di Edoardo Laudisi
Il letto di Procuste, il brigante che secondo la mitologia greca aggrediva i viandanti e li straziava battendoli con un martello su un'incudine a forma di letto scavata nella roccia, indica il tentativo di ridurre le persone a un solo modello, un solo modo di pensare e di agire. C’è chi dice che la crisi italiana sia colpa dell’Euro, c’è chi dice invece che sia colpa del nostro sistema malato. Una brutta notizia: hanno ragione entrambi. Sul primo punto già da diverso tempo una serie di economisti stanno ribaltando il mantra degli ultimi dieci anni: al di fuori dell’Euro non c’è salvezza, in: la salvezza (non solo di noi italiani) sta fuori dall’Euro.
Per farsi un’idea senza pregiudizi, consiglio di leggere alcuni loro testi qui e qui. Tra le altre cose scoprirete che illustri economisti ci avevano avvertiti che non poteva funzionare; come ricorda nel suo articolo Alberto Bagnai.
Per farsi un’idea senza pregiudizi, consiglio di leggere alcuni loro testi qui e qui. Tra le altre cose scoprirete che illustri economisti ci avevano avvertiti che non poteva funzionare; come ricorda nel suo articolo Alberto Bagnai.
In linea di principio, un sistema a cambi fissi com’è quello che si è venuto a formare in Europa con l’introduzione dell’euro, favorisce le economie strutturate in grossi gruppi industriali o di servizi, come la Germania, e in misura minore la Francia, e sfavorisce quelle più frazionate, basate cioè su piccole medie imprese come la nostra. Senza la sovranità monetaria inoltre, si perde una leva strategica data dalla gestione diretta della moneta che in periodi di crisi può essere usata in modo espansivo per ridare fiato a un economia in difficoltà (come ha fatto Obama). Inoltre, dal momento che non è possibile tenere bassi i prezzi delle merci e dei servizi attraverso la svalutazione della moneta, si perde competitività sui mercati internazionali.
In queste condizioni lo sviluppo dell’export tedesco si spiega in due modi: a) eliminato lo scalino del cambio in Europa, i prodotti tedeschi sono diventati accessibili a molti europei. b) i prezzi sono stati tenuti bassi attraverso una compressione sistematica dei costi. Del costo del lavoro innanzitutto, con una compressione dei salari (come, lo potete leggere in questo articolo di qualche anno fa di Claudio Martini), ma anche del costo delle materie prime (se oggi i tedeschi si ritrovano veleno per topi nell’insalata e carne di cavallo nelle lasagne è perché le loro grandi catene distributive alimentari hanno selezionato fornitori sempre meno costosi e sempre più carenti dal punto di vista qualitativo) e dei servizi.
L’incremento dei profitti delle imprese dovuti alla differenza tra aumento delle esportazioni e la riduzione dei costi, è stato il regalo che la signora Merkel ha fatto ai suoi amici imprenditori, sostenitori del suo governo, attraverso una politica di pressione costante sui ceti medio bassi. E queste sono esattamente le politiche che si sono imposte in tutta Europa quando si è parlato di riforme. In pratica si è detto che per poter competere e rilanciare la loro economia, i paesi come l’Italia dovevano procedere a una riduzione sistematica del costo del lavoro e inserire maggiore flessibilità nel mercato del lavoro. Si disse cioè che, nel bel mezzo di una crisi economica devastante che stava mettendo a rischio la coesione sociale di molti paesi, si dovevano ridurre i salari e licenziare, per ritornare competitivi. Cosa che tra l'altro Matteo Renzi prontamente fece abolendo l'articolo 18.
E veniamo al secondo motivo della crisi italiana: il nostro sistema malato. Qui non c’è nessuna moneta comune, nessuno stato straniero che tenga, questa è tutta farina del nostro sacco. Nel passato, parliamo degli anni novanta, i commentatori stranieri avevano spesso espresso stupore per la vivacità
dell’economia italiana (fino agli anni novanta del secolo scorso questo paese era pure sempre la settima potenza industriale del pianeta), nonostante la bassa qualità della sua classe dirigente. Questi commenti erano accolti perlopiù con sufficienza, se non con fastidio, da una classe politica autoreferenziale e arrogante, che si limitava a derubricarli come provocazioni prive di fondamento. I fatti però hanno dato ragione ai commentatori stranieri.
Negli anni ottanta e novanta del secolo scorso infatti, l’Italia ha goduto di un certo sviluppo economico nonostante i difetti del suo sistema politico istituzionale, difetti che emersero in tutta la loro gravità con le inchieste di Tangentopoli all’inizio degli anni novanta. I malfunzionamenti erano dovuti principalmente a due fattori: un sistema burocratico tardo novecentesco devastante, costoso, inefficiente e spesso corrotto, e l’inadeguatezza della classe politica che nel corso dei decenni aveva occupato i vari enti economici e produttivi dello Stato avendo come unico obiettivo quello di allargare il potere dei singoli partiti e non quello di far funzionare gli enti in modo efficiente.
Gli organismi statali (fondazioni bancarie, aziende municipalizzate, ospedali, università, enti partecipati ecc.), sono stati utilizzati dalla politica come feudi dai quali intercettare la spesa pubblica, che in questo modo ha preso a crescere senza controllo, allo scopo di aumentarne il potere dei partiti attraverso fiumi di denaro pubblico che sparivano nel sottobosco politico senza che nessuno ne rendesse mai conto. In questo sistema i bilanci degli enti statali passavano in secondo piano (il deficit era finanziato automaticamente dalla spesa pubblica), come in secondo piano passava la qualità dei servizi e dei beni prodotti da quegli organismi.
A questo scenario desolante si aggiunse la gestione clientelare degli uffici pubblici che avvantaggiava una minoranza selezionata di cittadini e penalizzava il resto. Cricche, furbetti del quartierino, amici degli amici e cosche criminali furono invitati alla grande abbuffata che segnò la devastazione definitiva del nostro patrimonio pubblico. Di questo parlano le numerose indagini della magistratura degli ultimi vent’anni. Per alimentare il saccheggio s’intensificava la spesa pubblica con manovre espansive che finivano per rifinanziare i deficit di tutti gli enti, anche quelli più inutili, allo scopo di mantenere reggimenti di clientes, famigli, elettori comprati un tanto al voto e boss mafiosi.
Semplificando, prima dell’introduzione della moneta unica il giochetto funzionava così: per finanziare la spesa pubblica (di cui una grossa fetta era destinata ai clientes descritti sopra), il governo bandiva l’asta dei Titoli di Stato che venivano acquistati dalla Banca d’Italia. In questo modo il debito cresceva sempre di più ma rimaneva in Italia, cioè nelle mani della Banca d’Italia. Nel frattempo i servizi pubblici, il cui funzionamento e gestione efficiente avrebbe dovuto essere l’unico obiettivo di spesa, degeneravano a livello di terzo mondo mentre la corruzione rompeva gli argini. In nessun paese occidentale si è assistito a un degrado di queste proporzioni. Per trovare situazioni analoghe bisogna andare a cercare tra le repubbliche caucasiche ex sovietiche o in qualche Stato fallito dell’Africa centrale. Insomma si sono mangiati un paese.
A causa di questa zavorra che ci trasciniamo dietro come un peccato originale, e che negli anni è cresciuta come un tumore aggressivo, l’entrata nell’Euro è stata la mazzata finale. Il nostro sistema così ripartito: un terzo criminale, un terzo in nero o sommerso e l’ultimo terzo normale massacrato da campagne di austerità per rispettare il vincolo di bilancio e dall'inettitudine della sua classe dirigente, non regge in una griglia liberista tarata su sistemi economici che hanno il controllo dei loro apparati. Verrebbe da dire che così come siamo messi, se usciamo dall’Euro senza rifondare le nostre istituzioni il punto di arrivo sarà la Colombia dei Narcos, mentre se restiamo rischiamo di finire come la Grecia. Il lato triste di questa storia è che una parte dei commentatori utilizzano il primo motivo (l’Euro) per nascondere il marciume di un sistema, mentre l’altra fa il contrario. In realtà siamo messi molto peggio: ci troviamo esattamente tra l’incudine e il martello di Procuste.
Per sperare di uscirne vivi bisogna confidare nella strategia napoleonica della posizione centrale, che più o meno dice così: Quando due eserciti nemici marciano divisi verso il tuo, mettiti in mezzo, manovra per linee interne e attacca il primo, mentre con poche forze tieni a bada l’altro. Battuto il primo concentrati sul secondo con tutte le tue forze rimaste. Certo, intanto bisogna esserne capaci e poi non è detto che funzioni sempre. Per ulteriori informazioni chiedere al duca di Wellington.
Fonte: MicroMega online
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