di Sarantis Thanopulos
Cos’è il lavoro oggi? Fondamento della democrazia, diritto inalienabile, realizzazione della creatività umana? Questi sono pensieri avveniristici, come tutte le grandi idee del passato. Lavorare oggi è, nella grande maggioranza dei casi, un privilegio mal retribuito e precario a cui aggrapparsi con tutte le proprie forze. Espropria gran parte della vita privata e dello spazio degli affetti e ha come suo ideale l’automazione umana.
Lasciato nella corsa folle verso la crescente spersonalizzazione dei suoi processi, il lavoro arriverebbe, prima o poi, ad avere come unica sua ragione la produzione di lavoratori-automi e dell’occorrente per tenerli funzionanti, in piedi. Si può ben pensare, e sperare, che questa sia solo una previsione teorica: le risorse affettive e di pensiero di cui l’essere umano dispone impediranno il suo avverarsi. Tuttavia, le tendenze catastrofiche non hanno bisogno di dispiegarsi compiutamente nel loro percorso teoricamente prevedibile, per essere distruttive. Nel campo del lavoro si stanno producendo danni enormi, sul piano del piacere del creare e vivere, che, nella migliore delle ipotesi, occorreranno decenni per ripararli.
Il lavoro è desiderio piuttosto che bisogno e più si sposta nel campo di quest’ultimo, più i rapporti di produzione diventano iniqui e piatti. Spesso collegato alla necessità, alla fatica e al dovere, esso è, nella sua dimensione più autentica, una delle nostre più importanti fonti di piacere. Lavorando trasformiamo la materia di cui è fatta la vita e, insieme, il nostro modo di conoscerla, di amarla e di goderne. Colonna portante della sublimazione (l’estensione del piacere dei sensi al di là della contiguità sensoriale e della congiunzione dei corpi), l’esperienza lavorativa conserva sempre un carattere erotico, un nucleo sensuale. Strumento principale della coniugazione tra il bisogno di stabilità e il desiderio di trasformazione, usa l’invenzione, la scoperta, per rendere piacevole il legame tra la necessità e il caso.
Sotto forma di “elaborazione” (dei vissuti, dei sentimenti, dei pensieri) il lavoro penetra in tutti i campi della nostra esistenza. È fonte di piacere, ma anche di sofferenza: l’azione trasformativa patisce la resistenza dell’oggetto su cui opera, della sua particolarità, della sua irriducibile differenza. La sofferenza, dà la misura dello spostamento (luttuoso) dalla propria visuale precostituita che il lavoratore deve realizzare per essere creativo.
Diversa e molto logorante (sul piano psicofisico), è la sofferenza che nasce da un’assenza di creatività totale. Preso negli ingranaggi di schemi produttivi che rendono la sua azione impersonale, prevedibile e ripetitiva, il lavoratore vive in uno stato di allerta performativa, di una tensione psicocorporea senza evoluzione trasformativa/catartica, che comprime, rendendolo ischemico e rigido, il tessuto della sua esperienza soggettiva. L’alienazione del lavoro oggi è differente e ben più temibile di quella in cui il lavoratore era parte della catena di montaggio, un ingranaggio della macchina produttiva, ma pur sempre di materia umana. Al posto dell’incatenamento dell’uomo alla macchina, troviamo l’assimilazione, interiorizzazione della macchina da parte dell’uomo.
La prima forma di alienazione era una visibile e dolorosa costrizione esterna, la seconda è un virus psichico che si diffonde invisibilmente. La sofferenza è sorda perché il virus (il pensiero automatico), dissolve la trama psichica che cerca di accoglierla e di rappresentarla. Solo dove la sofferenza resta acuta, è possibile resistere a questa colonizzazione del proprio mondo interno.
Fonte: Il manifesto
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