di Adriano Prosperi
Il contesto in cui viviamo è tale da mettere definitivamente fuori uso ogni residuo di idea della storia come percorso ascensionale, progressivo della cosiddetta civiltà europea. Davanti al mare che inghiotte ogni giorno vite umane e alle folle di migranti che si ammassano davanti ai muri alzati dalla paura della nostra sedicente Unione Europea, gli studiosi del passato sembrano aver poco da dire: come l’angelo di Walter Benjamin, quella che si vede della storia è l’immagine di una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine. E tuttavia dallo studio di altre migrazioni di popoli accadute nel passato emergono constatazioni che possono avere qualche interesse per le discussioni attuali: per esempio quella sui conflitti delle cosiddette “identità”.
C’è stato un tempo in cui il Mediterraneo fu già lo scenario di tragedie simili a quelle attuali: accadde esattmente all’epoca in cui la formazione delle grandi monarchie nazionali moderne avvenne al prezzo dell’intolleranza religiosa come strumento per formare una “identità”, cioè un sentimento collettivo di appartenenza. La vicenda si può far cominciare dal 1492, con la migrazione di centinaia di migliaia di ebrei dalla Spagna dove l’unificazione di popoli di culture, lingue e religioni diverse sotto un solo sovrano avvenne al prezzo dell’espulsione delle minoranze religiose. Seguì tra il 1607 e il 1614 l’espulsione della ancor più numerosa minoranza dei “moriscos”, nonostante che si fosse piegata al battesimo. Fra queste due date la frattura religiosa dell’unità cristiana aveva intanto obbligato numerose comunità europee a spostarsi verso stati dove fosse possibile praticare la loro religione diventata un’eresia per il luogo dove abitavano. Il principio che legava la religione di un popolo a quella del sovrano territoriale , sancito con la “pacificazione religiosa” di Augusta, risolse il problema di come garantire la sopravvivenza di strutture statali davanti alla diffusione inarrestabile di laceranti conflitti religiosi tra le ortodossie in lotta.
Lo studio di quel che accadde allora nel Mediterraneo e in Europa ha proposto scenari tragici ma con qualche dato a favore di chi ritiene che l’afflusso di gruppi umani in cerca di lavoro e portatori di altre culture possa essere un’occasione positiva e di crescita per le società disposte ad accoglierli.
Nel caso degli ebrei sefarditi come in quello dei “moriscos” ritroviamo molti aspetti delle tragedie attuali: navi affondate o respinte dai porti cristiani con un carico umano esposto alla fame e alla peste, uomini, donne e bambini abbandonati su coste ostili, esposti a finire sui mercati del lavoro schiavile e della prostituzione (allora molto fiorenti).
Il numero delle vittime fu altissimo. Quantificarlo è difficile, ancor più di quanto lo sia oggi quello degli annegati nel Mediterraneo.
Ma ci furono alcuni casi in cui si aprirono ai migranti possibilità di insediamento. È noto il caso del duca di Ferrara che aprì le porte del suo stato agli ebrei spagnoli e li tutelò dall’intolleranza religiosa seminata nel popolo dalla Chiesa: ne ricavò così vantaggi economici e regalò alla città e allo stato un grande arricchimento civile e culturale. E anche il granducato di Toscana aprì agli ebrei portoghesi in fuga la possibilità di insediarsi nell’area di Livorno : le leggi “Livornine” (1593) ne garantirono la sicurezza. Livorno ne ricavò uno sviluppo economico e culturale che la rese il porto maggiore del Mediterraneo e una vera capitale culturale aperta alle idee di tolleranza dell’Illuminismo.
Quanto ai“moriscos”, le ricerche storiche hanno individuato alcuni, rari casi di apertura, accanto al prevalente sfruttamento selvaggio della merce umana e a una duplice violenza religiosa che si esercitò contro chi, in quanto battezzato, era apostata per l’Islam però veniva intanto rigettato come apostata dagli stati cristiani. Ma non mancarono tentativi di attirarli per ripopolare aree da bonificare e mettere a coltura o rilanciare attività commerciali. E ci furono forme di insediamento diffuso nella grande città (Napoli) o in aree costiere dove furono pacificamente accolti dalla popolazione.
In tutti questi casi la produzione di identità collettive obbliga- torie da parte dei grandi Stati nazionali e delle rispettive Chiese dette vita a forme di intolleranza e di rifiuto preconcette che non ebbero nemmeno bisogno per alimentarsi della presenza effettiva dell’”altro” (l’ebreo,l’infedele). Invece l’immissione effettiva di immigrati di diversa cultura e/o religione, ben lungi dal creare conflitti sociali e impoverimento, si rivelò fonte di progresso economico e culturale. La regola trova conferma nei movimenti di minoranze religiose interne all’Europa: come quella delle 55 famiglie italiane di Locarno emigrate a Zurigo a metà ‘500 per fedeltà alla scelta religiosa riformata; o quella degli ugonotti francesi che nel ‘600 si spostarono a Ginevra e a Erlangen portandovi un sapere e uno spirito d’iniziativa che dette frutti (si pensi all’industria degli orologi). E ci sono tanti altri casi da prendere in esame per rileggere aspetti poco noti della moderna storia europea e fare i conti con le intolleranze “identitarie” antiche e moderne che la caratterizzano ma anche con gli esperimenti positivi degli innesti che vi furono. Tutta questa materia si offre oggi come un campo di studio per una storiografia spinta a diventare non più il sapere egoista di culture chiuse ma scienza dell’alterità, “xenologia”.
Articolo pubblicato su La Repubblica del 3 giugno 2016
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