di Annalisa Terranova
Mai come in questi mesi si è fatto uso e abuso della parola “popolo”. E mai come in questi mesi definire il concetto è apparso problematico e razionalmente faticoso. I presunti “veri democratici” osteggiano i reazionari “populisti” e i Paesi che si ritengono culla delle libertà democratiche puntano l’indice contro i referendum, in particolare contro quello che ha rafforzato il Sultano Erdogan. C’è un gran bisogno, dunque, di “aggiornare” i concetti di popolo, democrazia, sovranità, rappresentanza. Anche perché la crisi dei meccanismi tardo-capitalisti, con la crescente sensazione di precarietà diffusa in larghi strati della popolazione, sta provocando un drastico calo di fiducia nelle istituzioni democratiche.
LE LEGGI NON PORTANO FELICITÀ. È del tutto superato, dunque, l’ottimismo degli illuministi come Diderot, secondo cui per fare un buon popolo servivano solo buone leggi. Assunto non dissimile da quello di Helvétius, secondo il quale ogni forma di cattiveria poteva essere estirpata elevando i costumi del popolo grazie a sagge legislazioni. Nessuno è più disposto a credere, in sostanza, che la felicità sia a portata di mano grazie alle azioni di un parlamento.
Il pensiero illuminista, anzi, ha fondato l’idea che ogni forma di malessere sia riconducibile alla responsabilità anonima della società che sostituisce le responsabilità individuali. Al centro di questo dilemma si trova l’individuo contemporaneo, incapace di dare risposte alla crisi in cui è immerso: è colpa sua, della sua mancanza di iniziativa, o è colpa di una società che non si cura dei precari, dei più deboli?
DA OCCUPY ALLA ROMANIA. Proprio da qui prende le mosse il nuovo libro di Judith Butler, L’alleanza dei corpi (Nottetempo), che sposta dunque la sua attenzione dalle discusse teorie gender al tema delle “azioni plurali” compiute dai gruppi che interrogano/contestano il potere costituito occupando uno spazio pubblico. Il pensiero della Butler si rivolge a movimenti come Occupy o come le manifestazioni delle primavere arabe (stagione ormai totalmente “demitizzata” anche con la recente notizia dell’assoluzione postuma di Mubarak), ma soprattutto fonda una sorta di teoria sull’appropriazione dello spazio pubblico come forma di “resistenza” (ciò che è avvenuto per esempio in Romania contro le nuove norme salvacorrotti o in America dopo l’elezione di Donald Trump). Ciò non comporta obbligatoriamente il fatto che queste “alleanze dei corpi” siano più democratiche delle istituzioni che intendono combattere. A interessare è la loro modalità, più che la loro legittimità o valenza etica.
Innanzitutto, perché si va in piazza? Per contestare, afferma Judith Butler, la morale neoliberista secondo la quale ciascuno ha il dovere di provvedere alla propria sopravvivenza e autosufficienza economica. Il non sentirsi garantito da questa “verità”, il sentirsi “precario” in questo caos di conflitti socio-economici, spinge gli individui a riunirsi pubblicamente. Già questo atto di per sé, anche senza il ricorso alla parola, cioè alla dialettica, fonda una rappresentazione politica alternativa che ha bisogno di farsi “spettacolo”, cioè necessita dell’attenzione dei media, di un pubblico che riprende la scena con gli smartphone, e persino delle forze di polizia che reprimono questa fetta di precariato sociale.
LA BATTAGLIA PASSA DAI SOCIAL. Tutte condizioni indispensabili a far sì che nell’immaginario collettivo si trovi un posto per l’apparizione di questa forma di “azione plurale”. È ciò che Judith Butler definisce come «attività di autocostituzione della sfera pubblica». Per poi aggiungere: «La lotta per la legittimazione ha luogo invariabilmente nel gioco tra ciò che viene pubblicamente agito e le immagini mediatiche, dove gli spettacoli controllati dallo Stato si danno battaglia con gli smartphone e i social network per coprire l’evento e il suo significato». Ed ecco allora che «il popolo non è solo prodotto dalle rivendicazioni pronunciate a voce, ma anche dalle condizioni di possibilità della sua apparizione come parte di una performance incarnata».
Un’analisi interessante per capire due accadimenti della politica italiana sui quali si sprecano esegesi e commenti: la diffusione del “verbo” del Movimento 5 stelle attraverso la Rete (che scavalca la fisicità dell’alleanza dei corpi) e il declino dei raduni indetti sotto il segno di una sigla di partito. Se infatti ciò che muove la “performance” è il desiderio di entrare a far parte dei “tutelati”, è la protesta per la mancanza di una rete infrastrutturale di sostegno, è la disillusione rispetto al “contratto sociale” che non è più rispettato da tutti e per tutti, è logico che a fare le spese di questa mentalità siano proprio i partiti, i soggetti fino a ieri incaricati di fare da intermediari tra il “popolo” e le “istituzioni”.
EGOISMO DA SUPERARE. Ormai la dinamica del potere interessa poco gli individui disponibili a mettersi in gioco attraverso imponenti manifestazioni. Non si combatte più per il predominio di un’ideologia, ma per affermare ciò che Hannah Arendt definiva come «il desiderio di vivere la vita buona». Attenzione però: un individuo mosso solo dal desiderio di sopravvivenza è solo un “corpo” preoccupato dalle esigenze biologiche, non è ancora un “corpo politico”, dice Judith Butler. E ha ragione. Per divenire tale deve mettersi in relazione con gli altri e fornire una dimensione morale alla propria azione performativa. Nel farlo si fa carico non solo delle proprie egoistiche aspettative, ma anche di quelle degli altri.
DEMOCRAZIA RINVERDITA. La «vita buona» che si invoca è quella di tutti e non di una “parte”. Solo da qui può passare la rifondazione della buona politica, ancora una volta allacciata alla «celebre idea di Arendt, secondo cui la politica non solo richiedeva uno spazio dell’apparizione, ma innanzitutto dei corpi che apparissero». Dunque il raduno collettivo, l’occupazione, il corteo, l’assemblea pubblica, la veglia silenziosa, il funerale dimostrativo e ogni altro atto che utilizza l’alleanza dei corpi per inviare un messaggio politico è da guardare positivamente, perché è in fondo solo un “frammento” di un più globale spettacolo in cui le persone escono dalla loro solitudine per farsi “popolo” e rinverdire il meccanismo democratico, un meccanismo che non può sopravvivere senza “azioni plurali”.
Fonte: Lettera43.it
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