La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 3 ottobre 2016

Niente botte da Orbàn, ma il dato politico resta

di I Diavoli
Niente quorum, niente botte da Orbán: al referendum del 2 ottobre è andato a votare solo il 43,42 per cento degli aventi diritto (circa 8 milioni di persone). La soglia del 50 per cento, necessaria a validare la consultazione popolare, non è stata raggiunta. Il dato politico, però, resta. Sono andati alle urne 3,1 milioni di ungheresi e il 98 per cento ha detto no ai migranti e al programma di redistribuzione dei profughi in quote messo a punto dall’Unione europea. Il quesito era il seguente: «Volete o no che l’Ue possa obbligarci ad accogliere in Ungheria, senza l’autorizzazione del Parlamento ungherese, il ricollocamento forzato di cittadini non ungheresi?».
Al centro c’era il numero di persone da reinsediare: 1300. La lotta di Orbán aveva e ha una portata molto più ampia, come già scritto qui da #iDiavoliLongForm. Per il premier ungherese il referendum rappresentava consenso in patria, potere di negoziato con l’Ue anche per il futuro, ma soprattutto «indipendenza» da Bruxelles, che il 20 marzo 2016 aveva firmato l’accordo con Ankara per la gestione dei flussi verso l’Europa. Veniva stabilito il ruolo della Turchia come “diga” migranti e previsto anche il ricollocamento dei richiedenti asilo.
«L’Ungheria, per primo fra i paesi dell’Ue, ha consultato il proprio popolo al riguardo, e gli elettori ungheresi hanno rifiutato un sistema di ricollocamento obbligatorio dei migranti arrivati sul territorio dell’Ue. Oltre 3 milioni di elettori hanno espresso un’opinione in questo senso. Bruxelles dovrà tenerne conto», ha detto il premier Viktor Orbán commentando i risultati.
Un errore è stato fatto. Il primo ministro non ha tenuto conto di una variabile fondamentale: il tempo. Da un lato c’era la fretta di controbilanciare la minaccia interna che arriva da destra – quella del partito neonazista Jobbik guidato da Gábor Vona che ha già chiesto le dimissioni di Orbán – , dall’altro la smania di approfittare della crisi di identità dell’Unione europea per aumentare il potere di negoziato di Budapest, proprio adesso che Bruxelles deve scegliere che strada prendere sulle politiche di immigrazione.
Ha sbagliato le mosse, dunque, ma forse non la strategia. Orbán non ha intenzione di arrendersi. Ha detto che l’Unione europea «dovrà tener conto» del risultato del referendum, nonostante il quorum non sia stato raggiunto. Ha annunciato di voler mettere le mani sulla Costituzione ungherese, senza specificare come al solito. La sua retorica, infatti, si nutre di imprecisione e cresce nell’opacità degli slogan che inneggiano al rifiuto dei migranti. Comericostruito qui da #iDiavoliLongForm, la narrazione anti-migranti, studiata dal premier ungherese, segue sempre lo stesso schema: «Controllo, identificazione, e rimpatrio», «siamo contro il ricollocamento», «accoglienza zero in Ungheria». Ergo, il messaggio è sempre lo stesso: «Bisogna fermare l’immigrazione di massa, e finché i dirigenti dell’Ue non saranno in grado di farlo, la crisi sarà presente e si approfondirà». Lo diceva a febbraio di quest’anno, ma l’ha ribadito alle urne: «Conseguenze giuridiche ci saranno comunque». Il piano è di avviare dei negoziati con l’Unione, affinché l’Ungheria non sia in alcun modo costretta a ricollocare sul proprio territorio «il tipo di gente che noi non vogliamo».
Il riferimento è a un nemico percepito, a un’identità da difendere, a un “noi Cristiani” versus un immaginario “loro musulmani”. Orbán ha più voltesnocciolato la sua ricetta: «La polizia e l’esercito devono difendere l’Ungheria e l’Europa», devono «proteggere il nostro modo di vita», perché l’Ungheria è «un Paese con un migliaio di anni di cultura Cristiana». Qualche mese fa aggiungeva: «Noi ungheresi non vogliamo che il movimento mondiale di persone cambi l’Ungheria», «non vogliamo ancora musulmani».
Il suo portavoce, Zoltán Kovács, in un’intervista recente al quotidiano “La Stampa” spiegava: «Non siamo certo i primi e non saremo gli ultimi a costruire muri. Lo hanno fatto in Spagna, negli Stati Uniti, in Israele. Non ci piacciono, ma dobbiamo difenderci, non solo dai migranti: dal terrorismo e dalla dissoluzione della nostra cultura. Ogni Nazione ha un’identità. L’Europa ce l’ha nelle radici cristiane, romane ed ebraiche. L’Islam qui non c’entra niente». All’indomani del flop referendario, Kovács ha affermato che non si tratta di un fallimento: «Come al solito, guardate il dito e non la luna», perché –sostiene – «è stato una vittoria, una vittoria per la democrazia» e «il messaggio arriverà a Bruxelles in modo chiaro, il 98% degli ungheresi ha detto no alle quote».
Adesso che succederà? Di certo l’Unione non può ignorare le spinte xenofobe che stanno crescendo al suo interno, in Ungheria come in Francia, Germania e Olanda.
In atto c’è «un gioco pericoloso», ha detto il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz riferendosi al referendum indetto in un Paese che dovrebbe accogliere «solo circa 1.300 profughi». Secondo Schulz, Orbán sta minando «la legittimità della legislazione europea» al cui varo «aveva partecipato l’Ungheria stessa». La soluzione, almeno a detta del presidente del Parlamento Ue, sarebbe chiudere i rubinetti europei, ovvero tagliare i fondi: «Se alcuni paesi beneficiari che pensano di aver diritto alla solidarietà poi dovessero non essere solidali essi stessi, ciò sarà sicuramente oggetto di discussione nella verifica della pianificazione finanziaria dell’Ue».

Fonte: idiavoli.com 

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