di Sandro Moiso
Con la ripubblicazione, a ottant’anni di distanza dalla sua prima edizione e a quarantaquattro anni dalla prima edizione italiana, dell’efficace sintesi di Victor Serge della storia della rivoluzione bolscevica, dai suoi esordi alle grandi purghe degli anni Trenta, la casa editrice Bollati Boringhieri sembra essersi accollata il merito di inaugurare un anno che molto probabilmente sarà, nel bene e nel male, ricco di rievocazioni di un evento fondamentale per la storia del Novecento. Anno che correrà il rischio di vedere schierate da un lato le rievocazioni tardo-nostalgiche e acritiche e dall’altro le interpretazioni più distruttive e liquidatorie di un avvenimento rivelatosi determinante sia per la storia del movimento operaio che per quella del XX secolo.
Un avvenimento che nel suo catastrofico decorso, dall’avvento di una speranza concreta in una rivoluzione internazionale al suo volgersi in elemento fondamentale della controrivoluzione, ha meritato, merita e meriterà ancora per lungo tempo un’analisi attenta e complessa del suo svolgimento, delle sue intime contraddizioni e dei motivi del capovolgimento finale dei suoi presupposti.
Il testo di Serge, scritto e pubblicato all’estero, mentre quella orrenda trasformazione da faro della rivoluzione proletaria internazionale a mostruosa macchina dittatoriale e controrivoluzionaria era nel pieno della sua attuazione, può ancora costituire un primo, illuminante esempio di tentativo di analisi critica dei fatti che avrebbero coinvolto non solo il destino di centinaia di migliaia di militanti rivoluzionari e di milioni di proletari e contadini russi, ma anche di milioni di operai e militanti e tutti i partiti comunisti del resto del mondo.
L’autore (il cui vero nome era Viktor L’vovič Kibal’čič) era nato a Bruxelles nel 1890 da un esule rifugiato in Belgio. Dopo aver militato nell’anarchismo più combattivo avrebbe raggiunto la Russia dopo lo scoppio della Rivoluzione, dove avrebbe partecipato attivamente alla vita politica della neonata Unione Sovietica e ricoperto incarichi di prestigio sia lì che all’estero. Dopo la morte di Lenin, nel 1924, si sarebbe avvicinato a Trockij e all’opposizione di sinistra e per questo motivo, nel 1933, venne arrestato ed esiliato in Siberia.
Per sua fortuna una mobilitazione internazionale a suo favore gli permise di tornare in libertà nel 1936, proprio prima dell’inizio dei grandi processi di Mosca, e di riparare a Parigi. Da cui dovette emigrare successivamente in Messico nel 1940, a seguito dell’occupazione nazista del suolo francese. Dopo la rottura con Trockij, la cui teoria dello stato operaio degenerato sembrava a Serge ancora troppo riduttiva per descrivere il regime ormai instauratosi nell’URSS, continuò la sua attività politica e culturale di pubblicista e scrittore fino alla sua morte. Avvenuta, mentre si trovava in condizioni di estrema povertà, a Città del Messico nel 1947.
Il testo riproposto da Bollati Boringhieri ripercorre le principali tappe sociali e politiche dei venti anni che intercorrono tra il 1917 e il 1937, dalle iniziative dal basso di soldati e operai che diedero avvio alla rivoluzione fino alle scelte politiche, ideologiche e repressive che la trasformarono in uno dei più mostruosi strumenti della controrivoluzione.
Al di là della passione messa in campo dal “vecchio” militante rivoluzionario nel narrare e ricostruire gli eventi, non vi può essere dubbio che una riflessione su quegli stessi e sulle condizioni e le scelte che li determinarono sia ancora oggi indispensabile per misurare con piena coscienza di causa ciò che ancora sta avvenendo a livello politico, economico e sociale. Sia a livello nazionale che internazionale.
Quale fu l’abilità principale di Lenin nel 1917? Quella di avere un partito ben organizzato ed un’organizzazione, anche militare, ben disciplinata? Oppure quella di saper cogliere ciò che le masse stavano esprimendo, con le azioni più che con le parole? Serge opta decisamente per quest’ultima spiegazione e ci presenta un Lenin quasi isolato, se non per l’appoggio fornitogli da Trockij, dall’opportunismo e dai timori che sembravano ancora dominare all’interno dello stesso partito bolscevico.
“Una logica inesorabile spingeva migliaia di uomini all’azione, ma questi uomini avevano bisogno di una chiara concezione dei metodi e dei fini. Ci sarebbero riusciti ad ottenerla? Questo era il punto. Al momento decisivo le masse non sempre trovano uomini capaci di esprimere senza ripensamenti i loro interessi, le loro aspirazioni e la loro vocazione al potere”.1 Oppure, potremmo aggiungere oggi, li trovano ma soltanto fittiziamente schierati al loro fianco e in realtà ben determinati ad ottenere risultati contrari all’interesse dei più. Dalle varie forme di fascismo e populismo fino a Trump, passando, e lo vedremo tra poco, dallo stesso Stalin e i suoi mefitici derivati.
“All’inizio la rivoluzione russa fu grandiosa per le sue necessità interiori e nello stesso tempo misera per la sua incapacità di soddisfarle. Il giorno stesso in cui gli operai tessili di Pietrogrado lanciarono lo sciopero che meno di un mese dopo avrebbe portato alla caduta dell’assolutismo, il Comitato bolscevico di un quartiere della capitale si pronunciò contro lo sciopero. Mentre le truppe stavano per ammutinarsi – e fu proprio questo ammutinamento che provocò la caduta dell’Impero – quegli stessi rivoluzionari consideravano, timorosi, se non si dovesse consigliare il ritorno al lavoro. I rivoluzionari di ogni partito, che avevano passato tutta la vita a prepararsi per la rivoluzione, non si resero conto che essa era a portata di mano e che la via verso la vittoria era già aperta”.2
Viltà, opportunismo, volontà di salvaguardia del Partito avanti tutto? Forse tutte e tre le cose insieme che, unite ad una eccessiva rigidità ideologica, avrebbero poi ancora accompagnato alla tomba l’esperienza rivoluzionaria e migliaia di rivoluzionari nell’era successiva alla morte di Lenin. Il quale, come afferma l’autore nel suo libro, ebbe il merito di “essere un rivoluzionario in un periodo di rivoluzione”.3
“Egli vedeva chiaramente i limiti del possibile, ma intendeva superarli. In Russia non proclamò il socialismo,4 bensì l’espropriazione delle grandi aziende a beneficio dei contadini; il controllo operaio sulla produzione; una dittatura democratica dei lavoratori con l’egemonia della classe operaia . Era appena sceso dal treno quando chiese ai suoi compagni di partito: «Perché non avete preso il potere?» […] Tutto il suo genio consisteva nella sua capacità di dire ciò che il popolo voleva dire e che non sapeva dire, con la sua capacità di dire ciò che nessun uomo politico e nessun rivoluzionario era ancora riuscito a dire”.5
“Così la rivoluzione russa ebbe carattere spontaneo: all’inizio sembrava che non avesse nessuno capace di aiutarla a svilupparsi; si può ricavare una grande lezione da questa constatazione: avvenimenti del genere non possono né essere anticipati né fatti precipitare. E’ cieco chi immagina di poter essere a favore o contrario alle necessità storiche, ma se coloro che sono capaci di distinguere le caratteristiche di queste necessità si mettono al loro servizio, allora da questo atto possono raccogliere grandi frutti e più sono capaci di integrarsi nel corso inesorabile degli avvenimenti e ricavarne le leggi che sono in essi contenute, più riescono ad aumentarne i frutti. Solo uomini del genere possono essere dei rivoluzionari”.6
Valeva la pena di soffermarsi sui fatti e le lezioni che caratterizzarono la Rivoluzione del ’17 e gli anni immediatamente successivi fino alla morte di Lenin, cui vengono dedicate complessivamente le prime sessanta pagine del testo. Prima di entrare in quello che potremmo tranquillamente definire come un autentico abisso politico, sociale, economico, ideologico e morale. Un girone infernale di sviluppo forzato e gulag che nel giro di quindici anni riuscì a divorare e ad ingoiare tutte le conquiste e le speranze messe in moto in quei primi gloriosi anni.
Conviene lasciare alla lettura diretta del testo la ricostruzione dei drammi e delle violenze che videro coinvolti ed eliminati i più oscuri militanti operai e i più celebri rappresentanti del Partito bolscevico e della rivoluzione. Quello che vale la pena qui sottolineare è come, da un lato, Serge riesca a ricollegare la crescita della potenza sovietica alla miseria e all’autentica espropriazione politica di milioni di operai e contadini russi e allo stesso tempo, dall’altro, cercare di spiegare come e perchè i migliori esponenti del comunismo sovietico abbiano finito col piegarsi e, talvolta, allearsi con Stalin e il suo progetto. Pur finendo sempre con l’essere eliminati fisicamente, oltre che politicamente.
Sono pagine più che drammatiche in cui l’autore mette al servizio della verità storica e politica le sue memorie, i documenti raccolti e la sua abilissima penna di scrittore.
Tutto deve essere rimesso in questione e le verità di regime devono essere severamente smontate e ricondotte alla realtà dei fatti. Molto distanti dalla narrazione fattane dai servitori, sempre fedeli e spesso destinati anch’essi all’eliminazione fisica, di Josef Vissarionovic Džugašvili, georgiano nato a Tiflis nel 1879, in arte Stalin.
Già nel novembre del 1929, “lo scarso livello nutritivo degli operai fece diminuire la produttività del lavoro. […] L’operaio abbandonava la fabbrica o vi restava solamente formalmente e si guadagnava la vita mediante piccoli furti. Rivendendo un paio di calze guadagnava di più che con tre giorni di lavoro. Egli doveva essere costretto a lavorare con una legislazione draconiana. Per legarlo ai centri industriali, venivano istituiti passaporti interni, che privavano la popolazione del diritto di muoversi liberamente per il paese e che rendevano possibile la deportazione di chiunque senza alcuna formalità. […] Furono anni di incubo. La carestia arrivò in Ucraina, nelle terre nere, in Siberia e in tutti i granai della Russia”.7
Ma, tenendo anche conto della gravissima crisi che nel ’29 iniziò a colpire tutto il mondo a partire dagli Stati Uniti, se ci spostiamo qualche anno più avanti, quando il regime iniziò a celebrare i suoi trionfi, le cose non cambiano di molto. Anzi. “Kharkov si è ingrandita sensibilmente. Ci sono molte fabbriche e cooperative nuove. Tuttavia migliaia di persone passano la sera senza luce e quasi senza riscaldamento; a interi settori della città manca l’elettricità.. I cinema sono chiusi, le abitazioni sono nell’oscurità e tutto ciò va avanti per intere settimane. Niente olio, niente candele, completa oscurità. Solo i burocrati, i maledetti fortunati, posseggono brutte lampade a petrolio […] la gente vive instupidita, in uno stato di bestiale disperazione. Il contrasto tra produzione e consumo è incredibile”.8
E più avanti ancora: “I pidocchi, a cui una volta Lenin aveva dichiarato guerra, sono tornati a frotte, Folle sporche e cenciose riempiono le stazioni, uomini, donne e bambini aspettano a gruppi Dio sa che treni. Vengono cacciati via, ma ritornano senza denaro e senza biglietti. Si arrampicano su tutti i treni su cui possono salire e ci rimangono finché non vengono cacciati via. Sono silenziosi e passivi. Dove vanno? Vanno in cerca di pane, di patate o di lavoro nelle fabbriche dove gli operai sono nutriti un po’ meno peggio…Il pane è il grande stimolo di questa folla. E che dire dei furti? La gente ruba dappertutto, dappertutto”.9
L’industria pesante era stata favorita come base per lo sviluppo della potenza sovietica e con essa in particolare quella degli armamenti. Fame in casa e immagine muscolare verso l’esterno mentre Stalin scenderà a compromessi vergognosi con la Francia, l’Inghilterra e, dal ’39, anche con la Germania nazista. In contemporanea andranno avanti le epurazioni: nel Partito, nel Politburo e tra la popolazione: “L’epurazione della popolazione di Leningrado10 mediante la la prigione e la deportazione arrivò a comprendere da ottantamila a centomila vittime. E tutto ciò accadeva nel 1935“.11
Ma il dramma ancora maggiore fu proprio quello costituito dal fatto che i più importanti artefici della Rivoluzione accettassero prima di firmare le infamanti accuse costruite su di loro dalla GPU e dagli apparati di informazione e poi di subire, spesso quasi passivamente, i processi e poi le esecuzioni. Senza contare le decine o forse centinaia di migliaia di membri e funzionari di partito scomparsi senza lasciar traccia nelle prigioni e nei campi di lavoro siberiani.
Nel testo Serge dedica a questo argomento pagine terribili e sconvolgenti che vale la pena di leggere, mentre le riflessioni profonde che ne derivarono avrebbero accompagnato le sue opere letterarie migliori12 fino alla fine dei suoi giorni.
Bene ha fatto dunque la casa editrice a riproporre il testo qui esaminato, seppur nella stessa traduzione del 1973 di Sirio Di Giuliomaria che in qualche punto avrebbe potuto essere rivista, non soltanto al fine di una riflessione sull’esperienza sovietica condotta non da un conservatore o da qualcuno che abbia fatto, già all’epoca, il salto della barricata, ma anche per la riscoperta di un autore e militante rivoluzionaria che David Bidussa, in una breve ma significativa e netta Prefazione, contribuisce ad inquadrare e a differenziare da altri autori più celebri, come Koestler o Silone, individuando i motivi della sua rimozione dalla memoria “democratica” proprio nella radicalità del suo operato e della sua testimonianza.
Fonte: Carmilla online
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