di Antonio Negri
Si comincia a parlare del “comune” in termini sostantivi. Fino a qualche tempo fa (ed ancora nella giurisprudenza e nel diritto in maniera esclusiva) se ne parlava solo in senso formale, come qualcosa fuori da ogni possibile definizione ontologica – qualcosa che solo il modo di appropriazione, privato o pubblico, qualificava – e dunque faceva esistere. Stiamo quindi uscendo da una lunga storia (ha essa coinciso con l’epoca moderna?) e il comune ci appare come una realtà – meglio, come una produzione. Riprenderò più sotto la discussione su questa definizione. Ritorno ora al nostro tema: l’appropriazione privata del collettivo e del comune. (NOTA: Per una rassegna critica dell’economia politica del comune vedi : Vercellone ed altri (2015), «Managing the commons in the knowledge economy », Report D3.2, D-CENT (Decentralized Citizens ENgagement Technologies).
Nell’epoca del neoliberalismo, l’appropriazione privata del comune si presenta in due forme particolarmente evidenti: l’appropriazione del pubblico (del demanio, dei beni pubblici e dei servizi pubblici, etc.) da parte dei privati e, seconda forma, l’appropriazione di quello che chiamiamo natura, ovvero i beni della terra e dell’ambiente, le potenze fisiche della vita etc. Che quei beni possano essere trasferiti ai privati sembra evidente e di fatto avviene. Sono beni materiali e naturali e il fatto di essere appropriati non sembra riguardare la loro sostanza. Senonché bisogna qualificare più attentamente queste appropriazioni. In primo luogo perché sia i beni pubblici sia quelli naturali sono inseparabili dalle condizioni storiche e dalle forme di vita che li configurano e dalle quali sono configurati. Vi è qui una determinazione “comune”, storicamente consistente, che non potrebbe essere tolta. E invece emerge qui una qualificazione di questo “comune” ad un tempo “formale” (perché puramente estrinseca) e “volgare” (perché assolutamente generica), che si adatta a questi atti di appropriazione. Il discorso diventa più pregnante, in seconda istanza. Voglio dire che, anche se i beni naturali e pubblici sono diventati, nell’evoluzione del moderno, merci, e si presentano, in questa condizione, immediatamente come prodotti del capitale (merci appunto), questa riduzione costituisce problema (e spesso produce ripugnanza). Infatti, benché quei beni, collettivi o naturali, costituiscano la materia stessa del produrre nell’età del capitalismo maturo – pure, quanto è naturale ci sembra appartenere ad una sfera che si dovrebbe mantenere intatta e libera da pretese di possesso; quanto è pubblico, nella sua buona sostanza, ci sembra essere residuo storico di volontà e di lotte collettive – quindi anch’esso illegittimamente appropriato dai privati.
Nell’epoca del neoliberalismo, l’appropriazione privata del comune si presenta in due forme particolarmente evidenti: l’appropriazione del pubblico (del demanio, dei beni pubblici e dei servizi pubblici, etc.) da parte dei privati e, seconda forma, l’appropriazione di quello che chiamiamo natura, ovvero i beni della terra e dell’ambiente, le potenze fisiche della vita etc. Che quei beni possano essere trasferiti ai privati sembra evidente e di fatto avviene. Sono beni materiali e naturali e il fatto di essere appropriati non sembra riguardare la loro sostanza. Senonché bisogna qualificare più attentamente queste appropriazioni. In primo luogo perché sia i beni pubblici sia quelli naturali sono inseparabili dalle condizioni storiche e dalle forme di vita che li configurano e dalle quali sono configurati. Vi è qui una determinazione “comune”, storicamente consistente, che non potrebbe essere tolta. E invece emerge qui una qualificazione di questo “comune” ad un tempo “formale” (perché puramente estrinseca) e “volgare” (perché assolutamente generica), che si adatta a questi atti di appropriazione. Il discorso diventa più pregnante, in seconda istanza. Voglio dire che, anche se i beni naturali e pubblici sono diventati, nell’evoluzione del moderno, merci, e si presentano, in questa condizione, immediatamente come prodotti del capitale (merci appunto), questa riduzione costituisce problema (e spesso produce ripugnanza). Infatti, benché quei beni, collettivi o naturali, costituiscano la materia stessa del produrre nell’età del capitalismo maturo – pure, quanto è naturale ci sembra appartenere ad una sfera che si dovrebbe mantenere intatta e libera da pretese di possesso; quanto è pubblico, nella sua buona sostanza, ci sembra essere residuo storico di volontà e di lotte collettive – quindi anch’esso illegittimamente appropriato dai privati.
Ci sembra… Eppure bisogna cedere all’evidenza e riconoscere che su questo argomento l’abitudine ha placato l’indignazione, i vantaggi industriali hanno cancellato le riserve morali. Quei beni costituiscono l’oggetto privilegiato dell’appropriazione capitalista – l’obiettivo del dispositivo giuridico privato e/o pubblico che realizza il “diritto di proprietà”. Un’appropriazione giuridicamente legittima che non differisce dalla, ma anzi integra la, appropriazione capitalistica in generale, come “appropriazione” del “valore del lavoro”, come estrazione di “valore” ed ipostasi giuridica e politica della produzione collettiva nella forma della proprietà privata e/o pubblica. Questo dominio sulle attività individuali e/o collettive che hanno istituito beni pubblici o naturali come appetibili ed usabili nella costruzione delle forme di vita, è proprio della produzione capitalista. Questo dominio è accentuato, nel capitalismo maturo, dalla sempre più piena sovrapposizione del modo di produrre e delle forme di vita.
Per taluni beni (pubblici o naturali) da alcuni decenni si parla tuttavia di un tipo di appropriazione (di proprietà) “comune”. Si è spesa molta retorica a questo proposito, si è preteso di definire un “terzo genere” di proprietà, una nuova forma di appropriazione oltre quelle praticate a tutt’oggi. Ma queste definizioni non hanno consistenza perché poggiano illusoriamente su una concezione espansiva del diritto di proprietà nella maturità capitalista: il comune è qui concepito o come estensione funzionale della proprietà privata o come istituzione partecipata e democratica della capacità pubblica di appropriazione. La nostra proposta è piuttosto quella di considerare il comune non come un terzo genere di proprietà ma come modo di produzione. A fronte della definizione “volgare” prima ricordata, questa ci sembra una definizione “propria”, “scientifica” del comune.
Prima di affrontare il tema “comune come modo di produzione”, cerchiamo di approfondire la definizione sostantiva del comune. Ora, a noi sembra che il comune costituisca un fondo ontologico, prodotto dall’umana attività lavorativa nel processo storico. Soubassement, sfondo ontologico della realtà sociale, prodotto dal lavoro: che cosa significa precisamente? Che il comune è sempre una “produzione”, è natura regolata o trasformata, o semplicemente prodotta. Il comune è dunque una risorsa solo in quanto è un prodotto – un prodotto del lavoro umano e quindi nel regime capitalista immediatamente attraversato da rapporti di potere.
Nell’età del lavoro cognitivo, il comune sussume ed evidenzia le qualità del lavoro cognitivo. E per evitare equivoci, ripetiamo che, quando parliamo di “lavoro cognitivo”, parliamo comunque sempre di “lavoro” – quindi di un dispendio di energia fisica e mentale, e comunque di un lavoro costituito nella continuità del rapporto capitalista e nella forma asimmetrica di tale rapporto. Continuità discontinua, cioè: continuità costretta ad un ritmo ciclico dai movimenti e dalle lotte che nel capitalismo sono sempre aperte fra comando sul lavoro e resistenza della forza lavoro. Rapporto asimmetrico: perché il rapporto di capitale è sempre diseguale ed irriducibile ad identità. È in forza di questa asimmetria che il capitale è produttivo – asimmetriche infatti sono le forze che in quel rapporto (di capitale) si confrontano – e la produttività è il risultato di un complicato incrocio (e conflitto) fra potenza del “lavoro vivo” e accumulazione di “lavoro morto”. Ora, nell’età del General Intellect (che significa dell’egemonia del lavoro cognitivo nella produzione capitalista) la nuova organizzazione sociale del lavoro è condizionata da una sempre maggiore efficacia produttiva del lavoro cognitivo; e quindi da una preminenza ontologica del lavoro vivo sul lavoro morto nel rapporto di capitale. Ora, infatti, nel rapporto di capitale, la forza lavoro cognitiva esprime, rispetto a quanto avvenuto nell’età industriale, un’iniziativa organizzativa della cooperazione ed una gestione autonoma del sapere. Ciò significa che il lavoro è venuto singolarizzandosi e che la forza lavoro produce a misura della propria soggettivazione. La forza lavoro non si presenta ora, nel rapporto produttivo capitalista, semplicemente come “capitale variabile”. Vi si presenta come soggettività, come potenza singolare. Il rapporto di capitale non sarà allora semplicemente attraversato da una contraddizione materiale, oggettiva, ma anche (e soprattutto) da un antagonismo soggettivo. Un’azione autonoma – fortemente soggettivata – è dunque immanente al rapporto di capitale e ne qualifica la produttività. [Lo aveva già intuito Gramsci quando, studiando la crisi capitalista degli anni ’20, aveva colto come motore antagonista della trasformazione produttiva i movimenti politici e la resistenza materiale della classe operaia. E concludeva: la “rivoluzione passiva” – che accompagna la nascita del fordismo – contiene implicitamente la costruzione dell’“egemonia” del soggetto operaio sulla produzione.] È su queste premesse che si potrà procedere alla costruzione del concetto di comune come “modo di produzione”. Il carattere “comune” della produzione è reso sostantivo da un soubassement non più semplicemente storico ma attivo, soggettivo, cooperativo, fondato sulla e precondizionato dall’organizzazione cooperativa, comune del lavoro. Eccoci cosi all’inizio di un percorso di definizione sostantiva del comune nell’età del lavoro cognitivo.
Questo cammino è difficile come sempre avviene a chi proceda in un’epoca di passaggio. Siamo infatti immersi in un processo di trasformazione dall’età industriale (fordismo) all’età post-industriale (epoca del General Intellect). Viviamo in una fase transitoria, nuovamente costretti ad una specie di “rivoluzione passiva” dentro la quale la forza lavoro cognitiva costruisce un suo proprio spazio produttivo e mette in evidenza la sua capacità di prefigurare e di predisporre le modalità della produzione. Questo passaggio possiamo riconoscerlo come momento di una tendenza nella quale la produzione mostra forme sempre più qualificabili come biopolitiche. E cioè:
(a.) quando per politico si intenda una vita indistinguibile dall’attività produttiva, nell’interezza del tempo e dello spazio di una società determinata. Questa condizione metamorfosa e riconfigura la struttura della “giornata lavorativa”, sovrapponendo lavoro e vita;
(b.) quando per bios si intenda una totalizzazione tendenziale della produzione sulla superficie terrestre. Il mondo della produzione diviene così ecologico in senso etimologico: la produzione sussume non solo il bios ma anche la natura.
Dentro questa tendenza vengono definendosi molte altre condizioni specifiche. Ne segue, ad esempio, che la “legge del valore”, come legge dello sfruttamento basata sulla misura temporale dei valori del lavoro e sulla loro astrazione, va in crisi. Essa prevedeva:
a. una misura della temporalità (dentro una “giornata lavorativa” omogenea) con la quale suddividere il tempo di “lavoro necessario” e quello del “plus-lavoro”;
b. una condizione spaziale chiusa, ovvero una concentrazione del lavoro, una cooperazione massificata quale era quella garantita dalla OSL (organizzazione scientifica del lavoro) nella fabbrica;
c. una considerazione ristretta del rapporto fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Ad esempio, il lavoro femminile, domestico o di cura, non era normalmente considerato nella quantificazione del valore, nella definizione stessa della “forza lavoro”;
d. una condizione ecologica ingenua, ovvero la considerazione della natura come realtà indipendente, non ancora attraversata dalla valorizzazione capitalista e valorizzata dal lavoro produttivo.
È su questa base, dunque, che si costruiva la tematica classica dell’astrazione del valore, meglio, di valori fissati nel tempo, spazialmente determinati, qualitativamente discriminanti, ecologicamente limitati. L’appropriazione capitalistica del valore globale della produzione sociale –per la quale possiamo ripetere l’epiteto di “comune volgare” – si determinava così attraverso lo sfruttamento del lavoro e l’astrazione, mediazione, equiparazione dei valori su questa scala. Di contro, ora, il “comune” – nell’epoca del lavoro cognitivo e cooperativo, del General Intellect – ha figura biopolitica ed è strutturato dalla produzione di soggettività. È “comune” in senso “proprio”, “scientifico”. Ne consegue che l’appropriazione capitalistica si presenta in una figura del tutto trasformata e che l’appropriazione del plus-lavoro si esercita non più attraverso lo sfruttamento diretto del lavoro e la sua conseguente astrazione ma piuttosto attraverso un nuovo meccanismo di appropriazione, caratterizzato dall’estrazione del comune come costituzione della produzione sociale complessiva. E se questo comune copre ogni tempo e spazio sociale di valorizzazione; se non c’è più spazio “fuori” dalla produzione capitalistica ed ogni funzione lavorativa è asservita alla valorizzazione, pure questo sfruttamento estrattivo è precostituito dall’autonoma organizzazione della cooperazione da parte delle soggettività cognitive – una potenza indipendente all’interno di una feroce macchina di sfruttamento. Per dirlo in altri termini: questo “comune capitalista” è sottoposto, nel rapporto di capitale, nella sua asimmetria, ad una tensione sempre più antagonista. Ogni vita è divenuta produttiva, l’estrazione del valore si esercita sulla globalità biopolitica, non più cioè solo sugli spazi e nei tempi esplicitamente dedicati al lavoro.
Questo quadro complessivo è reso possibile dal fatto che si è modificata la natura della forza lavoro. Senza voler ricostruire l’intera storia dello sviluppo capitalistico dell’ultimo secolo, possiamo ricordare come, nella prima metà del Novecento, le lotte operaie nelle metropoli capitaliste abbiano messo in crisi il modo di produzione industriale e come, nella seconda metà del secolo, automazione produttiva e socializzazione informatica, investendo la società, abbiano determinato il progressivo consolidamento del General Intellect. Alla massificazione fabbrichista del lavoro si è sostituita la singolarizzazione delle prestazioni lavorative, al comando di fabbrica l’organizzazione cooperativa del lavoro sociale, allo sforzo fisico del lavoro manuale l’impegno intellettuale dell’attività cognitiva – per dirlo in breve, alla massa la moltitudine. Se il nuovo modo di produrre nasce all’interno di queste condizioni, si può ritenere (come abbiamo più volte anticipato) che il “comune” venga prima del mercato capitalista del lavoro e prima dell’organizzazione sociale capitalista del lavoro, della cosiddetta divisione sociale del lavoro. Se il nuovo modo di produzione è – come lo sono stati tutti i modi di produrre del capitale – un terreno di lotta, oggi su questo spazio la posizione della forza lavoro cognitiva è relativamente privilegiata, rispetto al passato, dal fatto di avere nelle proprie mani potere sulla cooperazione, sull’organizzazione del lavoro e su quella dei saperi produttivi. Ne consegue che il capitale deve adeguarsi al comune. Ne subisce il modo di produzione, trasformando le figure dello sfruttamento e passando dall’astrazione dei valori industriali all’estrazione del valore sociale della produzione. Perde tuttavia, dentro questo nuovo rapporto, la sua “intera” capacità di comando.
Quando si studiano le teorie della valorizzazione attraverso estrazione, non ci si può nascondere però che non si tratti di cosa del tutto nuova. In particolare, nei capitoli del Capitale sull’“accumulazione originaria”, Marx aveva dato una larga descrizione delle forme nelle quali le terre comuni, i diritti comuni erano stati cancellati, e terre e diritti appropriati dal capitalismo nascente. Senza questa appropriazione privatistica del comune non sembrava, giustamente a Marx, possibile una prima accumulazione di capitale che permettesse l’avvio dell’epoca manifatturiera, base di una società industriale. È evidente però che non può darsi alcuna analogia fra quel “comune” precapitalista la cui espropriazione è necessaria alla costruzione del capitale ed il “comune” come oggi si presenta alla nostra esperienza.
Una seconda formulazione della teoria della valorizzazione “attraverso estrazione” (spesso rispecchiante l’accumulazione originaria marxiana) la si può leggere nel “marxismo occidentale”, da Francoforte all’operaismo al postcolonialismo, quando lavoro e produzione siano considerati nella luce della “sussunzione reale” nel capitale. Il passaggio dalla sussunzione “formale” alla sussunzione “reale” è rappresentato da un ciclo di sottomissione e di progressiva appropriazione da parte capitalista dei processi lavorativi e della stessa società produttiva, nella sua interezza. In una prima fase (formale) il capitale assorbe spazi e temporalità diversi, nella seconda fase (reale) il capitale impone una regola omogenea di produzione, di consumo, etc. Si può dire che in questo caso si passa dal “regime del profitto” al “regime della rendita”. Ma si tratta di una rendita, rispetto alla definizione dei “classici”, profondamente modificata. In che cosa consiste questa modificazione? Nel fatto che questa rendita è estratta direttamente da un comune produttivo. L’appropriazione capitalista del comune (nella “sussunzione reale” della società nel capitale) possiamo riconoscerla come produttrice di rendita solo quando assumiamo (e verifichiamo) che essa agisce su una società prefigurata e precostituita da una sostantiva attività produttiva del comune. Nessuna analogia, dunque, neppure in questo caso con le definizioni (tradizionali) sia della rendita assoluta che di quella relativa.
Come si è determinato questo nuovo quadro? La trasformazione è avvenuta sostanzialmente in due figure:
(a.) Quando il modo di produzione è divenuto interamente “biopolitico”. Il comando produttivo capitalistico ha penetrato la vita nella sua totalità. Di ciò abbiamo già parlato. Assistiamo cioè ad una totalizzazione dello sfruttamento, strutturata attorno al lavoro cognitivo ed alla sua capacità di mettere in atto, autonomamente, cooperazione. È a partire da questa condizione antagonista che la rete delle forme di vita è catturata dal capitale. Linguaggi, codici, bisogni e consumi, la struttura del sapere e quella del desiderio (nella ricchezza della loro singolarizzazione) sono messi a disposizione dei processi estrattivi del capitale.
(b.) La seconda figura nella quale si incarna questa nuova forma di sfruttamento è la finanziarizzazione. Essa rappresenta la forma nella quale il capitale misura l’“estrazione del comune”. Questa misura è espressa dal comando nella sua funzione monetaria, cioè dal denaro. Si potrebbe qui dire che il denaro è la figura perversa del comune e la sua totale mistificazione. Di fatto noi viviamo “immersi” nel “denaro”: è la stessa cosa di sperimentare che noi viviamo “assoggettati” nel “comune volgare”. Prigionieri di quell’assetto produttivo comune che il lavoro cognitivo ha creato e continua a produrre, e che il denaro misura e comanda. Da questo punto di vista è evidente che i processi finanziari non sono parassitari ma immanenti all’organizzazione della valorizzazione.
Concludendo, il capitale sviluppa il diritto di appropriazione privata e la sua mediazione pubblica, nella costruzione di un comando finanziario per lo sfruttamento del comune (ma di questo dovremo parlare in altra occasione).
Una volta così descritta l’appropriazione capitalista del comune, occorre ritornare alla considerazione delle trasformazioni della forza lavoro e delle tecnologie, anche a quelle dello stesso capitale che investe sulla vita e si fa investire da essa. Come già abbiamo detto la linea di sviluppo dello sfruttamento capitalista è discontinua ed il rapporto di capitale asimmetrico. Quando assumiamo il comune come modo di produzione, noi descriviamo il risultato del passaggio dalla fase industriale alla fase cognitiva del lavoro produttivo. Non occorre forse aggiungere che questo passaggio non è né lineare né omogeneo. Esso riproduce piuttosto discontinuità ed asimmetrie nel portare ad un estremo limite il proprio cammino e nel rappresentarlo nell’estrazione del comune. Il capitale perde qui la sua dignità che consisteva nell’organizzare la produzione e nell’imprimere alla società uno sviluppo. Il capitale è qui costretto anche a riorganizzare e a mostrare – in forma estrema – la sua natura antagonista. Ciò significa che la lotta di classe si sviluppa attorno al comune. E da quanto siamo venuti fin qui dicendo, appare chiaramente che ci sono due figure del comune: l’una è quella di un comune sottoposto all’estrazione capitalista del valore, l’altra è quella di un comune come espressione delle capacità cognitive e produttive della moltitudine. Tra queste due forme del comune non c’è solo contraddizione oggettiva ma antagonismo soggettivo.
Abbiamo già largamente insistito sui passaggi che hanno portato il modo di produzione a trasformarsi, lungo il XX secolo, da una figura industriale ad una figura post-industriale, dalla “grande industria” all’“industria socializzata”. Abbiamo anche insistito sul fatto che questi passaggi contengono al loro interno la trasformazione della forza lavoro, da quella dell’“operaio massa” a quella dell’“operaio sociale” fino alla “forza lavoro cognitiva”. Vale la pena ora di sottolineare che quando si dice “forza lavoro cognitiva”, non si dice solamente intellettualizzazione del lavoro e approfondimento della cooperazione allargata nella produzione, ma anche produzione di soggettività, ovvero soggettivazione del produrre come espressione di lavoro cognitivo e innalzamento delle quote di lavoro vivo nel rapporto produttivo. Così aumenta la valorizzazione sia per unità di valore sia per la totalità della produzione. Il rapporto tra capitale costante (comando, lavoro morto) e capitale variabile (lavoro vivo) si trasforma radicalmente. La forza-lavoro cognitiva si è affermata infatti come più produttiva, ed è soggettivamente più forte di quanto lo fosse ma forza lavoro-industriale.
Essa impone così un radicale mutamento allo stesso capitale, non solo nel passaggio dall’astrazione all’estrazione ma anche, come abbiamo già visto, nella sua struttura tecnica. Prendiamo ad esempio (fra i mille esempi che si potrebbero fare) le tecnologie e la composizione tecnica del biocapitale. In esse il saccheggio della natura e dei corpi ma d’altro lato la ricca circolazione del sapere medico, la concentrazione monopolistica della ricerca e la subordinazione ad essa dell’organizzazione pubblica delle prestazioni sanitarie ma d’altro lato il continuo aumento della “speranza di vita” (e mille altre composizioni antagoniste del biopotere), costituiscono in definitiva una macchina predisposta allo sviluppo di un “progetto biomedico di governamentalità della salute”. Esso è insieme dispotismo capitalista sulla natura e i beni naturali, appropriazione di beni culturali e pubblici ma anche produzione di dispositivi soggettivi di produzione di un comune biopolitico (vedi Sandro Chignola, Vita lavoro linguaggi. Biopolitica e biocapitalismo, EuroNomade 12 ottobre 2015). Altrettanto può dirsi delle tecnologie del capitale informatico. Anche in esse ogni algoritmo estrae valore dal lavoro cognitivo che viene monopolizzato dalle grandi strutture mediatiche ma, al tempo stesso, deve confrontarsi con l’irriducibile potenza del sapere degli operatori (che sono i veri assemblatori e costruttori degli algoritmi).(Vedi da ultimo Accélérations, sous la direction de Laurent de Sutter, Parigi, PUF, 2016). È a questo livello che si pone il problema politico. Come può essere contestato, resistito, bloccato il processo estrattivo? Ricordiamo sempre che le categorie giuridiche della proprietà (privata e pubblica) sono figure di legittimazione dell’appropriazione capitalista del comune. E tuttavia non possiamo non tener presente che i processi di privatizzazione del comune sono estremamente fragili poiché si sono modificati i rapporti di forza nel “modo di produzione” del comune. A fronte di un capitale costretto ad un rapporto produttivo, discontinuo ed antagonista, la potenza del lavoro cognitivo e cooperativo produce continue alternative.
La prima fragilità del comando capitalista è posta dall’affermarsi della potenza autonoma della cooperazione produttiva, cioè dall’egemonia “virtuale” del lavoro collettivo rispetto al comando. Si noti che il lavoro cooperativo e cognitivo costituisce oggi una massa davvero singolare davanti alla quale il comando capitalistico vacilla: una massa costituita da una moltitudine di singolarità. Se il comando capitalista sulla massa si era consolidato nel processo industriale di produzione, il dominio sulla moltitudine e l’inseguimento delle singolarità che la costituiscono, rappresentano un orizzonte indefinito e talora problema insolubile per il capitale. Il paradosso consiste nel fatto che la produzione, nel capitalismo cognitivo, esige una moltitudine di singolarità (perché è in essa che consiste la produttività). Singolarizzazione, soggettivazione, produttività costituiscono il “dentro/contro” che oggi la classe lavoratrice (non solo come “capitale variabile” ma come moltitudine, insieme di singolarità, rete linguistica e cooperativa) fissa contro il “capitale costante”, contro il padrone. Di qui, il continuo frammentarsi del processo, di qui le radicali difficoltà di comando. Di qui la crisi delle istituzioni della democrazia rappresentativa, nate dentro una costituzione materiale ancora determinata dai meccanismi dell’astrazione dei valori e di controllo nella società industriale.
Una seconda fragilità consiste nel fatto che il lavoro vivo cognitivo si riappropria in continuazione del “capitale fisso”, degli strumenti di lavoro e del sapere produttivo. La composizione tecnica del lavoro vivo cognitivo si arricchisce continuamente in questo modo e sempre più squilibra a suo vantaggio il rapporto di capitale. (Ci permettiamo di rinviare su questo argomento – appropriazione del capitale fisso da parte del lavoro vivo – ad un nostro lavoro di prossima pubblicazione: Assembly).
È dentro queste fragilità che si danno nuove resistenze all’appropriazione capitalista del comune. Non possiamo ovviamente soffermarci sulla totalità di queste ma possiamo elencare alcuni dispositivi d’azione che hanno cominciato a svilupparsi:
a. innanzitutto pratiche democratiche di appropriazione e di gestione dei “beni comuni”; b. l’insistenza nella contrattazione sindacale, fiscale e politica sul riconoscimento del comune come base della riproduzione sociale del lavoro e l’insistenza sulle capacità imprenditoriali delle singolarità messe a lavoro. Le lotte sul welfare vanno in questo senso e i comportamenti di resistenza assumono in questo caso qualità imprenditoriali e alternative;
c. nuove misure del comune cominciano infine ad essere proposte nella ricerca di “nuove monete” il cui valore sia stabilito non in riferimento al comando del capitale ma come misura dei bisogni sociali. La richiesta di un “reddito garantito” e lo sviluppo di monete alternative sono spesso poste in questa prospettiva.
Per concludere: quando il comune sia sottratto all’accumulazione/valorizzazione capitalista, esso si presenta aperto all’uso della moltitudine. Esso potrà allora essere affidato ad una regolazione amministrativa democratica e partecipativa. L’importante è riconoscere il comune come modo di produzione nella nostra società e come prodotto fondamentale del lavoro di tutti. L’appropriazione privata del comune non è, a questo punto, desiderabile dalla comune dei cittadini-lavoratori.
Fonte: Euronomade
Originale: http://www.euronomade.info/?p=7331
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