di Michele Salvati
Il libro Regole, Stato, uguaglianza, di Salvatore Biasco, rischia di non raggiungere il pubblico cui è rivolto. L’ha pubblicato una casa editrice universitaria (Luiss University Press) e l’autore è un noto economista, ma non si tratta di un lavoro scientifico. C’è molta e buona economia nelle sue pagine, che però serve ad affrontare un problema politico: La posta in gioco nella cultura della sinistra e nel nuovo capitalismo, come recita il sottotitolo. I destinatari del libro sono coloro che hanno creduto e tuttora credono nei valori della sinistra, che provengono e in parte ancora militano nei partiti di questa parte politica, e che ora sono smarriti nel mondo nuovo in cui si trovano a vivere.
Essi sembrano dividersi in due campi opposti: o un «riformismo» sbiadito, con poche tracce del glorioso movimento politico che cambiò il mondo nei «trent’anni gloriosi» del secondo dopoguerra; o un estremismo ignorante degli effetti imprevisti e perversi di politiche radicali mal disegnate. Biasco sta in mezzo: col cuore è il Tony Judt di Guasto è il mondo (Laterza), un socialdemocratico vero che rimpiange la grande epoca della socialdemocrazia ed è convinto che a essa si deve e si può ritornare. Con la testa è un economista internazionale che conosce perfettamente le forze che hanno condotto al neoliberismo degli ultimi vent’anni del secolo scorso, e poi da questo alla globalizzazione sregolata (meglio, regolata secondo criteri politicamente inaccettabili) oggi imperante.
Il fascino del libro sta largamente in questo combattimento tra cuore e testa.Biasco non prende vie facili, superficialmente polemiche, come spesso avviene in tanti libri di riformisti sbiaditi o di sinistri radicali, e la scarsa presenza di riferimenti al dibattito italiano di queste due parti politiche è particolarmente apprezzabile: l’argomentazione si colloca sempre a un livello molto più alto, di politica ed economia europee e internazionali. Ma, proprio per questo, il combattimento non ha vincitori: restaurare i pilastri del «mondo di ieri» — non quello di Stefan Zweig, il mondo precedente alla Prima guerra mondiale, ma quello della socialdemocrazia, dei «trenta gloriosi» che fecero seguito alla Seconda — richiede condizioni internazionali e interne alle società delle grandi potenze capitalistiche odierne che ancora non si intravvedono.
L’ordine neoliberale è stato scosso dalla grande recessione del 2007-08 e le voci critiche — di politici, economisti e scienziati sociali — sono sempre più forti e persuasive. Ma difettano le condizioni internazionali che consentirono alle idee di un economista geniale di trasformarsi in un benefico disegno egemonico mondiale: oggi manca un nuovo Keynes a preparare il terreno e mancano soprattutto le straordinarie condizioni di forza che consentirono agli Stati Uniti di ridisegnare i rapporti economici internazionali sulla base degli accordi di Bretton Woods. Mancanze per ora difficilmente rimediabili: quel disegno internazionale era stato la premessa necessaria dei «trenta gloriosi», ciò che aveva consentito l’attuazione delle politiche nazionali così apprezzate da Judt e Biasco.
Biasco lo sa benissimo. «Non basta che il modello (neoliberale) sia imploso per le sue contraddizioni. Finché un nuovo orizzonte politico e intellettuale — di principi, di governo della società, di creazione di ricchezza, di concezione dei rapporti sociali — rimarrà inarticolato e non riuscirà a generare una mobilitazione di massa, l’imprinting farà riapparire le idee neoliberali come unica saggezza convenzionale che l’opinione pubblica ha più facilità a percepire e a cui finisce per aggrapparsi». Così chiudono le dense pagine del libro. E al lettore verrebbe da aggiungere: magari l’opinione pubblica si aggrappasse a idee neoliberali. Quelle cui sembra aggrapparsi ora, sollecitata da movimenti populisti in forte crescita, mi sembrano idee assai più pericolose di quelle neoliberali.
Fonte: corriere.it
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