di Alfonso Gianni
Quando si vogliono mettere in luce le clamorose contraddizioni del mondo contemporaneo spesso si confrontano le statistiche sull'aumento dell'obesità nei paesi più ricchi con quelle della fame nei paesi più poveri. Allo stesso modo si potrebbe dire dei suicidi per eccesso di lavoro, per esempio quelli registrati non molto tempo fa alla cinese Foxconn, la più grande e terribile fabbrica del mondo, e quelli di chi il lavoro non ce l'ha. Tanti anni fa si annoveravano frequenti casi di suicidio dei cassintegrati del Nord, che non sopportavano una vita ai margini della società produttiva.
Non erano tanto le ristrettezze economiche per sé e per la propria famiglia a spingerli a tanto, ma il senso di vuoto, di umiliazione e di solitudine che si impadroniva della loro esistenza, tanto da sembrare loro troppo sofferta e inutile. Oggi registriamo il caso di giovani che preferiscono la morte a una vita di precariato e di non lavoro.
Non erano tanto le ristrettezze economiche per sé e per la propria famiglia a spingerli a tanto, ma il senso di vuoto, di umiliazione e di solitudine che si impadroniva della loro esistenza, tanto da sembrare loro troppo sofferta e inutile. Oggi registriamo il caso di giovani che preferiscono la morte a una vita di precariato e di non lavoro.
Il che è ancora più terribile. Dobbiamo ringraziare i genitori di Michele che con coraggio hanno saputo superare la riservatezza di un immenso dolore - quale più grande della perdita di un figlio? - per averci resa nota, pubblicandola sul "Messaggero Veneto" la storia di una morte voluta, ma tutt'altro che privata.
Quella di un trentenne, grafico precario, nel Nord est un tempo indicato come sede di un quasi nuovo miracolo economico, quello dei capannoni diffusi, del piccolo è bello, dei tanti lavori - meglio dire lavoretti - a portata di mano. Vitaliano Trevisan li ha sapientemente descritti nel suo "Works". Una condizione di vita che però non tutti possono sopportare. Anzi sempre meno.
Perché quella - ci scrive Michele - "è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità". Non è difficile riconoscere in queste parole la condizione e il destino di una intera generazione che vivrà peggio di chi l'ha preceduta, cioè noi.
L'incanto - alimentato ad arte - se mai c'è stato, si è rotto definitivamente. Era comunque un involucro troppo fragile. Sotto c'era e c'è una realtà "da cui - ci dice Michele - non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile". La decantata flessibilità si mostra per quella che è: mancanza di futuro, peggio assenza di qualsiasi speranza di poterlo afferrare.
È vero gli anni della giovinezza non sono mai stati facili in nessuna epoca. Paul Nizan, il grande scrittore morto 35enne nella battaglia di Dunkerque, ci ha lasciato pagine memorabili sulla infelicità giovanile: "Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita". Tuttavia per le generazioni passate, pur tra esperienze terribili e a volte immani sofferenze, non appariva così impossibile trovare e realizzare varchi per costruire un senso alla propria vita.
Soprattutto erano meno soli in questa ricerca. Michele non si è soltanto scontrato contro la precarietà e lo sfruttamento cinico del mondo del lavoro, ma contro le ipocrisie dei cantori della libertà individuale. Che tale non è affatto, poiché si risolve nell'individualismo di una mediocre sopravvivenza. Una libertà fittizia e truffaldina. Non quello che Michele riteneva fosse suo diritto desiderare: "Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un'epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare".
Nel chiedere perdono ai suoi genitori e scusa ai suoi amici per avere scelto "il nulla assoluto" preferendolo a un "tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino" egli infine ammonisce tutti noi: "Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità". Tutti noi, pur in differenti misure, non possiamo che sentirci coinvolti in questa terribile responsabilità.
Anche chi magari ha tentato lungo la sua vita di cambiare le cose affinché questo furto a danno dei giovani, fra i quali i propri figli. non si realizzasse. Ma non ci è riuscito. Eppure bisognerebbe ribellarsi a questa condizione. Non possiamo accettare questa sconfitta. La ricostruzione della politica, come capacità di cambiamento della società, deve partire da qui.
Fonte: Huffington Post - blog dell'Autore
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