di Marco Bertorello
La progressiva esclusione dell’Italia dalla cabina di regia continentale, sembra aver già archiviato l’incontro estivo a tre di Ventotene. In molti si domandano come possa essere esautorata la «seconda potenza industriale» europea. Una formula, questa, viene definita nell’ultimo libro di Giuseppe Berta, Che fine ha fatto il capitalismo italiano? (Il Mulino, pp. 160, euro 14) «logora e tuttavia ancora in voga». Il testo di Berta ruota attorno un duplice interrogativo: il primo concerne lo stato degli assetti produttivi in Italia, il secondo, di rimando, quale relazione intercorra tra questi e quelli globali. In definitiva riflette sul capitalismo e la sua natura.
L’autore è uno storico dell’economia e da questo angolo visuale legge le trasformazioni intervenute e i dibattiti attorno a esse, ma ponendosi anche con lo sguardo verso presente e futuro.
L’autore è uno storico dell’economia e da questo angolo visuale legge le trasformazioni intervenute e i dibattiti attorno a esse, ma ponendosi anche con lo sguardo verso presente e futuro.
I processi di modernizzazione italiani sono avvenuti dentro una cornice dicotomica, oscillante tra progetti industriali su misura delle grandi imprese oppure, più modestamente, su progetti ancorati ai territori, capaci di rilanciare loro specificità e potenzialità. Da un lato cambiare, tentare un salto di qualità, dall’altro adeguarsi senza perdere di vista i propri connotati storici.
IL CONFRONTO si è sviluppato lungo tutto il Novecento, dai tempi di Giolitti, passando poi per fascismo e ricostruzione post-bellica. Da Einaudi fino a Carli. Negli anni Settanta la crisi del modello fordista sembrava trovare soluzione nell’affermazione della cosiddetta terza Italia, quella dei distretti, quell’Italia che superava i limiti della grande impresa. Un modello che appariva vincente non solo per le micro-relazioni su cui si fondava quanto per la sua capacità di incontro con mercati mutevoli, sempre più personalizzati, ove la dimensione di scala non risultava più decisiva.
La crisi, o meglio gli anni che l’anno preceduta e determinata, hanno ridimensionato questa prospettiva, lasciando un vuoto apparentemente incolmabile. È così che Berta, già nell’introduzione, risponde al quesito del titolo con un secco «no, un capitalismo italiano come se ne poteva parlare negli anni Sessanta e Settanta, quando ancora ci si interrogava sulla sua specificità, non esiste più».
Ma tale risposta è ricca di conseguenze analitiche e, forse, anche di prospettive che vanno oltre l’intento dell’autore. Non basta registrare quei mali che ormai sono talmente cronici nell’economia italiana da farne il tratto distintivo sia di ciò che resta della grande impresa come della media e piccola: bassa produttività, modesta capacità di innovare, specializzazione sui bassi segmenti merceologici.
MALI che nel tempo hanno fatto venir meno persino un quadro d’insieme, una coerenza sistemica da cui derivare un progetto per il futuro. Qui si tratta di capire se esiste ancora un modello capitalista.
Berta prende spunto dal Braudel che non considera il capitalismo una struttura totalizzante, ritagliando per l’Italia uno spazio ricoperto più dal mercato che dal capitale. Certamente il capitalismo è stata una formazione economica poliedrica e mutevole, capace di assorbire molteplici diversità dentro un disegno organico, ma la domanda che oggi si pone è la seguente: quanto capitalismo è rimasto in una delle potenze del G8 e del G20?
NEL DOMANDARSI se esista ancora un capitalismo italiano verrebbe da aggiungere il quesito se esista o meno un capitalismo in generale, almeno nei termini in cui eravamo abituati a considerarlo. Gli apparati produttivi italiani non reggono i livelli di iper-competitività imposti dal mercato, la grande impresa gode di un indiscusso primato tecnologico che le consente produzioni di massa e personalizzate.
Finanziarizzazione, debito e competitività globali forniscono un quadro inedito, dove rendita e lotta per il primato fanno sì che il mercato faccia pressione su tutti i fattori della produzione salvo il capitale.
L’«Economist» recentemente ha sostenuto che il 10% delle imprese mondiali genera l’80% dei profitti. Varrebbe la pena indagare se quest’economia di mercato non ha finito per mangiarsi il capitalismo e non viceversa.
Fonte: Il manifesto
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.