La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 10 giugno 2016

Tra sfruttamento e precariato: indagini sul rapporto tra capitale e lavoro vivo

di Francesco Festa
Il capitalismo è una religione puramente cultuale», sosteneva Benjamin, che fa leva sui desideri diffusi di socialità, espressione e relazione. Il culto idealizza i principi di autonomia e libertà mentre dissemina nel sociale assiomi e ingiunzioni all’azione, a tal punto da far accettare come normale addirittura l’ossimoro di lavoro gratuito. Et voilà: le nuove frontiere del neoliberismo. Se il lavoro è la forma della socialità, con l’irrompere della soggettività nella produzione e nella riproduzione, la dimensione di culto si estremizza. Attraverso il lavoro, anche se deprezzato o non pagato, continua a giocarsi sul piano simbolico l’accettazione all’interno della società. Non fa una piega la tesi di Sergio Bologna, contenuta nel volume collettivo, curato da Emiliana Armano e Annalisa Murgia, Le reti del lavoro gratuito. Spazi urbani e nuove soggettività (ombre corte, pp. 124, euro 12) che insieme al volume di Federico Chicchi, Emanuele Leonardi, Stefano Lucarelli, Logiche dello sfruttamento.
Oltre la dissoluzione del rapporto salariale (ombre corte, p. 126,euro 12), indagano le manifestazioni estreme dello sfruttamento nei rapporti tra capitale e lavoro vivo. Due cartografie delle mutazioni materiali delle condizioni di vita sociali da luoghi privilegiati: le global city e le smart city, vale a dire Milano e l’Expo 2015.
Ma non è sufficiente la succitata tesi a spiegare le inaudite e sofisticate forme di lavoro, anzi, di sfruttamento. Da angolature eterogenee, ancorché con comuni orizzonti, i due volumi mettono le mani negli ingranaggi della precarizzazione, dei flussi finanziari globali, dei processi di femminilizzazione del lavoro, ma anche dei dispositivi di cattura del lavoro vivo tanto da rendere morale l’auto-sfruttamento. Sono ricerche elaborate collettivamente in convegni e seminari di autoformazione che raccolgono inchieste e una letteratura di parte più che decennali all’interno dei movimenti sociali e del precariato italiano intorno a una figura ormai maggioritaria, nonché molteplice nei suoi profili, del mercato del lavoro e delle economie urbane post-fordiste.
Figure che non hanno mai conosciuto alcuno statuto poiché incapaci di comprensione nelle tutele sindacali classiche. Il knowledge worker, i cui tratti distintivi sono le capacità personali, relazionali e organizzative: lavoratori autonomi che svolgono attività segnate dall’informalità, dalla libera gestione del tempo e dalla creatività personale, sottoposti alle «trappole della precarietà» e ai meccanismi dell’eterna promessa, ossia a tecnologie della precarietà.
Sono attività tipicamente neoliberiste: l’accumulazione capitalistica si regge sulla cattura della cooperazione sociale e produttiva, nondimeno il controllo disciplinare si ridisloca nei processi di soggettivazione, producendo cioè soggettività volontariamente asservite. Paradossalmente è un comando che si esprime attraverso la produzione di libertà: un dispositivo che organizza la produzione sociale incitando all’autonomia soggettiva. Non si tratta tanto di egemonia culturale, in termini gramsciani, quanto con Boltanski e Chiapello de Il nuovo spirito del capitalismo, di capitalismo che sulla libertà fonda il proprio successo.
SUSSUNZIONI URBANE
I due volumi illuminano alcune ipotesi sulle nuove forme lavorative. Se il rapporto salariale esplode frammentandosi, lo sfruttamento si approfondisce, dunque la stessa categoria marxiana di sussunzione non riesce più a coglierne la misura e i modi d’estrazione. In altri termini, le pratiche d’inclusione selettiva, le catene di comando, i dispositivi di cattura, che non hanno a che fare con la soggettività in forma di lavoro produttivo e salariato, riguardano la produzione e le sfere della riproduzione e della circolazione, cioè tutto il campo sociale.
Da un articolo di Marazzi sulle trasformazioni qualitative del lavoro, in Primo Maggio del 1978 e rieditato in appendice, Chicchi, Leonardi e Lucarelli parlano di logica dell’imprinting, vale a dire di una coercizione più profonda della sussunzione reale e formale, capace di sollecitare la soggettività a partecipare attivamente, con libertà e autonomia, al processo di produzione e di normazione.
I processi sussuntivi vengono analizzati dal prisma di Expo 2015: la città globale che cattura grandi masse di lavoro qualificato, sfruttandole nelle economie urbane del capitalismo delle reti. I voucher di Poletti o il Jobs act sembrano inseguire il divenire metropoli della città, ma è lo spazio urbano – secondo Lefebvre e Harvey – quale luogo privilegiato per i fenomeni speculativi e la «gentrificazione», da un lato, e dall’altro per le strategie di marketing che attirano tanto i capitali finanziari per le rendite quanto i knowledge workers e le start-up. Con la crisi lo spazio geografico viene ancor più patinato dal city branding. E le campagne elettorali municipali ampiamente pontificano sul brand.
Desideri e immaginazione, speranze e promesse: sono i dispositivi attraverso cui lo spazio si mercifica e produce oltre le soggettività un rapporto di assuefazione che non permette di distinguere l’auto-sfruttamento e la prestazione di lavoro gratuito, mentre lo spazio urbano diviene attrattivo per l’estrazione di valore dalla rendita e dagli investimenti immobiliari.
Il Marx del Frammento sulle macchine avrebbe visto probabilmente nelle smart city il crescere del «sapere sociale generale». Nell’operaismo italiano quelle pagine guidarono l’inchiesta nella metropoli come nuovo laboratorio della produzione e delle mutazioni del rapporto fra lavoro vivo e capitale industriale, quello che sarebbe diventata la città post-fordista e la «città neoliberale».
FRAMMENTI DI FUTURO
Oggi sono riprese, con molta minore carica conflittuale, da Mason nel suo Postcapitalismo per dimostrare che la crisi del capitale è in atto grazie alla conoscenza scientifica generalizzata e all’intellettualità di massa, per cui il valore prodotto dal lavoro manuale diventa progressivamente marginale e la cooperazione rende base miserabile il valore di scambio. Purtroppo tale tendenza non pare realizzarsi. Anzi, la generalizzazione del sapere sociale non ha provocato alcun risvolto rivoluzionario, men che meno conflittuale. A ben guardare, le attività dove al centro vi è la decrescente importanza del tempo di lavoro o l’informalità del rapporto hanno esteso il tempo lavorativo, dando luogo a nuove e stabili forme di dominio, mentre l’estrazione di plusvalore è divenuta sempre più assoluta.
Dalla Francia giungono forti insegnamenti di come impedire l’adozione di riforme che autorizzino lo sfruttamento. In Italia abbiamo leggi che richiedono invece un’operazione di ricucitura dei differenti segmenti sociali, anche a causa di anni di gestione neoliberale dei sindacati. Coalizzare quell’eterogeneità sfruttata vuol dire operare un «rovesciamento completo – per dirla con Benjamin – un gesto autenticamente politico e comunitario» di riconoscimento fra i subalterni per attaccare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. E ogni volta che il capitalismo attraversa crisi o mutamenti, come ricorda Deleuze, avviene un movimento di riconversione soggettiva con le sue ambivalenze ma anche le sue potenzialità.

Fonte: il manifesto 

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