di Marco Bertorello
Le fibrillazioni di Borsa degli ultimi giorni smentiscono i facili ottimismi sulle banche italiane emersi nel mese di ottobre e confermano invece il 2016 come anno difficile per l’intero comparto europeo. Un anno fatto di crolli di valori azionari, sofferenze non sostenibili, il caso internazionale di Deutsche Bank. Il sistema creditizio continentale, quello che a ridosso della crisi appariva il più solido e meno immischiato con gli scandali finanziari, ora sembra presentare il conto. Da tempo la Bce, nell’ottica di costruire l’unione bancaria, avverte di essere riuscita a stabilizzare il quadro e che ora spetti ai singoli paesi e ai loro attori economici approfittare di questo spazio temporale per attuare le famigerate riforme e tornare a essere competitivi.
La scorsa settimana ha inoltre sostenuto che il processo di consolidamento del sistema bancario abbia rallentato negli ultimi diciotto mesi, nonostante per quest’ultimo anno si registri un calo del numero di istituti di credito nell’eurozona da 5.614 a 5.475. Per la Bce la struttura bancaria è troppo dispersiva: troppe banche e troppo piccole, e nel loro essere piccole eccessivamente dipendenti da attività tradizionali legate ai margini d’interesse. Per la Bce la stagione dei bassi tassi d’interessi non sarà breve e perciò suggerisce una differenziazione degli impieghi. Infine il ritmo di concentrazione e acquisizione è modesto e nessun istituto, rileva Francoforte, è stato comprato al di fuori dell’eurozona. L’accusa di nanismo potrebbe essere rivolta principalmente al mondo finanziario tedesco, sono 1800 circa gli istituti teutonici, ma la strategia proposta, come spesso accade, finisce per avere ripercussioni in tutti i paesi, specialmente in quelli periferici. In Italia, per esempio, le linee interne al mondo bancario per farsi carico dei crediti deteriorati si stanno rivelando al di sotto della necessità. Il Fondo Atlante, come viene scritto da tempo su questa rubrica, non è sufficiente a fronteggiare il problema. Le adesioni restano circoscritte, utili per fronteggiare alcune emergenze, piuttosto che in grado di creare un effettivo mercato dei crediti deteriorati. Il problema è talmente aperto che in questi giorni Carige apre uno scontro con la Bce per chiedere di abbassare dal 42 al 25% il tasso di copertura degli incagli. I processi di fusione o di acquisizione poi non appaiono a una svolta e il futuro di Monte dei Paschi resta un’incognita. Se i problemi principali non sono affatto risolti, l’ingrediente riduzione dei costi appare la scorciatoia più semplice.
Il cosiddetto home banking coniugato con le difficoltà del settore appaiono la ragione per ristrutturare con metodi piuttosto tradizionali. D’altronde la cura dimagrante per il settore bancario italiano è in corso da tempo. Dal 2000 al 2015 sono stati avviati 48 mila prepensionamenti, e una drastica riduzione di sportelli. Le banche italiane non sono tra le più numerose, ma avevano proprio un elevato numero di filiali. Tale sproporzione in questi anni di crisi è stata parzialmente colmata, ma ancora a Cernobbio, lo scorso settembre, il Presidente del Consiglio annunciava un piano per un dimezzamento dei restanti 300 mila occupati del settore. L’approccio drastico è stato poi accantonato, ma non derubricata una sua più efficace modulazione. In definitiva quando il contesto generale peggiora, a pagare un prezzo elevato sono gli anelli più deboli del sistema. È il caso delle banche italiane. Un intervento pubblico diretto non può ancora essere escluso, ciò che resta un tabù è un intervento pubblico che non si limiti a puntellare il sistema, ma anche a prenderne una parte in gestione per iniziare un’opera di generale orientamento, per fare in modo che il fornir credito non sia sottoposto unicamente alle leggi del profitto, dunque di breve respiro.
Fonte: Il manifesto
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