di Marcelo Expósito
Parlare di cultura in Europa oggi non è facile. Soprattutto se col termine “cultura” ci riferiamo alle politiche culturali delle istituzioni nazionali e sovranazionali europee. Penso che il momento sia particolarmente delicato per due ragioni in particolare. Primo, perché da diversi anni assistiamo a un lento cambio di orientamento nel discorso dell’amministrazione culturale in Europa. La seconda ragione ha invece a che vedere con la generale situazione di crisi in cui versa l’Europa, i cui legami con il ruolo della cultura nelle nostre società non sono sempre evidenti nel dibattito pubblico.
Il protagonismo che per molto tempo è stato paradigmatico dell’industria culturale sembrerebbe volgere al fine. Per nostra fortuna, oggi è difficile parlare di industrializzazione della creatività senza che questo sia accompagnato da riflessioni sul come la cultura può contribuire alla stabilità sociale, all’integrazione del continente o alla definizione di un nuovo tipo di diplomazia europea. Anche la ridefinizione della cultura come bene comune di tutta la cittadinanza rappresenta un importante passo in avanti.
Non è un cambiamento da poco, tenendo conto che le politiche di promozione dell’industriale culturale sono state lo strumento attraverso il quale si è diffuso a livello internazionale, nel corso degli ultimi trent’anni, una politica volta a facilitare lo sviluppo di quella che Richard Florida chiama la «classe creativa». Una curiosa sorta di “classe” sociale, la cui funzione sarebbe in ultima analisi quella di contribuire con le proprie pratiche culturali competitive ai processi di rigenerazione urbana. Il che, per dirla nella maniera più cruda possibile, altro non è che la gentrificazione e la speculazione immobiliare su larga scala. Il fatto che il modello delle politiche culturali volte a promuovere le industrie creative prese forma negli anni ‘90, negli anni più duri dell’egemonia neoliberale e della conversione delle città in “marchi” da far competere sul mercato globale, non è un caso.
Teorici come Angela McRobbie o George Yúdice hanno analizzato nel dettaglio come l’industrializzazione della creatività ha contribuito alla deindustrializzazione delle periferie e alla devastazione commerciale dei centri urbani, e ha condannato i figli e le figlie delle classi medie a una vita di precarietà lavorativa ed esistenziale contraddittoriamente vissuta in una bolla di euforia. È questa bolla – della promessa di mobilità sociale e di accesso al benessere attraverso l’istruzione superiore, l’acquisizione di competenze creative e la capacità di innovare – che è scoppiata con l’onda d’urto delle politiche di austerità.
Questo cambio di paradigma, per quanto positiva, mi pare comunque insufficiente. Per questo è necessario ragionare sull’impotenza degli attuali dibattiti sulla cultura. E vorrei farlo a partire da una semplice domanda: quali sono le ragioni di questo cambio di paradigma? È possibile promuovere un reale cambiamento delle cultura e delle politiche culturali in Europa senza capire prima qual è la ragione per la quale ci sentiamo obbligati ad aprire una nuova fase?
Nel momento in cui riflettiamo sulla crisi dei paradigmi che hanno finora dominato le politiche culturali europee, possiamo permetterci di ignorare il fatto che ci troviamo in uno stato generale di crisi? La condizione critica dell’Europa soggiace oggi a qualunque dibattito sul nostro futuro, inclusi i dibattiti sulla cultura. Ma non è sempre un fatto evidente. E tuttavia non è possibile analizzare nel dettaglio il ruolo della cultura nel futuro dell’Europa senza affrontare alcuni problemi di carattere politiche e persino filosofico sul rapporto più ampio tra lo stato dubbioso della cultura, l’instabilità della costruzione europea, il disgregamento dei nostri sistemi democratici e le ragioni della nostra attuale crisi sistemica e di civiltà.
In un saggio del 1936, Walter Benjamin spiega come i soldati che tornarono a casa dai fronti della prima guerra mondiale erano ammutoliti, incapaci di esprimere quello che avevano vissuto. Il confronto diretto con la morte e con la distruzione di massa produsse uno shock collettivo di tale portata da bloccare ogni capacità di espressione. Benjamin pensava che questo shock emotivo marcasse un punto di svolta storico nella nostra capacità di mettere in relazione l’esperienza personale con la costruzione di una narrazione collettiva, poiché rendeva impossibile la riproduzione della figura tradizionale del narratore. Se si blocca la capacità espressiva degli esseri umani, viene meno la possibilità di mettere le cose in relazione, di produrre fenomeni artistici e di trasmettere esperienze sotto forma culturale.
Dopo la seconda guerra mondiale e l’esperienza dei campi di concentramento, T.W. Adorno si chiese se potesse ancora esistere la poesia dopo Auschwitz. Egli non si soffermava tanto, come aveva fatto Benjamin, sulle condizioni soggettive necessarie per plasmare un’espressione creativa dopo l’Olocausto. Il problema politico che tormentava Adorno era se, dopo quel cataclisma, potevamo ancora permetterci la produzione di una lirica europea, come se la produzione industriale dell’omicidio di massa non fosse mai avvenuta. E non perché quel collasso morale costituisse un’eccezione storica, ma, al contrario, proprio perché aveva fatto emergere il lato oscuro della modernità europea.
Penso che siano questioni che continuano ad essere rilevanti ancora oggi, con tutte le differenze del caso. È possibile continuare a parlare di politiche culturali dopo la violenza scatenata dalla gestione neoliberale della crisi nei confronti delle maggioranze sociali europee? Senza affrontare la complicità tra i paradigmi dominanti nelle politiche delle istituzioni culturali e il sistema finanziario che è entrato in crisi? Ignorando che il cambiamento nel linguaggio amministrativo intorno alla cultura è causato proprio dal crollo dell’egemonia neoliberale, di cui hanno fatto le spese principalmente i popoli del Sud Europa? Non possiamo continuare a nasconderci che le politiche culturali degli ultimi decenni sono state strettamente legate al predominio del capitalismo finanziario globale e alla centralità della speculazione edilizia nello sviluppo delle economie locali. L’enorme crescita delle strutture museali; l’espansione delle biennali sull’arte contemporanea; i fiumi di soldi investiti nelle imprese culturali, che hanno determinato l’ipertrofia delle “classi creative” che ora subiscono la crisi di un modello di sviluppo che loro stessi hanno alimentato: se vogliamo veramente avanzare verso un nuovo paradigma delle politiche culturali europee, dobbiamo mettere in evidenza il rapporto autoalimentante che esiste tra il mondo della cultura e il neoliberismo che ha provocato la crisi che ora investe anche il mondo della cultura stesso.
Specificare cosa sia la “cultura” non è facile. Propongo di prendere in esame i suoi tre componenti principali. Possiamo dire che la cultura sono i comportamenti, gli atteggiamenti e i valori o le forme estetiche – in senso lato – attraverso le quali una società si esprime. Possiamo considerare cultura anche la tradizione delle pratiche riconosciute da alcune istituzioni. È per questo che parliamo della storia della letteratura, della musica o dell’arte: perché vi sono istituzioni che sanciscono nel tempo, con criteri mutevoli, ciò che una società riconosce come beni culturali. Il termine “cultura” si riferisce anche alle politiche e regole – scritte o non scritte – che ordinano il funzionamento amministrativo, professionale o economico di un campo specializzato.
Se crediamo davvero che le politiche culturali debbano essere guidate da principi quali la salvaguardia dei beni comuni e l’integrazione politica, la sostenibilità sociale e la giustizia globale, allora ciò che serve è una rivoluzione culturale che contribuisca in senso più generale a invertire la violenza della crisi vissuta dalle maggioranze sociali in Europa. Le politiche culturali da sole non possono risolvere una crisi che è stata causata da un neoliberismo al quale esse sono state legate a doppio filo per decenni. Questa rivoluzione sarà possibile solo se affrontiamo le tre dimensioni che ho descritto poc’anzi in maniera interdipendente. Dobbiamo, simultaneamente, promuovere nuovi valori condivisi contro la culturale neoliberale che frammenta e individualizza la società; recuperare criticamente la nostra storia creativa, a partire dalle storie della nostra tradizione che possono illuminare la via dell’emancipazione futura; e promuovere politiche culturali orientante non solo al miglioramento dei settori specializzati, ma anche alla responsabilizzazione di tutta la collettività in stato di shock.
Come evidenziato dalle riflessioni di Benjamin e di Adorno che ho menzionato in precedenza, le turbolenze storiche sono sempre state accompagnate da una crisi d’identità della cultura europea. Se si debba ripensare la cultura quando il mondo viene scosso è stata una domanda ricorrente nella storia dell’Europa. Ed è una domanda che oggi dobbiamo tornare a porci, per ovvi motivi: che senso ha parlare di cultura, quando intorno a noi l’economia, le istituzioni e i sistemi di valore si sgretolano e la gente soffre ma al contempo si organizza per rispondere al disastro causate dalle élite? La cultura merita di far parte delle politiche di riscatto e dei programmi di emergenza per superare la crisi? La cultura può essere uno strumento per le maggioranze sociali che affrontano la crisi delle istituzioni politiche?
Per trovare una possibile risposta a queste domande, soffermiamoci per un momento alla figura di Friedrich Schiller mentre scrive al lume di candela in una notte del 1793. Nella sua residenza di Jena, Schiller si preoccupa per il suono lontano delle contraddizioni che affliggono la rivoluzione francese, mentre cerca di concentrarsi sulla scrittura di una lettera al suo patrono, il principe Friedrich Christian II von Holstein-Sonderburg Schleswig-Augustenburg. In questa lettera si chiede appunto: «Non è forse estemporaneo preoccuparsi delle necessità del mondo estetico, quando il mondo politico è scosso da problemi così vicini a noi?».
Schiller offre una risposta a questa domanda nel suo Callia – o Lettere sull’educazione estetica dell’uomo – dove scrive che «per rispondere a un problema politico bisogna ricorrere all’estetica, perché è attraverso la bellezza che si arriva alla libertà». L’idea che cultura possa essere il banco di prova su cui trovare soluzioni alla complessità sociale e mettere in luce i problemi della politica, proprio quando la realtà intorno a noi si agita, è stato uno dei principi guida del ruolo della cultura nella formazione della modernità europea. Nell’immaginario della modernità, la funzione educativa della cultura rappresenta una dinamica centrale nella formazione della cittadinanza. Questa concezione emancipatrice è una matrice ambivalente, presente sia nell’uso della cultura da parte di alcune politiche statali per l’affermazione di un’identità nazionale e nella concezione della cultura come sfera autonoma da cui pensare il mondo da una certa distanza, sia nel suo opposto, ossia nell’idea che l’arte e la cultura siano strumenti pratici da usare nella costruzione di una coscienza di classe combattiva.
Molte cose sono cambiate da allora, ovviamente. Negli ultimi anni abbiamo visto – soprattutto nel Sud Europa – il risultato terrificante della corrispondenza con il nuovo principe Trichet-Draghi-Merkel von Troika. Ma è ancora necessario riprendere questa concezione radicata non solo su ciò che è il ruolo della cultura, ma anche su quale sia la sua legittimità in tempi di crisi. Il ricorso delle istituzioni a un linguaggio progressista quale rimedio alla crisi del paradigma dell’industriale culturale e creativa si ispira proprio a questo immaginario. E questo forte legame tra cultura ed istruzione nella costruzione di una cittadinanza emancipata è una delle componenti più potenti della tradizione illuminista europea.
Date le dimensioni e le ragioni della crisi attuale, però, la cultura non può essere recuperata solo come una mera risorsa per la ricomposizione formale di istituzioni politiche ancora “catturate” dalle élite. Proprio perché una rivoluzione culturale si propone di mettere in discussione il controllo elitario delle istituzioni ed è anzi obbligata a trasformare le istituzioni stesse.
Per riassumere la mia posizione: credo che la cultura debba contribuire a una via d’uscita dalla crisi con più democrazia, emancipando le maggioranze sociali affinché si riscattino e trasformino le istituzioni politiche sequestrate dalle élite. Mi permetto infine di fare un esempio pratico. Se la cultura può di nuovo essere un luogo da cui partire per pensare criticamente lo stato delle cose, le politiche culturali dovrebbero seguire modelli come l’imponente mostra Un sapere realmente utile, celebrata tra il 2014 e il 2015 presso il Museo Reina Sofia di Madrid.
Le sue curatrici, il gruppo di donne croate WHW, hanno concepito un piano di lavoro articolato tra istituzione museografica e alcune pratiche artistiche sviluppate precariamente all’aperto. Il progetto andava dai film di Abbas Kiarostami e Jean-Marie Straub all’arte collaborativa dei collettivi Iconoclasistas o Chto Delat?, passando per esperienze storiche di arte militante come quella di Emory Douglas, ministro della cultura delle Pantere Nere. E lì, in quella diversità guidata dallo stesso principio di pedagogia radicale finalizzata all’emancipazione cittadina, che si possono trovare esempi da seguire per un cambiamento profondo delle politiche culturali delle amministrazioni europee in stato di crisi.
Intervento tenuto nella sessione su “Diplomazia cultura dell’UE” all’interno dell’incontro “How Can We Govern Europe?”, organizzato da Eunews il 18 novembre 2016 a Roma.
Traduzione di Thomas Fazi
Fonte: Eunews Oneuro
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