La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 3 ottobre 2016

Al mondo nuovo senza bussola serve un Keynes che non c’è

di Michele Salvati
Il libro Regole, Stato, uguaglianza, di Salvatore Biasco, rischia di non raggiungere il pubblico cui è rivolto. L’ha pubblicato una casa editrice universitaria (Luiss University Press) e l’autore è un noto economista, ma non si tratta di un lavoro scientifico. C’è molta e buona economia nelle sue pagine, che però serve ad affrontare un problema politico: La posta in gioco nella cultura della sinistra e nel nuovo capitalismo, come recita il sottotitolo. I destinatari del libro sono coloro che hanno creduto e tuttora credono nei valori della sinistra, che provengono e in parte ancora militano nei partiti di questa parte politica, e che ora sono smarriti nel mondo nuovo in cui si trovano a vivere.
Essi sembrano dividersi in due campi opposti: o un «riformismo» sbiadito, con poche tracce del glorioso movimento politico che cambiò il mondo nei «trent’anni gloriosi» del secondo dopoguerra; o un estremismo ignorante degli effetti imprevisti e perversi di politiche radicali mal disegnate. Biasco sta in mezzo: col cuore è il Tony Judt di Guasto è il mondo (Laterza), un socialdemocratico vero che rimpiange la grande epoca della socialdemocrazia ed è convinto che a essa si deve e si può ritornare. Con la testa è un economista internazionale che conosce perfettamente le forze che hanno condotto al neoliberismo degli ultimi vent’anni del secolo scorso, e poi da questo alla globalizzazione sregolata (meglio, regolata secondo criteri politicamente inaccettabili) oggi imperante. 
Il fascino del libro sta largamente in questo combattimento tra cuore e testa.Biasco non prende vie facili, superficialmente polemiche, come spesso avviene in tanti libri di riformisti sbiaditi o di sinistri radicali, e la scarsa presenza di riferimenti al dibattito italiano di queste due parti politiche è particolarmente apprezzabile: l’argomentazione si colloca sempre a un livello molto più alto, di politica ed economia europee e internazionali. Ma, proprio per questo, il combattimento non ha vincitori: restaurare i pilastri del «mondo di ieri» — non quello di Stefan Zweig, il mondo precedente alla Prima guerra mondiale, ma quello della socialdemocrazia, dei «trenta gloriosi» che fecero seguito alla Seconda — richiede condizioni internazionali e interne alle società delle grandi potenze capitalistiche odierne che ancora non si intravvedono.
L’ordine neoliberale è stato scosso dalla grande recessione del 2007-08 e le voci critiche — di politici, economisti e scienziati sociali — sono sempre più forti e persuasive. Ma difettano le condizioni internazionali che consentirono alle idee di un economista geniale di trasformarsi in un benefico disegno egemonico mondiale: oggi manca un nuovo Keynes a preparare il terreno e mancano soprattutto le straordinarie condizioni di forza che consentirono agli Stati Uniti di ridisegnare i rapporti economici internazionali sulla base degli accordi di Bretton Woods. Mancanze per ora difficilmente rimediabili: quel disegno internazionale era stato la premessa necessaria dei «trenta gloriosi», ciò che aveva consentito l’attuazione delle politiche nazionali così apprezzate da Judt e Biasco.
Biasco lo sa benissimo. «Non basta che il modello (neoliberale) sia imploso per le sue contraddizioni. Finché un nuovo orizzonte politico e intellettuale — di principi, di governo della società, di creazione di ricchezza, di concezione dei rapporti sociali — rimarrà inarticolato e non riuscirà a generare una mobilitazione di massa, l’imprinting farà riapparire le idee neoliberali come unica saggezza convenzionale che l’opinione pubblica ha più facilità a percepire e a cui finisce per aggrapparsi». Così chiudono le dense pagine del libro. E al lettore verrebbe da aggiungere: magari l’opinione pubblica si aggrappasse a idee neoliberali. Quelle cui sembra aggrapparsi ora, sollecitata da movimenti populisti in forte crescita, mi sembrano idee assai più pericolose di quelle neoliberali.

Fonte: corriere.it

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