il personale americano sono attivi in Corea del Sud, Giappone, Filippine, Guam, e nello Stretto di Malacca. Se il vastissimo territorio della Repubblica Popolare Cinese non è accerchiato, di sicuro risulterà comunque molto difficile per le autorità di Pechino implementare una strategia di espansione nel Pacifico, “sfondando” l’area di influenza americana (o, perlomeno al momento, non è una strategia fattibile). Nel lungo termine, tale condizione potrebbe risultare particolarmente “fastidiosa”, specie se in netto contrasto con le ambizioni cinesi in politica estera e militare.
Interdipendenza e guerra commerciale, un rapporto complesso
Importante è anche la dimensione economica, o preferibilmente geoeconomica, dei rapporti tra le due potenze. Gli anni Ottanta, a livello storico, sanciscono forse un punto cruciale, una svolta in campo economico, nelle relazioni fra USA e Cina. L’ascesa al potere di Deng Xiaoping ha portato, all’atto pratico, all’apertura del più grande mercato del mondo e all’entrata in gioco di imprese che sarebbero divenute presto estremamente competitive, con effetti di rapidissimo incremento del benessere mondiale, dando tuttavia origine anche a processi che sarebbero stati causa di gravi tensioni sociali in Occidente, le cui conseguenze sono ben visibili oggi nella delocalizzazione di stabilimenti industriali dai paesi del G7 verso la Cina, con inevitabile danno economico dei lavoratori americani, europei e canadesi meno specializzati. La Cina di Xiaoping ha stravolto in meno di dieci anni i frutti della rivoluzione culturale voluta da Mao Tse Tung, trasformando uno dei due colossi del comunismo in quello che oggi è a buon titolo uno dei due colossi del capitalismo, con gran parte delle più autorevoli istituzioni economiche internazionali che prevedono un superamento del PIL americano da parte di quello cinese entro il 2050, e con diversi autori e accademici che utilizzano l’azzeccata metafora di “fabbrica del mondo” nel descrivere la Repubblica Popolare Cinese dal punto di vista economico.
La sempre maggiore industrializzazione cinese, l’attrazione costante di investimenti dall’estero in settori produttivi a basso valore aggiunto (ma comunque tra loro diversificati), la quasi ininterrotta crescita del PIL negli ultimi vent’anni (tuttavia recentemente rallentata) e il bassissimo costo della forza lavoro cinese (perlomeno nella maggior parte delle aree del paese) ha portato la Cina a realizzare un vero sistema di capitalismo semi-avanzato a gestione statale, le cui enormi ricchezze saranno con tutta probabilità sempre maggiormente indirizzate ad un accrescimento della forza militare, ma che al momento vengono anche impiegate in un’intelligente strategia di controllo e detenzione del debito pubblico americano, tramite il continuo acquisto di bond del Tesoro USA.
Secondo Martin Jacques, noto studioso del successo cinese nel XXI secolo, questa pratica, se perseguita da un attore-Stato va oltre la mera speculazione finanziaria quale pratica per perseguire profitto. Il possesso cinese di una parte importante del debito pubblico americano è fenomeno che va interpretato come una strategia innovativa al fine di esercitare influenza diretta sulle decisioni in campo internazionale (ma anche domestico) degli Stati Uniti, una forma di controllo e persuasione che prescinde dai classici “cannoni puntati”, ma che non per questo è meno efficace. Tale condizione rende la Cina, sempre nelle parole di Martin Jacques, il banchiere de facto degli USA, e la pone in una posizione di discreto vantaggio strategico in campo economico-finanziario rispetto al rivale americano, pur non risultando ancora la principale economia del mondo (il PIL americano rimane comunque superiore).
Le recenti accuse dell’amministrazione Trump alla leadership cinese trovano argomenti nelle strategie di manipolazione della valuta e nella concorrenza scorretta perseguita da imprese cinesi, a diretto danno delle controparti americane. Tali accuse vengono poi seguite da minacce di ritorsioni economiche made in USA che potrebbero seriamente rischiare di degenerare in un cupo scenario di economic warfare, un contesto di guerra commerciale in cui, a una prima analisi, pare evidente che la Cina abbia tutti gli strumenti per combattere con discreto successo.
Trump-Jingping: verso quale direzione?
“Rottamare e tornare a crescere”, sarebbe stato un altrettanto valido slogan elettorale per il tycoon, un buon sostituto di Make America great again. Senz’altro perché è ciò che sta venendo fatto, se si pensa alla “rottamazione” di buona parte dell’operato della precedente amministrazione Obama.
Le prospettive in relazione al rapporto che gli Stati Uniti di Donald Trump si avviano ad avere con la Repubblica Popolare Cinese infatti si profilano grigie, al momento. Le accuse in materia geoeconomica e finanziaria al momento dipingono, come già scritto, un possibile futuro di gravi tensioni tra i due top player dell’economia globale. L’incontro nel 2011 tra gli allora leader Barack Obama e Hu Jintao aveva difatti dato alcune speranze di stretta collaborazione fra USA e Cina sulle più cruciali issue dell’agenda internazionale. Allo stato attuale di cose non pare delinearsi all’orizzonte nessun incontro diretto tra i leader Trump e Jingping, che potrebbe avere quantomeno una forte impatto simbolico nelle reciproche relazioni.
Il cambio di leadership avvenuto negli ultimi anni sia alla Casa Bianca sia al vertice del Partito Comunista Cinese cambia inevitabilmente molto di ciò che è sul tavolo, il neoeletto presidente americano sta però giocando un ruolo molto più attivo e cruciale rispetto al “collega” cinese. Il tycoon difatti sta continuando l’opera di rottamazione dell’operato del suo predecessore, ritirando gli USA dallo strategico accordo della Trans Pacific Partnership. Quello che poteva essere uno strumento di mantenimento della supremazia e dell’influenza geoeconomica americana sul Pacifico anche in funzione “anti-cinese” (quest’ultimo aspetto è spesso stato ignorato da quanti hanno analizzato le ricadute pratiche dell’accordo transpacifico) è stato smantellato al fine di mantenere fede al commitment elettorale prevalentemente protezionista che Trump aveva preso. Nei prossimi mesi ci si potrà dunque aspettare accordi commerciali separati con i singoli Stati membri del TPP, e gravi ritorsioni tariffarie contro coloro che non vorranno aderire alla nuova politica commerciale americana (fatto che Pechino potrebbe sfruttare strategicamente per consolidare la sua influenza e leadership economica sugli stessi attori facenti parte del TPP, in caso non apprezzassero il voltafaccia americano).
Se la logica imprenditoriale del guadagno è l’unica logica che il presidente Trump persegue, allora il presidente americano sta applicando tale logica anche alla sua “diplomazia commerciale”. I bruschi toni riservati alla Cina difatti sono stati placati nelle ore del suo faccia a faccia con il numero uno dell’e-commerce cinese, Jack Ma, imprenditore miliardario e CEO del colosso di internet Alibaba.com (principale concorrente di Amazon). La proposta del miliardario di Hangzhou è di portare investimenti per un milione di posti di lavoro negli Stati Uniti. Il profumo del denaro sarà sufficiente a placare i toni e le minacce di guerra commerciale del presidente americano?
Le tensioni sino-americane sui claims territoriali nel Mar Cinese Meridionale escono dalla sfera meramente economica dei rapporti tra le due potenze, eppure rimangono una delle più spinose questioni in gioco. Difatti, il confronto telefonico diretto tra Donald Trump e la presidentessa di Taiwan Tsai Ing Wen è stata accolta bruscamente dal leader cinese Xi Jingping, e in generale dalla Cina tutta, che dal ’79 ha visto un miglioramento dei suoi rapporti con gli Stati Uniti proprio grazie ad un’accettazione americana (anche se precaria) della One-China policy. Inoltre, il consigliere strategico del tycoon, Stephen Bannon, non ha mai utilizzato mezzi termini sulla questione delle Paracels e delle Spratly Islands nel Mar Cinese Meridionale, per le quali già l’anno scorso dichiarò apertamente che sarebbero state il casus belli per cui gli USA sarebbero scesi in campo contro la Cina. Quelle che all’epoca potevano essere le esaltate opinioni di un accanito sostenitore di Trump alla corsa presidenziale oggi vengono ribadite, assumendo tuttavia una connotazione molto più preoccupante, specie se recepite da Pechino.
Conclusioni
In conclusione, qualunque sia lo sviluppo delle tensioni sino-americane in ambito economico si può star certi che lì si vedranno gli sviluppi di quella che può considerarsi una transizione di potere nel panorama economico globale, nell’auspicio che ciò non degeneri poi in un conflitto combattuto non con più con le armi della finanza, ma con quelle dei rispettivi complessi industriali-militari. Ciò dipende anzitutto e soprattutto dalla lungimiranza e dalla capacità politica dei leader di ambo le parti, indubbiamente sia Donald Trump che Xi Jingping verranno influenzati nelle loro decisioni da molti fattori, in base alla combinazione di questi fattori l’output delle relazioni tra il Cowboy e il Dragone nei prossimi quattro anni potrebbe essere sia un rapporto di do ut des che incrementerebbe la stabilizzazione nell’inquieto scenario del Pacifico, o, in un’ipotesi meno ottimista, un grave inasprimento delle tensioni (anche di carattere militare) che porterebbe la Cina a continuare un incremento del suo sviluppo militare, la cui minaccia sarebbe anzitutto percepita maggiormente dagli storici alleati USA nel Pacifico occidentale (Giappone in primis).
Non è dunque ancora chiara quale sarà la conclusione di questo storico momento per le relazioni sino-americane, quello che è invece certo, è che nei prossimi anni il Cowboy e il Dragone persisteranno a guardarsi affacciandosi alle rispettive sponde del Pacifico, ma al momento sono abbastanza evidenti le ragioni per cui il loro sguardo reciproco potrebbe farsi più minaccioso.
Riferimenti bibliografici
F. Rampini, Il secolo cinese, Mondadori, Milano 2005.
F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992.
J. J. Mearsheimer, The tragedy of great power politics, Norton & Company, 2001.
M. Jacques, When China rules the world, Penguin Books, 2009.
Fonte: pandorarivista.it
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