di Roberto Ciccarelli
Per l’Istat il Jobs Act ha prodotto 242 mila occupati in più in un anno, tra il primo trimestre del 2015 e il periodo analogo del 2016. Renzi, che prova a darsi coraggio prima della batosta che lo aspetta ai ballottaggi del 19 giugno, ha preso fiato (corto) e haprovato a dare qualche colpo alla cyclette della propaganda. Con il tono della vittima, stavolta ha fatto riferimento al «rancore ideologico» di chi lo critica, sulla base dei dati. «Qualsiasi paese che non vive di rancore ideologico dovrebbe accogliere questi dati con uno sguardo sorridente». Con l’aria di chi porta la verità, e rischiara il cielo dagli stormi dei «gufi» che lo attaccano, Renzi ha combinato almeno altri due pasticci ideologici. Il primo è dovuto alla sua ormai leggendaria incapacità di comprendere i dati sull’occupazione: non solo non ha capito che i dati diffusi ieri dall’Istat riassumono l’andamento annuale, ma per dare fiato alla sua corsa stanca è arrivato a citare i dati dal febbraio 2014: «sono 455 mila posti in più, oltre 390 mila a tempo indeterminato» ha detto ieri davanti alla platea di Confcommercio.
Il presidente del Consiglio si riferisce dunque a un periodo antecedente all’entrata in vigore del suo Jobs Act (7 marzo 2015) e estende gli effetti della sua presunta pozione magica all’inizio del suo mandato, quando defenestrò il suo compagno di Pd Enrico Letta, con l’avallo di Napolitano.
Il presidente del Consiglio si riferisce dunque a un periodo antecedente all’entrata in vigore del suo Jobs Act (7 marzo 2015) e estende gli effetti della sua presunta pozione magica all’inizio del suo mandato, quando defenestrò il suo compagno di Pd Enrico Letta, con l’avallo di Napolitano.
Dopo avere mescolato le pere con le mele, Renzi è arrivato al sodo: ebbene, a suo avviso, questi «455 mila posti in più» sono dovuti proprio al Jobs Act: «Avere cancellato l’articolo 18 non ha tolto diritti, non ha permesso di licenziare ma di assumere». Un capolavoro ideologico: Renzi non dice che le nuove assunzioni dei «precariamente stabili» con il Jobs Act sono dovute ai 14-22 miliardi di euro che ha regalato alle imprese ai danni del contribuente. Ma dice che le imprese assumono perché sono sicure di essere libere di licenziare. Nascondere la realtà, e distorcerla, sono operazioni di un certo tipo di ideologia. L’ossessione con la quale Renzi ribadisce questa lettura dell’operato del suo governo rivela un rancore, ancora non elaborato, contro la realtà. I dati della «lettura integrata» sul mercato del lavoro fornita ieri dall’Istat parlano di un contributo «decisivo» dell’occupazione dipendente a tempo indeterminato, una sostanziale stagnazione del tasso di disoccupazione (11,6%) e ribadiscono il già noto: la ripresa dell’occupazione è trainata dagli over 50, cioè coloro a cui la riforma Fornero ha allungato l’età pensionabile. Dunque, altro che Jobs Act. Non solo: continua a ridursi l’occupazione in valori assoluti nella fascia d’età più produttiva: quella tra i 35 e i 49 anni, anche se il relativo tasso aumenta di 0,2 punti. Si allargano i divari di genere: gli occupati maschi sono il triplo delle donne (180 mila contro 62 mila); crescono i classici divari territoriali: l’occupazione è più consistente nel Nord e nel Centro (+0,9 e 0,8, meno al Sud (+0,6). Peggiora la condizione delle partite Iva e sembra migliorare la precarietà dei più giovani.
Questi dati non bastano a comprendere ancora gli effetti del Jobs Act. Nonostante le promesse, il governo non ha ancora trovato la soluzione a un problema tutto italiano: non esiste una fonte unica di rilevazione. Oltre all’Istat, ci sono il ministero del lavoro e l’Inps a darli. È a quest’ultimo che bisogna ricorrere per capire meglio i risultati del Jobs Act. Il 18 maggio scorso l’Inps ha rilevato che il taglio degli sgravi alle imprese nel 2016 ha fatto crollare i contratti a tempo indeterminato del 33%, il saldo è a meno 77%. Il record è dei voucher: +45% nel 2016. L’occupazione è inferiore al peggiore anno della crisi: il 2014. Nel primo trimestre del 2016 i contratti a tempo indeterminato sono crollati di 51mila unità, contro i 225mila di un anno fa. Dunque 162 mila in meno, proprio nell’anno dei contributi più alti. I 14 miliardi preventivati, ma forse in crescita, di incentivi pubblici alle imprese rappresentano oggi un trasferimento di ricchezza al capitale. Le perdite sono di tutti, i guadagni sono di pochi.
Fonte: il manifesto
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