di Massimo Villone
Come era facile prevedere, è grande la rissa su chi ha vinto e chi ha perso nel voto di domenica. Sarà decisivo il ballottaggio in alcune situazioni chiave, come Milano e Roma. Ma c’è un punto che emerge in tutta evidenza: l’architettura tripolare del sistema politico si è consolidata. Lo dicono i risultati M5S nelle maggiori realtà in cui si è votato. E lo dice ancor meglio l’analisi dei flussi elettorali, che vede orientato verso M5S il voto dei giovani e delle classi d’età fino ai 45/55 anni: quelle che sono ad un tempo la spina dorsale del sistema paese e tengono le chiavi del futuro. Del resto, il tramonto del bipolarismo/bipartitismo va ben oltre l’Italia. L’abbiamo visto in tempi recenti in esperienze consolidate come quella britannica e tedesca. Lo vediamo negli scenari davvero inediti delle primarie Usa, in cui in ciascuno dei due partiti storici si danno battaglia candidati portatori di progetti politici che potremmo a buona ragione definire alternativi.
Quindi abbiamo in Italia un tripolarismo destinato a durare. Ed allora si sottolinea il contrasto stridente con le riforme renziane, che puntano a un bipolarismo – ed anzi bipartitismo – forzoso. E che bipartitismo sia lo prova il premio di maggioranza alla singola lista vincente, con proibizione di coalizioni e apparentamenti. Ostacolo superabile con un listone, ma rivelatore di una filosofia di fondo inequivocabile. Fin qui Renzi l’ha confermata in pieno, dichiarandosi ripetutamente indisponibile a qualsiasi modifica.
Chi sostiene l’Italicum afferma che il modello è necessitato perché le forze in campo sono antagoniste e quindi incapaci di costruire coalizioni coese ed efficienti.
Ma intanto notiamo che due soggetti secondo tale teoria antagonisti l’avevano pur fatta una coalizione con il patto del Nazareno, poi sciolto non già per antagonismo genetico, ma per motivi futili e abietti.
Inoltre, altrove – Gran Bretagna, Germania – le coalizioni rese necessarie dai risultati elettorali si fanno, magari aprendo una riflessione sui nuovi equilibri e le nuove prassi che si rendono necessarie.
Secondo la via italiana alla governabilità, invece, si attribuisce tutto il potere a uno dei soggetti in campo, mentre si mettono gli altri in condizioni di non nuocere. Al primo si consegna un corposo incremento dei seggi, ai secondi in misura corrispondente si sottraggono.
Né mancano misure collaterali – come il voto a data certa nel ddl Renzi-Boschi – per tenere sotto stretto controllo le residue velleità di disturbare il manovratore. In sintesi, a una delle minoranze si dà il dominio sulle altre, antagoniste, che sommate esprimono una maggioranza nel paese, anch’essa evidentemente antagonista. I numeri parlamentari taroccati dovrebbero garantire stabilità e governabilità. Davvero geniale.
Il Renzi-pensiero proietta sul paese governi a vocazione geneticamente minoritaria e architetture istituzionali in diretto contrasto con l’assetto del sistema politico. Una prospettiva da affrontare con partiti ormai evanescenti, la cui debolezza il premier ha sperimentato in prima persona in questo ultimo turno elettorale. Un segnale che certo lo preoccupa non poco, se proiettato sulla data del referendum di ottobre.
Per questo vuole impugnare il lanciafiamme, ed è ragionevole pensare che il primo obiettivo sia la già esanime minoranza interna, e forse qualche specifico capro espiatorio, come Bassolino a Napoli. Ma non guasterebbe qualche segno di consapevolezza, e magari di autocritica.
Per la sua scalata al potere e per imporre le sue scelte politiche ha sfruttato la debolezza che oggi lamenta, che non ha mai cercato di correggere, ed anzi ha solo contribuito ad aumentare. È assai dubbio che il premier possa oggi recuperare la emorragia di militanti e la perdita di radicamento territoriale, e certo non può farlo nei tempi brevi che gli sarebbero necessari.
Ha anche fatto la mossa di mollare Verdini, negando qualsiasi ipotesi di coalizione, e riducendo il partito della nazione a una realtà che esiste solo nell’aula parlamentare.
Nel linguaggio di Verdini & Co., questo si traduce più o meno così: a noi i vostri voti in aula, a voi niente posti nelle nostre liste. Se fosse vera la faccia feroce a Verdini, per Renzi la situazione diventerebbe pesante. Il dubbio viene che sia in tutto o in parte una rappresentazione teatrale, volta a tamponare il danno ricevuto in alcune realtà, come quella napoletana.
Ma qualunque cosa intenda Renzi, ci sono danni non riparabili o risarcibili, dati soprattutto dal voto dei verdiniani per la riforma costituzionale e alcune leggi chiave. Aver concesso a Verdini la qualifica di padre costituente è un peccato che non consente assoluzione.
Ma comprendiamo l’ansia crescente del premier, che soffre di una chiara sindrome di accerchiamento. Pensavamo fosse questa la ragione di lanciare una sua raccolta di firme popolari per referendum di ottobre.
A quanto risulta, ha bellicosamente dichiarato di averne raccolte già 200.000, e che tutte sarebbero state consegnate in Cassazione nei primi giorni di luglio.
Ma nessuno ha incrociato per le strade e le piazze d’Italia un solo tavolino con le insegne del premier. Le firme di Renzi: chi le ha viste?
Fonte: il manifesto
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