di Alessandro Gilioli
Durante le settimane che hanno preceduto il primo turno delle elezioni a Roma, il Messaggero ha parteggiato senza molti infingimenti per Alfio Marchini, di cui è stato enfatizzato ogni passo, ogni promessa, ognidichiarazione, ogni mossa, ogni parola, comprese le photogallery e i soffietti a chiunque gli si alleasse. Curiosamente, in tutto quel periodo il Messaggero si è scordato di aggiungere, almeno in una nota, che Marchini è amico e socio d'affari storico di Caltagirone, cioè del suo proprietario, ma pazienza: tanto poi alle urne il suo candidato ha floppato lo stesso. Subito dopo, però, si è profilata l'ipotesi che a Roma venisse eletto un sindaco contrario a ospitare le Olimpiadi e allora il Messaggero ha iniziato a giocare duro, dedicando una o due pagine al giorno ai Giochi, con la testatina "Roma 2024 / La Grande Occasione".
Vi si spiegano, quotidianamente, i presunti benefici per la città e i suoi abitanti, con numeri tipo «48 mila posti di lavoro in più», «tasso di rendimento dell'investimento del 31 per cento», «incassi per 900 milioni», fino alla divertente cifra di «tre miliardi di euro in più per il reddito delle famiglie».
All'uopo si scomoda oggi anche la case history di Barcellona 1992 che addirittura avrebbe aiutato la Spagna a "uscire dalla dittatura", che era finita 17 anni prima ma non stiamo troppo a sottilizzare.
Silenzio invece sulla lievitazione dei costi che caratterizza quasi tutti questi eventi (per Italia '90, più 184 per cento), sul profondo rosso delle Olimpiadi invernali di Torino (che per pagarsi i Giochi si è pure riempita di titoli tossici), sul lascito vergognoso dei Mondiali di Nuoto 2009 a Roma, per non dire dellacatastrofe di Atene 2004.
Del resto, la rilevanza che il Messaggero dà all'assegnazione dei Giochi non è nascosta, anzi è brandita dai suoi editoriali, tipo questo: «Ben più che un ballottaggio. Roma sta per affrontare un passaggio cruciale della sua storia. In ballo non c’è solo l’ardua scelta del prossimo sindaco ma uno spartiacque sulla visione che si ha o si vuole avere della Capitale. Tra la rassegnazione al declino e il rilancio di un prestigio e di una grandezza che ormai da troppi anni sono alle spalle. Tutto questo è incarnato, per chi non se ne fosse accorto, in un solo tema che li racchiude tutti: la scelta sulla candidatura ai Giochi del 2024. Il voto che ci attende fra una decina di giorni è apertamente una sorta di solenne referendum sulle Olimpiadi».
Ancora, l'editoriale parla di «potenziali 177 mila nuovi posti di lavoro» (in altra pagina dello stesso quotidiano sono 48 mila, ma anche qui non stiamo troppo a sottilizzare, quando si sparano cifre a caso una vale l'altra) e vi si sostiene che i Giochi sarebbero «un concentrato di anticorpi al declinismo che ha infettato la nostra città»: laddove particolarmente apprezzabile è il neologismo "declinismo" che si riferisce, suppongo, a chi punta il dito su sprechi e malgoverno della capitale, non a chi questi sprechi e questo malgoverno ha creato o ci si è pasciuto.
L'importante comunque, conclude il Messaggero, è evitare il «ritornello disfattista» (con il quale si arriva all'apoteosi del linguaggio mussoliniano applicato al business) e ricordarsi il "referendum sulle Olimpiadi" a cui noi residenti a Roma saremo chiamati a votare domenica 19, scegliendo tra il candidato favorevole (Giachetti) e quello contrario (Raggi).
A proposito, il business, ohibò.
Non è del tutto ignoto che se l'impatto positivo dei Giochi sul bilancio delle famiglie romane è tutto da dimostrare, assolutamente certo è invece quello sulle casse del proprietario del Messaggero, a iniziare dai cantieri della Città dello Sport (che hanno già inutilmente succhiato centinaia di milioni ai contribuenti, e con le Olimpiadi ne succhierebbero molti altri) fino alla rivalutazione delle proprietà immobiliari del Caltagirone medesimo nella zona est della Capitale.
Insomma, il più diffuso giornale della capitale italiana prima fa campagna elettorale per il socio del suo proprietario, poi parte per una crociata quotidiana in favore di un business del suo proprietario, trasformando le elezioni comunali in un referendum tra il candidato che quel business appoggia e il candidato che invece lo ostacola.
Va bene tutto, per carità.
Però poi non sorprendiamoci se una vasta fascia di elettori, appena un filo consapevoli, è disposta a votare chiunque mandi a casa questi poteri così intrecciati, ipocriti e nauseabondi.
E non c'è praticantato da Previti o endorsement di Salvini che riesca a prevalere sull'esigenza di liberarsene, di quei poteri, e in fretta.
Fonte: L'Espresso online - blog Piovono Rane
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