di Antonio Floridia
Un interrogativo sconsolato, spesso, accompagna coloro che riflettono sullo stato critico della democrazia italiana: ma come si è potuto arrivare a questo punto? Ma non servono nostalgie o risentimenti: ricostruire una «memoria storica» della democrazia italiana è essenziale, se si vuole attrezzare una qualche risposta politica. Un recente libro di Marco Almagisti (Una democrazia possibile. Politica e territorio nell’Italia contemporanea, Carocci, 2016) può aiutare in questo senso.
È un libro che si segnala per l’originalità del suo approccio teorico, ispirato alla «politologia storica»: un approccio che adotta categorie e strumenti della scienza politica, applicandoli al «materiale» offerto dalla storiografia.
È un libro che si segnala per l’originalità del suo approccio teorico, ispirato alla «politologia storica»: un approccio che adotta categorie e strumenti della scienza politica, applicandoli al «materiale» offerto dalla storiografia.
Almagisti, in particolare, rilegge la storia della democrazia italiana a partire da due modelli teorici: l’idea delle «fratture» storiche con cui Stein Rokkan ha analizzato il processo di formazione dei sistemi politici nazionali e l’idea di «capitale sociale», così come elaborata da Robert Putnam. La prima parte del libro è dedicata a questi due modelli, al loro significato e anche alle loro possibili debolezze e ambiguità.
Questo approccio ci restituisce una storia, per così dire, «vertebrata»: una vicenda segnata da alcune «costanti» di lungo periodo. Non è però una lettura determinista o storicista: ad ogni grande tornante della vicenda italiana hanno agito le scelte strategiche degli attori sociali e politici, e hanno agito le loro forme di cultura politica (da intendere come i modelli cognitivi e valutativi attraverso cui gli attori si auto-comprendono come attori politici).
Una democrazia, in Italia, è stata «possibile» a partire dalle fratture storiche che hanno caratterizzato il processo di costruzione dello stato unitario: da quella centro-periferia a quella tra Stato e Chiesa, a cui solo più tardi si è aggiunta quella tra capitale e lavoro. Ed è stata possibile grazie alle dotazioni di «capitale sociale» che la vicenda storica ha prodotto in modo molto diseguale nelle varie articolazioni territoriali del paese.
UN ORDINAMENTO democratico si può consolidare se può «ancorarsi» ad una dotazione di capitale sociale, ad una «cultura politica pubblica», che lo legittimi. I partiti, accanto alla presenza di molti altri agenti intermedi, sono un elemento fondamentale di questo processo: è attraverso di essi che si può produrre «un ancoraggio democratico» (altro concetto-chiave del libro): sono i partiti che aggregano e mediano le domande sociali, gli interessi e i valori, le forme di coscienza e le identità collettive.
Sulla base di questa strumentazione teorica, Almagisti ripercorre le tappe della vicenda storica della democrazia italiana, assumendo una prospettiva peculiare, «quella dei rapporti tra il sistema politico nazionale e due società locali emblematiche, quali il Veneto ‘bianco’ e la Toscana “rossa”», analizzando le vicende di lungo periodo di queste aree, i diversi tipi di capitale sociale in esse prodotti e il ruolo degli attori politici.
UNA STORIA «LUNGA» che però ha potuto esercitare i suoi effetti solo grazie al lavoro di costante reinterpretazione che gli attori politici ne hanno compiuto nelle diverse giunture storiche. Così, se in Veneto si sono affermati «modi di regolazione» sociale che hanno «accentuato il senso di estraneità di gran parte della società locale nei confronti delle istituzioni politiche», – cultura di cui la Dc si è poi fatta interprete e mediatrice -, in Toscana hanno prevalso modelli di solidarietà civica che sono stati alimentati e rielaborati dalla cultura politica del movimento socialista e poi dal Pci. Traiettorie storiche molto diverse: e tuttavia, nella storia dell’Italia post-unitaria, nell’uno e nell’altro caso, si è trattato di un «capitale sociale fuori dallo Stato». Con l’Italia repubblicana cambia il contesto storico. I due grandi partiti di massa hanno «ancorato» queste culture politiche territoriali al nuovo quadro costituzionale: una mediazione essenziale, che tuttavia non colmava la fragilità delle basi reali di identificazione nelle nuove istituzioni democratiche. Altrove, in Italia, e specie nel Sud, mancavano quelle risorse istituzionali e culturali, che potevano fornire quell’«ancoraggio».
La storia della democrazia italiana è una storia insidiata dalla ristrettezza delle basi della sua legittimazione sociale e culturale: si è rivelata sempre debole quella «cultura di sfondo» che può dare ad una costituzione democratica la forza di un progetto socialmente condiviso, da difendere, sviluppare e interpretare nella vita politica di tutti i giorni. E solo in una peculiare costellazione storica – quella segnata dalla catastrofe bellica e dalla Resistenza – si sono potute creare le condizioni per una (relativamente) più forte «costituzionalizzazione» di un ordinamento democratico.
NONOSTANTE TUTTO, come scrive l’autore, quella della democrazia italiana (fino ad una certa fase, aggiungerei) è stata una «storia di successo». Una storia che ha retto fino a quando, e nella misura in cui, le culture politiche presenti nel paese hanno trovato nei partiti di massa interpreti e mediatori intelligenti. Se i partiti hanno permesso, tra il dopoguerra e gli anni Settanta, un processo di consolidamento democratico, la radice della crisi apertasi con gli anni Novanta va allora colta nel «disancoraggio» dei partiti, dalla perdita di quella peculiare capacità di mediare interessi e valori, culture politiche, territori.
Un processo che matura già negli anni Settanta e Ottanta (forse la vera, mancata «transizione» della democrazia italiana) e che culmina nella crisi che, comunemente, viene identificata con Tangentopoli. Ma, naturalmente, la vera data periodizzante è l’Ottantanove: la frattura di cultura politica incardinata sull’anticomunismo perde la sua centralità e, sommandosi alle tensioni sul fronte economico, provoca uno smottamento decisivo proprio in quel pilastro dell’«ancoraggio» partitico che, per la Dc, era rappresentato dal Veneto.
IL PRIMO VERO SEGNALE della crisi della «prima Repubblica» si coglie nel «naufragio del Veneto “bianco”» che si registra nelle elezioni regionali della primavera del 1990. Avviene una nuova «politicizzazione» della frattura centro-periferia, che la Dc non è più in grado di controllare: nuovi interpreti del localismo e dell’antico antistatalismo si affacciano sulla scena.
Diversa la traiettoria nelle zone «rosse»: la crisi e poi lo scioglimento del Pci provocano anche qui un «disancoraggio» tra capitale sociale e politica, e anche qui si riattiva la frattura centro-periferia: tuttavia, l’arrivo di un avversario come Berlusconi, che «ripoliticizza» la frattura anticomunista, permette agli eredi del Pci di rallentare la crisi. Ma i segni di uno scollamento lavorano in profondità, e trovano poi – con la nascita del Pd – una loro piena espressione: non si può più parlare, oggi, di una «subcultura rossa». Un’eredità secolare di cultura politica è stata dilapidata.
«LEADER SENZA PARTITI o partiti senza territori?», è l’interrogativo che si pone Almagisti nell’ultimo capitolo del suo libro: la risposta rimane aperta. Nuove «fratture» sembrano delinearsi, in Italia e in Europa, che attendono di essere adeguatamente interpretate da nuovi attori politici, specie a sinistra. Ma un dato appare certo: senza partiti non si potrà frenare il processo di disgregazione che oggi colpisce la democrazia italiana. Partiti nuovi o rinnovati radicalmente, che non si illudano di poter far rivivere modelli del passato: ma pur sempre partiti, che siano degni di questo nome.
Fonte: Il manifesto
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.