di Alessandro Barile
Carlo Formenti torna sui temi già indagati in Utopie letali, ma stavolta l’obiettivo della critica non si ferma alle tare di un pensiero antagonista, il cosiddetto post-operaismo, secondo l’autore ormai sussunto dall’ideologia onnicomprensiva del capitale. Per l’autore, infatti, “a partire dagli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso, le culture di sinistra hanno subito una serie di mutazioni sociali, politiche e antropologiche che non ne hanno semplicemente indebolito la capacità di resistenza nei confronti dell’egemonia liberal-liberista, ma le hanno trasformate in soggetti attivamente impegnati nella gestione dei nuovi dispositivi di potere” (pag. 7).
Formenti allarga il campo della riflessione partendo da un’intuizione decisiva: nel mondo di oggi le ragioni di classe e quelle della sinistra sono entrate in contraddizione e, addirittura, in opposizione. Oggi la “voce degli esclusi”, delle vittime dei processi di impoverimento e di proletarizzazione crescenti, di un certo proletariato metropolitano autoctono e migrante, sono rappresentate da variegate forme di populismo – reazionario o progressivo – che poco o nulla hanno a che fare con la sinistra classicamente intesa, ridotta al contrario a rappresentante di un ceto medio intellettualizzato sempre meno presente socialmente e sempre più contrapposto a quel rancore sociale prodotto dalla crisi.
Formenti allarga il campo della riflessione partendo da un’intuizione decisiva: nel mondo di oggi le ragioni di classe e quelle della sinistra sono entrate in contraddizione e, addirittura, in opposizione. Oggi la “voce degli esclusi”, delle vittime dei processi di impoverimento e di proletarizzazione crescenti, di un certo proletariato metropolitano autoctono e migrante, sono rappresentate da variegate forme di populismo – reazionario o progressivo – che poco o nulla hanno a che fare con la sinistra classicamente intesa, ridotta al contrario a rappresentante di un ceto medio intellettualizzato sempre meno presente socialmente e sempre più contrapposto a quel rancore sociale prodotto dalla crisi.
E’ un salto paradigmatico notevole quello che individua Formenti. Per più di un secolo anche la più riformista delle sinistre trovava la sua ragione sociale nella rappresentanza dei ceti inferiori della società. Oggi che sembrerebbe essersi capovolta questa relazione, o la sinistra fa i conti con il “populismo”, o è destinata non tanto a sparire, ma a ritrovarsi nel campo della nemicità di un massa di “nuovi barbari” prodotti dall’ordoliberismo europeista. Ma per “fare i conti col populismo” c’è necessità di liberarsi di una serie di cliché ideologici che nel tempo hanno funzionato da barriera al dialogo tra sinistra e popolo: sovranità nazionale, europeismo, cosmopolitismo, rappresentanza, sono solo alcuni dei temi caldi attorno a cui si è prodotta tale divaricazione politica. Per Formenti “negli ultimi anni le sinistre (tutte!) hanno regalato ai populismi di destra la rappresentanza degli interessi delle classi inferiori, accontentandosi di gestire interessi e diritti di individui e minoranze appartenenti alle classi medie colte, mentre solo i populismi di sinistra hanno cercato di raddrizzare il timone[…]Accettare la sfida del populismo a partire da questi eventi significa comprendere che non è possibile opporsi al capitale globale senza lottare per la riconquista della sovranità popolare la quale, a sua volta, comporta la riconquista della sovranità nazionale” (pag. 9). Questo uno dei passaggi chiave di tutto il discorso, capace di mettere in discussione un approccio ideologico della sinistra che ha confuso l’internazionalismo col cosmopolitismo: “difendere questa Europa oligarchica, ordoliberista e irriformabile significa scambiare il cosmopolitismo borghese per internazionalismo proletario”.
Qui si situa una delle lacerazioni sanguinanti della sinistra contemporanea: il recupero della sovranità nazionale viene confuso con il ritorno a forme di nazionalismo, ma in questo modo viene negata storicamente la funzione progressiva e democratizzante del concetto di nazione o Stato-nazionale, che è una conquista delle classi subalterne e non una mera forma di gestione del potere della borghesia in ascesa. A seguito della Rivoluzione francese, per la prima volta nella storia le masse spezzano la “cittadinanza di censo”, affermando l’idea di una formale eguaglianza giuridica di tutti i soggetti compresi nel territorio statuale. La nazione scaturita dalla Rivoluzione francese è allora strumento ideologico capace di includere in un unico destino soggetti sociali protagonisti del cambiamento politico.
Chiaramente, tra eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale passa la differenza esistente tra sovranità nazionale e sovranità popolare, ma l’una non è pensabile senza l’altra. Senza sovranità nazionale non è pensabile alcuna sovranità popolare, e non è un caso che lo Stato post-nazionale si affermi nel momento di maggior riflusso delle lotte di classe, proprio perché il capitale, nella sua forma ordo-liberista, tende ad abolire il concetto di nazione, sostituendolo con architetture governamentali statuali ma anti-nazionali. Questo si traduce culturalmente e ideologicamente nel “cosmopolitismo” borghese, la giustificazione progressista dell’abbattimento delle frontiere che, lungi dall’aprire spazi di agibilità e di trasformazione, chiudono invece ogni possibile rappresentanza formale delle classi subalterne.
E’ un Formenti “lucacsiano” quello che prende forma nelle pagine di questo libro. Un pensiero volto a recuperare la dimensione della totalità, dell’unitarietà della realtà, contro chi vorrebbe crearsi isole di autogestione o di sopravvivenza dignitosa nell’esistente. Un esistente che produce una polarizzazione sociale talmente elevata da uniformare, sempre seguendo il ragionamento dell’autore, le differenze di chi “sta in basso”. Ecco perché recuperare una dimensione populista potrebbe favorire la ripresa politica della sinistra. Non tanto (o non solo) perché in questi anni è stato il populismo a dare voce agli esclusi, ma perché è l’attuale organizzazione produttiva che rende omogenea una popolazione divisa al proprio interno ma unita nella sua avversione al ceto tecnocratico governamentale. Se questa è la direzione del presente e del prossimo futuro, l’obiettivo non è allora ricercare una “unità di classe” almeno al momento impensabile, quanto una “unità di popolo” contro la nuova aristocrazia tecnocratica.
Non stiamo viaggiando, sembra dire Formenti, verso un nuovo 1917 allora, quanto verso un nuovo 1789, e dentro questo processo aperto e contraddittorio torna utile l’indicazione gramsciana di egemonia. La “variante populista” può benissimo assumere – come nei fatti sta accadendo in Europa – una forma “di destra”, reazionaria, razzista, regressiva. Spostare l’asse politico di questa variante è un compito possibile, e la storia dell’ultimo ventennio latinoamericano dimostra che non è ineluttabile la torsione regressiva di certo populismo, ma questo può prendere anche strade progressive (che non significa “progressiste”) o esplicitamente socialiste. Il libro ripercorre non a caso le esperienze di Ecuador, Bolivia e soprattutto Venezuela, come esempi credibili e praticabili di sinistra populista in grado di inceppare i processi di globalizzazione neoliberista. Una variante populista non direttamente socialista, o socialista sui generis, che però in questo ventennio ha allargato gli spazi di partecipazione e conflitto dei subalterni, invece di rinchiuderli nella fobia sovranista cui vengono relegati da sinistra e destra occidentale.
E’ una lotta dentro la contraddizione del presente quella immaginata da Formenti. Una lotta che “descrive il conflitto sociale contemporaneo come guerra tra due mondi che, benché mantengano relazioni reciproche, appaiono sostanzialmente incompatibili, irriducibili l’uno all’altro e dunque “nemici” nel senso forte che Carl Schmitt attribuisce al termine: mi riferisco al mondo “immateriale” e “leggero” – in realtà materialissimo e pesantissimo – dei flussi (di segni di valore, merci, servizi, informazioni e membri delle élite che li governano) e al mondo dei luoghi in cui vivono i corpi di coloro che chiedono cibo, casa, lavoro e affettività” (pag. 256). Flussi contro luoghi, questa l’estrema sintesi che propone Formenti: “per combattere il colonialismo dei flussi, occorre partire dal basso, organizzando la lotta dei “nuovi barbari” delle comunità del rancore”. Soluzioni semplici non sono all’ordine del giorno. L’autore propone un ragionamento, di cui possono condividersi o meno le sintesi finali, ma che fa i conti con i problemi del presente da un punto di vista originale e credibile. Di questi tempi, non è poco.
Fonte: Carmilla online
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