di Niccolò Cuppini e Mattia Frapporti
Una ricerca sui dispositivi di organizzazione del nostro tempo richiede l’adozione di prospettive in grado di attraversarlo, sia storicamente sia nelle sue complesse geografie. Uno dei vettori privilegiati per svolgere questa strategia di ricerca è quello della logistica, da intendersi in via preliminare quale eterogeneo apparato di tecniche, saperi e infrastrutture finalizzati alla circolazione (in primis delle merci). Le radici della logistica vanno rintracciate nelle nuove necessità militari e commerciali nate dalla «scoperta» di inedite dimensioni spaziali nella prima età moderna. Nel corso dei secoli, poi, la nuova logica della circolazione pervade gli spazi di terra e di mare, penetrando all’interno delle stesse aree urbane, con la costruzione delle prime metropolitane e dei grandi assi viari che nel Novecento saranno riempiti dalle automobili.
Ma è con la cosiddetta logistics revolution degli anni Sessanta che la logistica diviene un paradigma organizzativo complessivo, iniziando a ridefinire le forme della produzione fordista entro una nuova grande fabbrica senza pareti che tende a ricoprire l’intero territorio.
Ma è con la cosiddetta logistics revolution degli anni Sessanta che la logistica diviene un paradigma organizzativo complessivo, iniziando a ridefinire le forme della produzione fordista entro una nuova grande fabbrica senza pareti che tende a ricoprire l’intero territorio.
Non a caso la nostra epoca globale si apre all’insegna della retorica dei flussi e dell’interconnessione, ossia della circolazione planetaria sempre più rapida di merci, persone, saperi e capitali. In questo quadro usare la logistica come una lente per la comprensione delle dinamiche che strutturano il presente ha il pregio di poter contenere sia la dimensione circolante del globale che un’infinita punteggiatura del suo definirsi on the ground.
Un crescente numero di studi sta usando la logistica come cartina di tornasole per cogliere le modificazioni di innumerevoli processi: la ridefinizione delle forme della sovranità il cui territorio deborda dalle logiche classiche, seguendo le rotte logistiche; le trasformazioni del campo militare; i cambiamenti nell’organizzazione delle aree urbane; la complessiva ridefinizione dei sistemi di trasporto. All’interno di questo variegato campo, uno degli «sguardi logistici» è quello che attiene alle trasformazioni nei rapporti di produzione e di lavoro.
È del tutto evidente come questo processo sia profondamente mutato nel corso degli ultimi cinquant’anni. L’organizzazione basata sulla grande fabbrica fordista è andata a poco a poco modificandosi, superando la divisione netta tra momento per la produzione e momento per la distribuzione delle merci. La logistica stessa «è diventata gradualmente parte integrante del processo produttivo» (Brett Neilson), e la centralità dei siti produttivi è stata affiancata da quella dei magazzini di stoccaggio, delle infrastrutture di trasporto e degli interporti.
Proviamo a pensare, ad esempio, al ciclo che segue la realizzazione di un comunissimo computer portatile o di uno smartphone. Le materie prime per la componentistica elettronica (che si tratti di stagno, rame, nichel o altro ancora) sono spesso estratte dalle miniere dell’Africa Centrale, del Canada o della Russia. Di lì, i materiali grezzi vengono trasportati in Paesi come Thailandia o Indonesia per essere lavorati, e successivamente raggiungono la Cina, dove industrie enormi come la Foxconn (che impiega più di un milione di dipendenti nel Paese) si occupano dell’assemblaggio finale per i principali brand di elettronica (Apple, Samsung, Nokia ecc.). Il prodotto assemblato viene poi indirizzato ai grandi porti commerciali di Shangai, Shenzhen o Hong Kong, da cui gigantesche navi-container salpano dirette verso Los Angeles/Long Beach o Rotterdam, il principale scalo logistico europeo. Dalle loro banchine, imbarcazioni più piccole raggiungono hub come Genova o Trieste, dove i container vengono tradotti su gomma o rotaia e indirizzati su fitte trame autostradali e ferroviarie verso gli interporti che puntellano le periferie delle città. Solo allora un nuovo sciame di mezzi grandi o piccoli, carichi di prodotti, raggiunge gli store dei centri cittadini, o direttamente le nostre abitazioni.
Lungo questa catena di montaggio planetaria, i flussi di merci si muovono dunque ininterrottamente, dando vita a una serie di dinamiche sociali e politiche che coinvolgono anzitutto il mondo del lavoro. Così come l’intero ciclo di produzione, infatti, anche la moltitudine di lavoratori impiegati nel settore logistico dà forma a questo intreccio di scale locali e globali, e sottostà al continuo sovrapporsi di vecchie e nuove forme organizzative. In questo senso sono da un lato le stesse «multinazionali del mare» (Maersk Line, Msc o Cma Cgm), dall’altro le compagnie logistiche vere e proprie (Dhl, Ups, Brt, Sda ecc.), a indirizzare le trasformazioni del lavoro sia come paradigma complessivo sia nello specifico del «settore logistico».
Negli ultimi anni, nel Nord Italia una sequenza di scioperi ha portato in luce come una figura decisiva e spesso obliterata in questo processo sia quella dei facchini, situati nell’anello più basso della catena produttiva ma non per questo meno decisivi per farla funzionare. La grande concentrazione di persone nei magazzini, mansioni ripetitive e standardizzate, e una forte integrazione del «corpo-umano» col «corpo-macchina», rendono le modalità di lavoro del facchino affini a quelle dell’operaio-massa fordista piuttosto che dell’operaio sociale o del lavoratore digitale e cognitivo. Allo stesso tempo, però, le grandi compagnie multinazionali appaltatrici, la gestione diretta della forza lavoro affidata a soggetti terzi (quali le cooperative), precarietà lavorativa e la scarsità di diritti, fanno del facchino un simbolo dell’odierno sistema produttivo integrandolo in una complessa filiera che connette arcaismi e hi-tech. Se a ciò si aggiunge l’eterogeneità della provenienza geografica dei lavoratori nei magazzini, in buona parte migranti, si capisce davvero come questo settore sia emblematico per analizzare il presente globale da uno spettro molto ampio di punti di vista.
Negli ultimi anni, nel Nord Italia una sequenza di scioperi ha portato in luce come una figura decisiva e spesso obliterata in questo processo sia quella dei facchini, situati nell’anello più basso della catena produttiva ma non per questo meno decisivi per farla funzionare. La grande concentrazione di persone nei magazzini, mansioni ripetitive e standardizzate, e una forte integrazione del «corpo-umano» col «corpo-macchina», rendono le modalità di lavoro del facchino affini a quelle dell’operaio-massa fordista piuttosto che dell’operaio sociale o del lavoratore digitale e cognitivo. Allo stesso tempo, però, le grandi compagnie multinazionali appaltatrici, la gestione diretta della forza lavoro affidata a soggetti terzi (quali le cooperative), precarietà lavorativa e la scarsità di diritti, fanno del facchino un simbolo dell’odierno sistema produttivo integrandolo in una complessa filiera che connette arcaismi e hi-tech. Se a ciò si aggiunge l’eterogeneità della provenienza geografica dei lavoratori nei magazzini, in buona parte migranti, si capisce davvero come questo settore sia emblematico per analizzare il presente globale da uno spettro molto ampio di punti di vista.
Le nuove dinamiche della produzione e del lavoro appaiono dunque un settore privilegiato dove testare la «lente della logistica». Tuttavia, non sono certo gli unici ambiti a cui si può applicare questo sguardo. La molteplice adattabilità di questa prospettiva è proprio la caratteristica che la rende così interessante. In altri termini, il tratto peculiare della logistica sta esattamente nell’essere un vettore d’analisi dinamico e, proprio per questo, particolarmente adatto a cogliere le sfumature e le continue trasformazioni del nostro tempo.
Fonte: Rivista Il Mulino
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