di Gaetano De Monte
Ogni giorno si hanno notizie di esecuzioni sommarie e torture. Stupri e uccisioni nelle carceri avvengono su base quotidiana. Le condizioni dei rifugiati in Libia sono paragonabili a quelle dei campi di concentramento. È quanto si legge in un rapporto redatto dall’ambasciata tedesca in Niger diffuso attraverso una fuga di notizie rimbalzata dal quotidiano conservatore Die Welt, alla vigilia del vertice informale del 3 febbraio tra i ventotto paesi appartenenti all’Unione Europea. Informazioni che sono suonate quasi come un avvertimento (per i leader) ad intraprendere un percorso più incisivo per controllare le migrazioni dalla Libia, in particolare, lungo la rotta euro mediterranea centrale.
In effetti è così che è andata. L’incisività non è di certo mancata. A leggere la Dichiarazione di Malta sottoscritta venerdì scorso - al termine del summit - dai Capi di Stato e di Governo dell’Unione, se ne traggono le prime conferme. Garantire un controllo efficace delle nostre frontiere esterne e ridurre in modo significativo i flussi di arrivi illegali nell’Unione Europea sono i nuovi capisaldi della politica europea in materia migratoria, principi a cui nella Dichiarazione scarna si fa abbondante riferimento.
Le nostre azioni saranno svolte nel pieno rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale, e in collaborazione con UNHCR e l’organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), aveva spiegato la ministra degli esteri dell’Unione - Mrs P.e.s.c - l’italiana Federica Mogherini, in una nota congiunta siglata insieme al presidente del Consiglio, il polacco Donald Tusk, e della Commissione, Jean Claude Junker, alla vigilia del #Maltasummit. Nei giorni precedenti circolavano già due bozze dell’accordo, il cui contenuto sarà poi quasi totalmente inserito nella Dichiarazione finale. In questo senso, anticipare il piano - nell’intenzione dell’Ue - serviva per tastare l’opinione pubblica, forse, e le opposizioni parlamentari, soprattutto quella italiana. Infatti, la sostanza dell’accordo tra i 28 stati, come è ormai noto, riguarda il Memorandum d'intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all'immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere siglato il 2 febbraio a Roma tra il presidente del Consiglio italiano, Paolo Gentiloni e il suo omologo del governo di riconciliazione nazionale della Libia, Fayez Al-Sarraj. Testo in cui si afferma la “determinazione a cooperare per individuare soluzioni urgenti alla questione dei migranti clandestini che attraversano la Libia per recarsi in Europa via mare” si legge ancora nell’atto d’intesa diplomatico: “attraverso la predisposizione dei campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico, in attesa del rimpatrio o del rientro volontario nei paesi di origine”. Ed è così, dunque, che il governo italiano rinnova con la Libia l’intesa che già c’era stata tra Berlusconi e Gheddafi nel 2008. Lavorando al tempo stesso affinché i paesi di origine accettino i propri cittadini, ovvero “sottoscrivendo con questi paesi accordi in merito”; tanto si legge nel memorandum, in cui si sottolinea l'importanza del controllo e della sicurezza dei confini libici, terrestri e marittimi.
Soldi in cambio di respingimenti. Per fare tutto ciò le parti si impegnano a cooperare. È in particolare l’Italia, che attraverso i finanziamenti europei del Trust Fund for Africa, dovrà fornire sostegno e finanziamento a “programmi di crescita nelle regioni colpite dal fenomeno dell'immigrazione illegale, in settori quali le energie rinnovabili, le infrastrutture, la sanità, i trasporti”. Non solo. Perché il nucleo del memorandum di Roma dice anche che la parte contraente italiana si impegna a fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l'immigrazione clandestina. In sostanza, a dotare di nuovi pattugliatori la guardia costiera di Tripoli e di altri mezzi e know-how militari le forze armate libiche. Che dunque la sostanza dell’accordo italo-libico sia la formazione di personale e altre “necessità” militari in cambio della rassicurazione del Governo Serraj di sbarrare il Mediterraneo centrale ai barconi di migranti, questo è più che mai palese. Va in questo senso, già, l’accordo firmato il 30 gennaio di quest’anno tra i comandanti: Enrico Credendino dell’operazione Eunavformed (la missione navale nata nel 2015 in funzione di contrasto ai trafficanti di essere umani davanti alla coste libiche) e il Capo di Stato maggiore della Guardia di Finanza italiana, il generale Giuseppe Zafarana. Una intesa “tecnica” tra le forze marittime dell’Ue e la finanza italiana per “formare” la marina libica, “al fine di migliorare la capacità di eseguire le attività di ricerca e soccorso per salvare vite umane nelle acque territoriali libiche, per migliorare la sicurezza nelle acque territoriali libiche”. In pratica, in base al protocollo siglato lunedì scorso, la Guardia di Finanza “si allenerà” - a bordo di motovedette italiane in acque internazionali, insieme al personale della Marina e della Guardia Costiera libica - alla caccia a contrabbandieri e migranti. È questa l’evoluzione, l’ultima fase dell’operazione Sophia nata nell’ambito della missione navale europea Eunavfor Med per il contrasto ai trafficanti di essere umani, il cui termine è stato prorogato fino al 31 luglio 2017.
Già nel giugno scorso, nella sede del comando della forza europea, all’ex aeroporto di Centocelle si erano accordati lo stesso Credendino e Abdalh Toumia, comandante della guardia costiera libica, ponendo le basi, così, del memorandum che sarà siglato il 2 febbraio. Lo stesso Gentiloni, questa volta ministro degli esteri, proponeva nel maggio scorso la riattivazione degli accordi tra Italia e Libia del 2008. Intanto, l’accordo di programma siglato in estate che coinvolge anche Frontex e le Nazioni Unite ha già sortito da tempo i suoi effetti. Nel 2016 la Guardia costiera libica ha riportato sulla terra ferma 13.000 migranti. Nei fatti, questo è il contenuto dell’addestramento, il quale si compone di tre fasi: la prima, della durata di 14 settimane, si è svolta in acque internazionali a bordo di una nave della Marina Militare italiana, la San Giorgio, in grado di ospitare fino a ottanta militari libici selezionati secondo criteri inseriti nell’accordo. In una seconda fase, è previsto invece l’addestramento dei militari libici in uno Stato dell’Unione. La terza fase, infine, si è aperta con la Dichiarazione di Malta che “in vista dell’offensiva di primavera punta a controllare e finanche a chiudere la rotta del Mediterraneo centrale”. Questo lasciano intendere non solo i documenti ufficiali che il #Maltasummit ha partorito, ma anche le recenti prese di posizione dei governanti europei . Il presidente del Consiglio d’Europa, Donald Tusk, ad esempio, ha ricordato durante il vertice maltese che “siamo pronti come Ue a rafforzare la capacità di risposta ai problemi di sicurezza, a consolidare le istituzioni, nel pieno rispetto della sovranità dei libici". Il Ministro dell’Interno italiano, l’ex comunista Marco Minniti (che era già volato a Tripoli agli inizi di gennaio) da parte sua - durante un question time alla Camera - aveva dichiarato che “dalla Libia proviene il 90 per cento dei flussi verso l'Italia, ma nessuno dei migranti provenienti da quel paese è libico”, auspicando in tal modo “un'iniziativa coordinata a carattere internazionale". Ed è proprio quello che racconta una parte del carteggio tra le istituzioni europee reso noto a margine dell’incontro del 3 febbraio: della nascita, cioè, di un centro di coordinamento per le operazioni di salvataggio, di un programma satellitare per lo scambio di informazioni, essenzialmente.
La ripresa del progetto di Seahorse Mediterraneo Network, un piano già noto da tempo, di cui però si erano perse le tracce. Nel 2006, sotto l’impulso della Guardia Civil spagnola, allora “servì” per controllare la rotta del Mediterraneo Occidentale. Fu così che nacque il dispositivo Smn, strumento per condividere dati e intercettare navi con migranti a bordo, e con cui ora l’Ue punta a fermare i barconi lungo l’altra rotta, quella del Mediterraneo centrale. Ci prova dal settembre 2013, da quando fu approvato dalla Commissione il piano che nei successivi tre anni avrebbe dovuto vedere la collaborazione di Cipro, Francia, Grecia, Italia, Libia, Portogallo e Spagna e successivamente anche di Algeria, Egitto e Tunisia, “nella cooperazione lungo la rotta euro-mediterranea centrale”. Quello stesso progetto è rimasto, per lungo tempo, lettera morta. Secondo quanto si legge nella Dichiarazione di Malta, entrerà in funzione entro la primavera del 2017, finanziato con un ulteriore milione e mezzo di euro proveniente dal Trust Fund per l’Africa (Eutf) un fondo fiduciario tra gli stati europei introdotto nel 2015, in occasione del primo MaltaSummit sulle migrazioni. Quasi due miliardi di euro che si aggiungono così all’apporto potenziale (pari a 44 miliardi di euro) che si stima che possa provenire dalle altre tipologie di fondi introdotti dall’ultimo piano europeo, il Migration Compact del 2016. È in quella sede che, con la nascita del Fondo Europeo dello sviluppo sostenibile (Efds), si dà l’incentivo a massicci investimenti dei privati. Si inaugura così il tempo della massima ingerenza europea nella libera circolazione in Africa. Monetizzando, in pratica, tutti i rapporti politici tra i due continenti. Aiutiamoli a casa loro, dunque!
Ma a quale prezzo: della pericolosa commistione tra le politiche sulle migrazioni e quelle relative alla cooperazione internazionale, per dirne una. Di rendere di oscura provenienza e difficile tracciabilità i fondi. Dell’apertura, soprattutto, di nuove rotte migratorie sempre più pericolose. È l’isteria della politica europea in materia migratoria, questa, la stessa che ha lasciato morire 5.079 persone in mare soltanto nel 2016. 1.300 morti in più rispetto all’anno precedente. Il più alto numero mai registrato in un solo anno solare. La media di una persona deceduta ogni settantadue che arrivano. Sono stati 363.348 i migranti arrivati nelle terre europee lo scorso anno. Di questi, 181.436 sono arrivati in Italia e 173.561 in Grecia.
“Vergognosa”, è stata definita in una nota stampa dell’Associazione per gli Studi Giuridici per l’Immigrazione - la nuova politica estera europea ratificata al Summit informale della Valletta. Una condanna decisa e ferma, quella di Asgi, che giunge in particolare, per gli accordi con i paesi terzi; con cui L’Ue tradisce di fatto “i principi cardine della civiltà giuridica e viola la base democratica sulla quale si fonda la pacifica convivenza dei cittadini”, spiega l’avvocato Lorenzo Trucco, presidente di Asgi: “stipulando accordi con Stati come il Sudan, la Libia, il Niger o l’Afghanistan, l’Unione Europea esige che Paesi terzi blocchino con l’uso della forza il passaggio di persone in chiaro bisogno di protezione internazionale”. In cambio, l’Ue garantisce ai governi dittatoriali di quegli stessi Stati attrezzature militari, destinando, altresì, i fondi per la cooperazione internazionale a merce di scambio. Sotto la scure dei giuristi c’è finito, in particolare, il Governo italiano, accusato di non rispettare le basi del diritto internazionale. Anche qui: è ancora il Memorandum italo-libico siglato il 2 febbraio a Roma ad essere sotto accusa. Perché la Libia non ha mai ratificato le convenzioni fondamentali in materia di diritto d’asilo e rispetto dei diritti umani. Continuando anzi ad “accogliere” i profughi in transito in centri di detenzione dove i trattamenti inumani e degradanti sono all’ordine del giorno. Come le stesse fonti diplomatiche europee riferiscono.
Tra i pochi in Parlamento a contestare le ultime scelte estere del Governo Gentiloni c’è rimasto Luigi Manconi, il presidente della Commissione per la promozione dei Diritti Umani del Senato ha lamentato come “nel Memorandum la parola asilo non comparisse nemmeno e non ci fosse alcun riferimento a quanti, all’interno dei flussi che partono dalle coste libiche, fuggono perché in pericolo di vita, perseguitati e bisognosi di soccorso e tutela”. Mentre nei giorni scorsi si è discusso soltanto di come l’Unione Europea debba proteggere la frontiera esterna dalla “minaccia migrante”. Risale alla scorsa estate, invece, un piano europeo di riforme che considera il diritto d’asilo, ma solo per puntare a limitarlo. Rendendolo, di fatto, transitorio. Vediamo come.
L’azzeramento, ovvero come cancellare il diritto all’asilo politico. C’è senza ombra di dubbio un attacco sistematico a un diritto costituzionalmente garantito, ribadiscono i giuristi dell’Asgi. In questo senso, con il vertice di Malta del 3 febbraio si chiude un quadro, che punta ad escludere, più che ad accogliere. Un percorso intrapreso nel settembre 2015 con l’elaborazione dell’Agenda delle Migrazioni che ha istituito gli hotspot, che passa per l’elaborazione del Migration Compact, fino ad arrivare al pacchetto di riforme sul sistema d’asilo comune (Ceas) presentate il 13 luglio scorso dalla Commissione Europea. A Malta, dunque, sembra chiudersi soltanto un cerchio, un progetto che tra le pieghe nascoste del linguaggio diplomatico punta ad azzerare il diritto d’asilo. Si prenda ad esempio proprio quel che dicono le proposte di riforma rispettivamente della direttiva accoglienza n.33 del 2013, della direttiva qualifiche n.95 del 2011 e di quella così detta procedure, la n.32 del 2013. Si punta soprattutto a ridurre i cosiddetti “movimenti secondari”. Ad impedire ulteriormente, cioè, che richiedenti asilo e rifugiati si spostino, siano liberi di circolare da un paese europeo all’altro. Infatti, con la proposta di rifusione della direttiva accoglienza si fa riferimento, alla possibilità di revocare le misure di accoglienza in seguito alla violazione dell’obbligo di residenza (generico), di omessa partecipazione alle attività di integrazione (quali?) e, infine, all'eventualità in cui ci si rechi in un altro stato membro. Si introduce inoltre un motivo supplementare per poter essere trattenuto in un Centro di identificazione ed espulsione (Cie), ovvero “la violazione dell’obbligo di residenza e il pericolo di irreperibilità”. Anche a leggere le proposte di riforma delle altre direttive, che saranno sostituite in questo caso da regolamenti, si percepisce una stessa volontà: la limitazione del diritto all’asilo, rendendolo transitorio, restituendolo all’antica funzione che manteneva durante il nazismo o all’inizio della guerra fredda. Il ritorno a pochi e famosi rifugiati, in sostanza.
Tra le novità introdotte che vanno in questa direzione, per ciò che riguarda il nuovo regolamento procedure, c’è l’obbligo per gli Stati membri, nella valutazione delle domande, di applicare i concetti di “paese terzo sicuro”, “paese di primo asilo” e “paese di origine sicuro”. Una palese contrazione, dunque. Non la sola, ovviamente. Nella proposta di revisione della direttiva qualifiche, infine, c’è spazio per una vera e propria revisione dello status di beneficiario di protezione internazionale. Si prevedono in tal senso, anche qui: una sanzione per i rifugiati che si spostino in altri paesi dell’Unione. L’obbligo per lo Stato membro di esaminare l’alternativa di protezione interna nel paese d’origine (’internal protection alternative) finora opzione soltanto facoltativa. La valutazione della domanda in frontiera (porti, hotspot) e la possibilità di un eventuale trattenimento pari ad un massimo di quattro settimane, mentre la domanda viene esaminata. Infine, si restringono le garanzie procedurali, il diritto al patrocinio gratuito in secondo grado e si vieta la possibilità, per chi è ricorrente, di avere un permesso di soggiorno valido. Si può rimanere, sì, in Italia, fino alla decisione dei giudici, ma senza documenti! Questo si legge nel “secondo pacchetto di riforme” allo studio dei tecnocrati europei. Che segue le proposte di introduzione del Regolamento Dublino IV, il Regolamento che istituisce l’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (che sostituirà Easo) ed il nuovo Regolamento Eurodac. E che precede la Dichiarazione di Malta, poche, scarne pagine che raccontano di come l’Europa stia di fatto rinunciando ai suoi stessi valori fondanti, abdicando alla sua storia, ponendo in discussione i principi a cui almeno in linea teorica si sono ispirati gli stati di diritto, finora.
Resta da capire, che fare, dunque? La scala è già stata gettata, anche da Asgi, attraverso le prese di posizione degli ultimi giorni. È necessario, pertanto, costruire una nuova relazione tra spazio europeo e flussi migratori. È urgente “ristabilire la centralità del diritto d’asilo come paradigma di un’Europa aperta e solidale”. Occorre che “i movimenti, le forze associative e politiche si mobilitino, ad ogni livello, in difesa dei diritti fondamentali dello spazio europeo, attualmente sotto minaccia”. Perché “difficilmente ci sarà un’altra occasione” ribadiscono da Asgi. Ma anche perché le migrazioni costituiscono, sempre di più, la lente per indagare lo scarto esistente tra le forme del dominio e dello sfruttamento e tutte quelle pratiche sociali, rivendicazioni, desideri, dei soggetti subordinati.
Foto di copertina: rifugiati in un centro di detenzione libico, immagine tratta da HPN
Fonte: dinamopress
Originale: http://www.dinamopress.it/news/lazzeramento
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