di Alessandro Dal Lago
Il decreto sull’immigrazione varato ieri dal Consiglio dei ministri (insieme all’altro, immancabile, sulla sicurezza urbana) segue le iniziative del ministro Minniti in tema di blocco degli sbarchi (accordi con Libia, Niger ecc.). E come queste, è destinato al fallimento. Ovviamente, sulla pelle di migranti e profughi. Il decreto, in sostanza, prevede due tipi di misure: lo «snellimento» delle procedure di riconoscimento del diritto d’asilo e la «razionalizzazione» dei Cie, che da oggi vengono denominati Cpr, Centri permanenti per il rimpatrio. La tendenza tipicamente governativa di cercare di risolvere i problemi cambiando nomi e sigle è soddisfatta ancora una volta.
Un tempo c’erano i Cpt (Centri di permanenza temporanea), un ossimoro grandioso, come se le prigioni fossero chiamate, che so, centri di libertà internata. Poi sono arrivati i Cie (Centri di identificazione ed espulsione), che però fanno troppo repressione indiscriminata.
E ora, in modo più sensibile ai diritti umani verbali, si parla di «rimpatrio», come se profughi e migranti non vedessero l’ora di tornare a casa, sotto le bombe.
Ma iniziamo dall’asilo. Come ha chiarito il ministro Orlando, il rifiuto dell’accoglienza come profughi «non è reclamabile», se non in Cassazione. Quindi niente appello. Il che significa semplicemente che un profugo proveniente dalla Nigeria può vedersi respinta la domanda, andarsene in un Cpr, starci un bel po’, essere espulso in Libia, preso in carico da qualche banda armata al servizio del governo Serraji, e poi sparire in un prigione libica (dove sono documentate violenze di ogni tipo, dagli stupri e agli omicidi). È da qui che farà ricorso in Cassazione?
Quanto ai Cpr, si prevedono centri in ogni regione per complessivi 1.600 posti. Ora, qui c’è qualcosa che non torna proprio. Secondo dati del Ministero degli interni, su 41.000 irregolari rintracciati nel 2016, 22.000 non sono stati espulsi o allontanati alle frontiere. Per non parlare di chi non è stato rintracciato (perché finito nel lavoro nero, nelle campagne ecc.).
E per tutta questa gente dovrebbero bastare 1.600 posti? Ma si tratterà di permanenze brevi, obietta Minniti, che ama, anche lui, gli ossimori. Ma se la massima permanenza prevista è di 90 giorni, chi garantisce che in poco tempo i Cpr non si gonfino, rendendo le condizioni di vita degli internati ancora più tragiche di quanto non siano nei Cie? Non lo garantisce proprio nessuno, neppure il misterioso «garante dei migranti», di cui non si conoscono poteri e giurisdizione.
E poi c’è quella norma che prevede la possibilità per i comuni di impiegare i migranti «su base volontaria» per lavori «socialmente utili», per rendere l’attesa (di che cosa?) meno snervante. Come dire, lavora gratis che ti passa la noia.
Dietro questa norma, io vedo – chissà perché – il contributo del ministro Poletti. In sostanza, migranti e richiedenti asilo diventano dei voucher umani che i comuni possono spendere per pulire le strade, cancellare i graffiti dai muri e così via. Risparmiando così risorse umane e materiali.
Un piccolo contributo degli stranieri alla diminuzione della spesa pubblica del generoso paese che li accoglie. Ma resta il fatto che la servitù è servitù, anche quando è volontaria.
Questo decreto non è che il tentativo di rendere meno visibili i Cie per tacitare la cordata Grillo-Salvini-Meloni e ingraziarsi l’Europa. Visto che gli altri paesi non ricollocano i migranti che arrivano da noi, vi facciamo vedere come siamo efficienti e severi con i clandestini. Così, magari, ci condonate un altro decimale del deficit.
Fonte: Il manifesto
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